storia

Messaggioda ocia » 25 set 2008, 12:45

ciao.. avrei bisogno di una mano per un approfondimento di storia..
avrei bisogno di qlk articolo riguardo alla psicologia e alla personalità di Luigi XIV!!
grazie mille in anticipo :)

ocia

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Messaggioda pabla90 » 25 set 2008, 14:21

vedi se questi due documenti possono esserti d'aiuto

Documento n. 1: La corte di Luigi XIV
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Le cerimonie della camera da letto
Non è sufficiente rammenta¬re qui le cerimonie come una curiosità, come un oggetto impolverato in un museo, che desta stupore per la sua sin¬golarità; dobbiamo invece farle rivivere passo passo in modo da comprendere l'or¬ganizzazione e la funzionalità delle cerimonie di corte.
Una delle cerimonie aveva come scenario la camera da letto del re. La descriviamo come descriveremmo un processo lavorativo in una fabbrica, o l'andamento di la¬voro in un ufficio, o ancora il rituale regale di una tribù
primitiva: alludiamo al lever del re, al suo risveglio.
Verso le 8 del mattino il re viene svegliato dal primo ca¬meriere particolare (il valet de chambre) che dorme ai piedi del letto regale. Le por¬te vengono spalancate dai paggi. Uno di essi intanto ha avvertito il grand chambellan, un altro ha avvertito la cucina di corte per la colazione, un terzo si pone sulla porta e la¬scia entrare soltanto i signori che hanno diritto d'ingresso.

Le “entrées”
Il diritto a entrare nella stan¬za del re era regolato con molto rigore: esistevano sei diversi gruppi di persone che potevano entrare successivamente. Per prima vi era l’entrée familière cui prendevano ¬parte soprattutto i figli legittimi e i nipoti del sovrano, le principesse e i prìncipi di sangue reale, il primo medi¬co, il primo chirurgo, il primo cameriere personale e il pri¬mo paggio. La seconda en¬trata, la grande entrée, era riservata ai grands officiers de la chambre et de gardero¬be (questi titoli sono intradu¬cibili in italiano perché se ne falserebbe il significato) e ai signori della nobiltà ai quali il sovrano aveva concesso tale onore. Seguiva poi la premiè¬re entrée per i lettori del re, l'intendente delle feste e dei divertimenti. Quarta veniva l'entrée de chambre che comprendeva tutti gli alti funzionari, i ministri e segre¬tari di Stato, i consiglieri di Stato, gli ufficiali della guar¬dia del corpo, i marescialli di Francia e altri. L'accesso alla cinquième entrée dipendeva dalla buona disposizione del primo cancelliere e natural¬mente dal favore del sovra¬no. A questa entrata parteci¬pavano signori e dame della nobiltà che godevano di tale favore e avevano il privilegio di avvicinarsi al re davanti a tutti gli altri.
Vi era poi una sesta entrée, ed era la più ricercata di tutte. Avveniva non attraverso la porta principale della camera ma attraverso una porta secondaia: era a disposizione dei figli del re, an¬che quelli illegittimi, insieme alle loro famiglie. Appartene¬re a questo gruppo voleva di¬re godere di un favore parti¬colare; infatti i suoi membri potevano entrare in ogni mo¬mento nelle sale reali e pote¬vano restarvi fino a che il re si recava a messa e perfino quando era malato.

