Schede libri: la notte di Elie Wiesel

Messaggioda simo90 » 4 set 2008, 8:33

devo fare una relazione sul libro la nottte di elie wiesel, la traccia è questa:esprimi le tue impressioni a seguito della lettura dell'opera
Qualcuno può darmi una mano???

simo90

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Risposte:

Messaggioda Shady » 4 set 2008, 9:31

Non avendolo letto non posso dirti le mie impressioni, però ho trovato questo...

La notte
Di Elie Wiesel

L’anno della prima pubblicazione è il 1958 in Francia dove Wiesel si trasferì nel dopoguerra e dove lavorava come giornalista, mentre la traduzione dell’edizione in italiano è a cura di Daniel Vogelmann.
‘La notte’ è un libro che racconta della difficile e tragica esperienza, che coinvolse l’autore e la sua famiglia nel periodo dell’Olocausto nazista, affrontando di essa tutti gli aspetti. Il libro è puramente autobiografico. La vicenda è raccontata dalle prime avvisaglie di antisemitismo e dalla segregazione nel ghetto, sino alla fine della prigionia nei campi di concentramento . Il libro è uno dei massimi esponenti di quella corrente letteraria mossa dall’impulso di ricordare la persecuzione semitica da parte dei nazisti, e spicca fra tutti per la sua capacità di riportare in maniera così reale la terribile vicenda. Nel libro si trovano contenuti forti e anche paurosi, però sono forse questi che conferiscono una trascrizione più corretta del libro. Cioè senza di essi, forse, il lettore non sarebbe veramente consapevole di cosa l’autore ha vissuto. Conferiscono a dare un aspetto di verità ad una vicenda così tragica e spaventosa da essere impossibile rivivere, per fortuna, da dietro alle pagine. La trama racconta di Elie, ebreo quindicenne, che studia la bibbia e la legge ebraica con tutti i suoi aspetti mistici e sacri. A sconvolgere la sua vita e quella di Sighet, città della Transilvania, è la conquista nazista e la diffusione dell’odio verso gli ebrei. Viene trasportato, o meglio deportato, verso i centri di concentramento, veri e propri campi attrezzati per lo sterminio. Qui il ragazzo conosce la sofferenza, la fame, la sete e la disperazione che tutte le situazioni che vive portano. Costretto a subire lo sfruttamento e l’odio combatte ogni giorno per arrivare a fine giornata e prendere la sua modesta razione di pane e acqua. In queste condizioni sviluppa sempre più con l’andare del tempo un istinto di sopravvivenza che lo porta a dedicarsi sempre più solamente a se stesso. Tenere la sua vita stretta, combattere contro tutti. Più nessuno è tuo fratello. Da una parte le SS spietate e mostruose, dall’altra i compagni di stanza. Colpisce una frase nel libro: “-Ascoltami bene piccolo; non dimenticare che sei in campo di concentramento. Qui ognuno deve lottare per se stesso e non pensare agli altri. Neanche al proprio padre. Qui non c’è padre che tenga, né fratello, né amico. Ognuno vive e muore per sé, solo. Ti do un buon consiglio: non dare più la tua razione di pane e di zuppa al tuo vecchio padre. Tu non puoi fare nulla per lui, e così invece ti stai ammazzando. Tu dovresti al contrario ricevere la sua razione. – Lo ascoltai senza interromperlo. Aveva ragione …”. Nonostante tutto egli rinnega i suoi pensieri naturali di vivere solo per se. Si costringe a non abbandonare mai il padre, a condividere con lui ogni pezzo di pane, fino alla fine. I tedeschi, intanto, continuano a subire sconfitte su sconfitte e sono costretti ad indietreggiare verso il centro. Pur senza motivi militari o politici, anche gli Ebrei sono costretti a tornare indietro. È l’inizio delle marce estenuanti, oltre i possibili limiti fisici. Da Buma a Gleiwitz, da Gleiwitz a Buchenwald all’interno di vagoni merci. È la fine della pazzia, l’ora dello sterminio finale. Il padre di Elie si ammala: dissenteria. Viene picchiato per la sua razione di cibo, molestato e buttato dal letto. Sarà una manganellata sulla fronte a privargli, infine, la vita. Di fronte al figlio di quindi anni. Da qui sino alla fine la vita per lui non aveva più importanza. Egli dice: “Dopo la morte di mio padre nulla mi toccava più […].Passavo le mie giornate in apatia e con un solo desiderio: mangiare. Non pensavo più a mio padre, né a mia madre.”