Il significato simbolico
Dopo il risveglio, ogni mem¬bro della corte che entrava in contatto con il re aveva un compito preciso: chi sfilava la manica destra della camicia da notte, chi la sinistra; chi gli prendeva la camicia da giorno; chi lo aiutava ad al¬lacciarsi le scarpe; chi gli cingeva al fianco la spada; chi gli faceva indossare la giubba ecc.
L'aspetto che maggiormente colpisce in questa cerimonia è la rigorosa precisione or¬ganizzativa. Non si trattava però, è evidente, di un'orga¬nizzazione razionale in senso moderno, anche se ogni mossa era predeterminata, ma di un tipo di organizzazione in cui ogni gesto conser¬vava quel carattere di presti¬gio che era a esso legato, in quanto simbolo della divisio¬ne del potere.
Il re utilizzava i suoi momen¬ti più privati per stabilire differenze di rango ed elar¬gire distinzioni e manifestazioni di favore o di sfavore. Nella struttura della società di corte e di questa forma di governo l'etichetta aveva una funzione simbolica di grande importanza. Il nor¬male gesto di sfilarsi la ca¬micia da notte in quel conte¬sto assumeva subito un di¬verso significato. Il re infatti lo trasformava, per i nobili che vi prendevano parte, in privilegio che li distingueva dagli altri. La partecipazione o l'autorizzazione ad avvici¬narsi al re non avevano, a prima vista, alcuna utilità pratica, ma ciascun gesto ne! corso della cerimonia aveva un suo valore di pre¬stigio accuratamente gra¬duato, che si comunicava a quanti vi prendevano parte. Il valore di quell'atto diven¬tava un «feticcio del presti¬gio»: serviva cioè a indicare la posizione del singolo indi¬viduo nell'equilibrio di potere tra i vari cortigiani, equili¬brio che era regolato dal re ed era estremamente labile.
La nobiltà si sentiva legata all'etichetta e alla corte con un obbligo primario che non scaturiva dall'esercizio di de¬terminate funzioni: la nobiltà di corte, infatti, era stata al¬lontanata da tutte le funzioni politiche. Non si trattava neppure di guadagno; miglio¬ri possibilità in questo senso si sarebbero potute trovare altrove. L'obbligo primario scaturiva invece dalla neces¬sità, sempre presente, di af¬fermarsi in quanto aristocra¬tici di corte, sia isolandosi ri¬spetto alla spregiata nobiltà di campagna, sia rispetto al¬la nobiltà di toga e al popolo, e di mantenere intatto o ad-dirittura aumentare il presti¬gio conquistato.
Gli aspetti psicologici
La vita nella società di corte non era affatto tranquilla. Le persone che ne facevano par¬te erano numerosissime. Esercitavano pressioni reci¬proche, lottavano per le oc¬casioni di prestigio e la posi¬zione nell'ordine gerarchico, Gli scandali, gli intrighi, la competizione per il rango e per il favore del re non cessavano mai: chi era un giorno sulla cresta dell'onda poteva trovarsi l'indomani in declino, non esisteva nessuna sicu¬rezza. Ciascuno doveva cercare di legarsi ad altre per¬sone la cui posizione era mol¬to elevata ed evitare inimici¬zie non necessarie, meditare con cura la tattica di lotta contro nemici inevitabili, do¬sare con la massima preci¬sione l'allontanamento e l'av¬vicinamento rispetto a tutti gli altri secondo il proprio ce¬to e la propria quotazione. Non era «psicologia», in sen¬so scientifico, quella capa¬cità, derivante dalle neces-sità della vita di corte, di rendersi conto del caratte¬re, dei motivi, delle capa¬cità, dei limiti altrui. Questi uomini meditavano sui gesti, sulle espressioni di ogni al¬tra persona, come esami¬nassero accuratamente tut¬te le manifestazioni dei loro simili per interpretarne il si¬gnificato, l'intenzione e il pe¬so. Ma quest'arte dell'osservazione non era applicata soltanto agli altri, si esten¬deva all'osservatore stesso. Si sviluppava insomma una forma specifica di osserva¬zione di sé. Questo tipo di osservazione mira all'autodi¬sciplina nel rapporto socia¬le-mondano.
«Chi conosce la corte è pa¬drone dei propri gesti, dei propri occhi e del proprio vi¬so; è profondo e impenetrabile; dissimula i cattivi servigi, sorride ai suoi nemici, re¬prime i propri umori, cela le passioni, smentisce il pro¬prio cuore, parla e agisce contro i suoi stessi senti¬menti.»
L'uomo di corte deve cono¬scere molto bene le proprie passioni per poterle dissi¬mulare. L'opinione che l'egoismo sia la molla dell'agi¬re umano non è nata nella società capitalistico-bor-ghese basata sulla competizione, ma in quella di corte, fondata anch'essa sulla competizione.
È difficile calcolare il dosag¬gio di un'esplosione emotiva. Questa rivela i veri sentimen¬ti della persona in una misu¬ra che, non essendo calcola¬bile, può essere dannosa, dando buone carte in mano ai rivali. Inoltre, è indice di inferiorità e questa è appun¬to la situazione più temuta dall'uomo di corte.
Così la competizione inelimi¬nabile dalla vita a corte im¬pone di dominare i sentimen¬ti a favore di un atteggiamento accuratamente calco¬lato e sfumato nel rapporto con gli altri. La struttura di questa società, la natura dei rapporti tra i suoi membri la¬scia loro ben poco spazio alle manifestazioni affettive spon¬tanee.
(Da un testo del sociologo Norbert Elias)



Documento n. 2: Giudizi sulla politica di Luigi XIV
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Presentiamo di seguito due voci contrastanti sulla politica di Luigi XIV.
Quella di François Fénelon (1651-1715), arcivescovo di Cambrai e letterato, fu la prima voce che si alzò contro l'assolutismo del re Sole. Pur con la deferenza dovuta al suo sovrano, in una lettera mai recapitata del 1695, il religioso accusò Luigi XIV di aver ridotto in miseria la Francia per ricercare a ogni costo la propria grandezza.

« La natura vi ha dotato, Sire, di un animo giusto ed equo, ma coloro che vi hanno alle¬vato vi hanno inculcato come elementi della scienza del go¬vernare solo la diffidenza, la gelosia, il distacco dalla pra¬tica della virtù […].
Da circa trent'anni i vostri principali ministri hanno scon¬volto e rovesciato tutte le an¬tiche massime su cui poggia¬va il governo dello Stato per accrescere al massimo la vo¬stra autorità che era divenuta la loro perché era nelle loro mani. Dello Stato e delle nor¬me che lo regolano non si è più parlato; si è parlato solo del Re e di ciò che gli piaceva. Le vostre entrate e le vostre spese sono state aumentate senza fine. Vi hanno esaltato fino alle stelle per aver supe¬rato la grandezza di tutti i vo¬stri predecessori messi insie¬me, cioè per aver impoverito la Francia intera allo scopo di introdurre a corte un lusso mostruoso, le cui conseguen¬ze non avranno rimedio. Han¬no voluto elevare Voi sulle ro¬vine di tutti gli ordini su cui poggia lo Stato, come se la vostra grandezza potesse di¬pendere dalla rovina dei vostri sudditi su cui essa è fondata. È vero che per quel che riguar¬da gli aspetti esteriori della vo¬stra autorità ne siete stato ge¬loso, e fin troppo; ma nella so¬stanza ogni ministro, nel set¬tore dell'amministrazione da lui curato, si è comportato da padrone. Voi avete creduto di governare sol perché è stato in vostro potere fissare il limi¬te delle competenze fra coloro che governano. Il pubblico ha sperimentato fin troppo la loro potenza. Si sono comportati con durezza, altezzosità e as¬senza di senso della giustizia; hanno fatto ricorso alla violen¬za e alla malafede. […] Il vostro nome è stato reso tanto odioso, e la nazione francese tutta intera insopportabile a tutti i nostri vicini. Non uno so¬lo dei nostri antichi alleati abbiamo potuto conservare, per¬ché volevamo unicamente de¬gli schiavi.
[…] I vostri popoli che dovre¬ste amare come vostri figli e che tanto vi hanno amato, muoiono di fame. La coltura delle terre quasi abbando¬nata; le città e le campagne si spopolano; tutti i mestieri languiscono e non danno più pane agli operai. Il commercio è stato ridotto a zero. Di con¬seguenza voi avete distrutto la metà delle forze reali esi¬stenti all'interno del vostro Stato per fare e per difendere delle vane conquiste al di fuori di esso. Invece di cavare de¬naro da questo povero popolo bisognerebbe fargli l'elemosina e nutrirlo, La Francia intera non è più che un grande ospedale desolato e sprovvisto di tutto. […] Voi siete as¬sediato dalla folla delle persone che chiedono e che mor¬morano. Voi stesso, Sire, vi siete attirato tanti impicci. In¬fatti con la rovina del regno, voi avete tutto nelle vostre mani e nessuno può più vivere senza i vostri doni.
Il popolo stesso (è bene dir tutto) che tanto vi ha amato, che tanta fiducia ha avuta in voi, comincia a perdere l'a¬more, la fiducia e anche il ri¬spetto. […] Si crede che voi non abbiate pietà alcuna dei mali della gente, che solo la vostra autorità e la vostra gloria vi stiano a cuore. »