Il libro lascia, come detto prima, un’inconfondibile segno nell’animo di chiunque lo legga. Ha molti aspetti che potrebbero essere analizzati. Aspetti che sono legati all’inumano pensiero nazista, basato sulla superiorità tedesca e sull’odio razziale. Vorrei, però, parlare della religione e trascrivere uno dei molti passi che mi hanno colpito.
Wiesel parla delle impiccagioni e racconta la storia dell’Oberkapo del 52° commando dei cavi. Un’olandese alto più di due metri, noto per la sua bontà d’animo. Egli aveva un aiutante, chiamato pipel. Questo era un ragazzino dal volto fine e bello, incredibile in quel campo. Con l’accusa di sabotaggio vennero condannati a morte:
“Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le SS sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. […] Il Lagerkapo si rifiutò di servire da boia. Tre SS lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
-Viva la libertà! – gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
-Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me.
Ad un cenno del capo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.
-Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
-Copritevi!
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora … Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
-Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
-Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca.”
Elie Wiesel è stato educato con una ferrea base di religione. Lui usava trascorrere i suoi pomeriggi adolescenziali nella sinagoga in contemplazione delle scritture sacre. Inoltre, il padre è un elemento importante nella comunità ebraica di Sighet. Per il ragazzo Dio e la religione erano il metodo con cui innalzarsi, con cui crescere e maturare. Più si dimostrava buono e puro e più era vicino a Dio. Si può perdere una fede così? Una fede su cui si basa la stessa esistenza e quella degli altri? Il periodo di reclusione nel campo di concentramento ha però mutato, anzi sconvolto, gli equilibri di Wiesel. Dio non è più presente nella vita del lager. La visione delle persone che si buttano sui reticolati elettrici, di quelle che si uccidono per un posto per dormire, di un figlio che uccide il padre per un pezzo di pane, delle SS, delle loro selezioni, delle loro torture e del loro odio incondizionato rende inevitabile che i fondamenti di amore e di perdono su cui l’idea di Dio poggia vengano meno. Secondo tutte le religioni monoteiste Dio ha creato l’uomo e gli ha creato il mondo su cui essere felice. La volontà divina sta nell’amore fraterno e nel perdono, nell’onore verso Dio e verso se stessi. Pensando alla vita nei campi di concentramento ogni cosa elencata non trova spazio. Come non trova spazio nell’idea razziale. Ogni persona nei lager si sarà sentita certamente abbandonata dal suo credo. Sola, senza alcun aiuto. Ecco perché Dio se né va dalla mente di molti assidui credenti. Perché ha creato l’uomo in grado di poter ideare, di poter fare lo sterminio? Perché ha lasciato che il suo popolo prediletto venga sterminato? Perché non è intervenuto? Per la sola questione del libero arbitrio? Queste le domande che ogni deportato si sarà posto. È così che una preghiera non è più un grazie colmo di bene, ma una cosa che somiglia sempre più all’unico aggancio di speranza. Forse anch’esso dettato dall’istinto di sopravvivenza. Infatti, non v’è una nota di felicità e di gioia nel libro. L’unico sentimento positivo ritrovabile è la speranza, appunto, ma anch’essa in piccole dosi. La ricerca della felicità si trasforma nell’istinto più antico di sopravvivenza. Il mantenimento della purezza viene ostacolato dallo stesso istinto. La felicità consiste nel trovare del cibo, nell’alimentarsi, anche con mezzi che non hanno niente di genuino. La tragedia dell’Olocausto è quella dello sterminio. A ciò si lega la fame e il lavoro disumano, oltre i limiti possibili, la disperazione e vedere tragedie su tragedie. Campi di prigionia non come prigioni, per confinarvi gli uomini che hanno violato la legge, ma per uccidere. Certo è che la violenza e il sopruso subito da tutti i deportati non può che essere un mezzo con cui perdere la voglia di vivere. Ne è un esempio il suicidio di Primo Levi che per la sofferenza del ricordo delle persone perse nei lager perse ogni forza di vivere.

Shady

 

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