Praticamente opposta l'opi¬nione del filosofo Voltaire (1694-1778), più tarda di circa cinquant'anni. Infatti, nell'introduzione al suo sag¬gio Il secolo di Luigi XIV (1751), Voltaire attribuì al sovrano il merito del grande primato intellettuale france¬se. L’ammirazione del filosofo per Luigi XIV è confermata da una lettera, scritta al guardasigilli d'Inghilterra (mi¬lord Hervey), in cui elenca ed elogia le iniziative che, a suo giudizio, hanno reso così grande la Francia.

« L’età che vien detta il secolo di Luigi XIV di tutte le età è forse quella che più dappres¬so tocca la perfezione. Arric¬chita dalle scoperte delle età precedenti, in certi campi ha fatto più che le altre riunite. Le arti, a dir il vero, non si sono spinte più in là che sot¬to i Medici, sotto Augusto o Alessandro, ma la ragione umana s'è in massima fatta più perfetta. La sana filosofia non s'è divulgata che in quel tempo; si può dir senz'altro che a contare dagli ultimi an¬ni del cardinale Richelieu alla morte di Luigi XIV, nelle no¬stre arti, nel nostro spirito, nel nostro costume s'è com¬piuta, come nel nostro go¬verno, una rivoluzione gene¬rale che sarà eterno segno di vera giuria per la nostra patria. […]
Prima del secolo che denomi¬no di Luigi XIV e che s'inizia su per giù con l'istituzione dell'Accademia di Francia, gli Italiani designavano gli ultra¬montani col nome di “barba¬ri”; e bisogna riconoscere che i Francesi meritavano in un certo senso tale ingiuria. […] Durante novecento anni, il genio peculiare dei Francesi è stato quasi sempre soffo¬cato sotto un governo gotico, nel turbinìo delle divisioni di parte e delle guerre civili, senza né leggi né costumi stabili, mutando ogni due se¬coli una lingua peraltro sem¬pre rozza. I nobili erano sen¬za disciplina, passando dalle guerre all'ozio, gli ecclesia¬stici vivevano nel disordine e nell'ignoranza, il popolo, privo di industria, marciva nella sua miseria.
I Francesi non ebbero parte né alle grandi scoperte né al¬le ammirevoli invenzioni com¬piute dalle altre nazioni: la stampa, la polvere, il vetro, il telescopio, il compasso, la macchina pneumatica, il vero sistema dell'universo non so¬no nel loro retaggio; essi gio¬stravano nei tornei, mentre Portoghesi e Spagnoli scopri¬vano e conquistavano nuovi mondi a oriente e a occiden¬te di quello già noto. […] An¬che quel poco che i Francesi compirono all'inizio del secolo XVI mostra di che cosa siano capaci quando sono guidati. »
(L’età di Luigi XIV, Introduzione)

« Non siate troppo irritato con me se ho chiamato l'ultimo secolo il secolo di Luigi XIV. So bene che Luigi XIV non ha avuto l'onore di essere il so¬vrano o il benefattore di un Boyle o di un Newton, di un Halley, di un Addison: ma nel secolo che viene detto di Leone X, forse che quel pa¬pa aveva fatto tutto? […] Eppure il nome di Leone X ha prevalso perché egli inco¬raggiò le arti. E quale re ha reso, a questo riguardo, maggior servigi all'umanità di Luigi XIV? Quale re ha compiuto più buone azioni, rivelato miglior gusto, si è reso famoso per belle co¬struzioni? […] Ha fatto più di ogni altro, perché era un grand'uomo. […]. Provatevi a nominarmi, milord, un so-vrano che abbia attirato a sé un maggior numero di stranieri esperti e che abbia incoraggiato di più il merito fra i suoi sudditi. »
(Lettera al guardasigilli d’Inghilterra, Milord Hervey)

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Messaggioda ocia » 25 set 2008, 14:23

grazie mille:) :lol:

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