Cicerone LE OPERE RETORICHE e LE OPERE POLITICHE

Messaggioda sarahmiryam » 21 mar 2011, 15:47

Cicerone
Le opere Retoriche
Negli anni della giovinezza e dell’apprendimento di Cicerone a Roma fu scritto il trattato Retorica Herennium che fu attribuito in età medioevale a Cicerone ma che fu scritto da Cornifico. In questi anni si aprì, grazie a Plozio Gallo, la prima scuola di latino tenuta da maestri latini che aveva il fine di diffondere gli strumenti retorici anche fra quelli che non potevano permettersi di mandare i figli in Grecia. Questa scuola fu fatta chiudere immediatamente dagli esponenti dell’oligarchia senatoria per paura che il diffondersi della cultura compromettesse gli equilibri sociali e politici della res pubblica. Infatti, la retorica, secondo Aristotele, era una disciplina volta alla formazione dell’uomo politico che a Roma coincideva con la figura dell’oratore, cioè di colui che sa convincere un’assemblea.
In questo clima si inseriscono le opere di Cicerone: De inventione, De oratore, Partitiones oratoriae, Brutus, Orator, De optimo genere oratoruim, Topica.
De inventione è il primo trattato di Cicerone scritto intorno agli anni 80 e inizialmente comprendeva le cinque ripartizioni tradizionali della retorica: inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio, ma Cicerone si fermò alla prima, forse insoddisfatto dalla propria tecnica espositiva, analitica e scolastica. In questa opera appaiono quelli che saranno i suoi temi di riflessione: la fiducia nella forza della parola e l’impostazione eclettica e probabilistica della sua ricerca che non da mai per certa nessuna affermazione.
De oratore è un'opera composta tra il 56 e il 55 ed è il più importante trattato retorico di Cicerone che tornato dall’esilio si illuse di poter influire sugli eventi in corso. Questo non fu possibile e allora cercò di sviluppare l’argomento politico e civile in tre trattati che abbracciavano la retorica (de oratore), la politica (DE re publica) e la legge (De legibus).
Il De oratore è scritto in forma di dialogo. I protagonisti sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo Cicerone, dei più grandi oratori della sua giovinezza che durante le ferie dei Ludi Romani del 91 svolgono una dotta conversazione alla quale partecipano Lutezio Catulo e Scevola l’Augure, esponenti della nobilitas intellettuale. Cicerone per affermare la verosimiglianza della finzione ci dice che la conversazione gli è stata riferita da C. Aurelio Cotta. Dopo un’introduzione tesa a descrivere la figura del suo oratore ideale, inizia il dialogo connotato da una forte idealità, in un giardino simbolicamente arricchito di riferimenti letterari e dichiaratamente platonici. Il dialogo di Cicerone si ispira nell’ambientazione a Platone e nella tecnica espositiva ad Aristotele perciò i dialoghi sono lunghe esposizioni.
Antonio e Crasso affrontano i temi riguardanti la formazione dell’oratore, i rapporti tra retorica e filosofia, quelli tra oratoria e vita civile. Antonio afferma una tesi tecnicistica perciò l’oratoria è frutto di ars e pratica, Crasso che nasconde Cicerone afferma una concezione umanistica perciò l’oratoria è frutto di molto studio e di grandi esperienze umane e civili. Egli polemizza con coloro che hanno scisso lo studio della retorica da quello della filosofia, il dicere (il discorso) dal sapere ( il pensiero). Il vero oratore deve essere anche filosofo perché per servire bene pubblico e giustizia deve riconoscere il giusto, il bene, il vero.
Per Cicerone il sapere è sempre unitario: la filosofia indaga la verità, l’oratoria, nutrita di filosofia, porta le conoscenze acquisite su un piano concreto e le trasferisce alle istituzioni e agli uomini.
Questa opera è la più suggestiva di Cicerone per la perfezione dello stile, per la ramificazione dei dialoghi per la varietà e la profondità dei pensieri. Il 91, anno in cui fu ambientato il dialogo, fu l’ultimo anno felice della repubblica e subito dopo morirono sei dei sette partecipanti al dialogo. Per questo Cicerone apporta al discorso un’elevata intensità umana e morale.
Nel 46 Cicerone riprende il disegno di un’ampia trattattistica retorica con il Brutus e L’orator che formano con il De oratore una sorta di trilogia.
Il Brutus, in forma di dialogo, ha come interlocutori Cicerone e gli amici Attico e Marco Giunio Bruto, cui l’opera è dedicata. Anche in questo caso il dialogo si svolge in un giardino dove Cicerone che passeggia, invita i suoi amici a sedere presso la statua di Platone. L’impostazione è di natura storica, infatti, si parla dell’evoluzione dell’eloquenza romana dalle origini all’età contemporanea con un exursus sull’eloquenza greca. Cicerone pone se stesso al culmine di questa evoluzione. In questo trattato Cicerone polemizza con gli atticicisti che criticavano Cicerone per non avere preso sufficienti distanze dallo stile "asiano" e confuta le loro ragioni affermando che sono troppo limitati, che sanno sostenere un solo genere di oratoria e di non riscaldare gli animi degli ascoltatori.
L’indirizzo asiano (ispirato a Lisia) si era imposto a Roma tra il 90 e il 50 grazie a Quinto Ortensio Ortalo e più tardi si era diffuso grazie a Licinio Calvo, Bruto e Cesare.
Lo stile asiano era gonfio, ridondante, con figure retoriche, concettoso e attento alle cadenze ritmiche; quello attivista era puro, teso ad argomentare con chiarezza, privo di clausule ritmiche e di retorica.
Quando l’atticismo si affermò nei gusti del pubblico, Cicerone risponde alle critiche che gli venivano mosse cercando di dare l’esatta collocazione storica della sua oratoria e denuncia i limiti del modello attivista ritenendolo troppo terminologico e teorico e che ad ispirare la retorica atticista non è stato solo Lisia ma anche Demostene che ha un’oratoria più ampia. Secondo Cicerone gli atticisti sbagliano perché usano solo lo stile tenue, mentre un grande oratore deve saper usare vari modelli oratori e vari registri linguistici. Gli attistici sanno solo argomentare, ma non sanno scuotere l’emozione del pubblico con il patos e con gli ornatus.
Cicerone rifiuta di essere catalogato come asiano e si mette in una posizione intermedia definita rodiense. Il modello rodiense gli permette di spaziare da quello asiano a quello attivista ritornando all’ampiezza espositiva di Demostene cui si ispira. E’ chiaro che Cicerone forza il dibattito in suo favore perché il modello rodiense non è altro che una forma di arianesimo temperato. Il fatto che Bruto non condividesse le sue idee era un cruccio per Cicerone, infatti, lo colloca come protagonista sia del Brutus che dell’Orator e non fa emergere il suo vero pensiero ma gli attribuisce un consenso che non era vero. Storicamente il pensiero attivista prevalse su quello asiano.
L’Orator, scritto nella seconda metà del 46, riprende in forma epistolare ed è un'opera dedicata a Bruto, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore, riprendendo il discorso sugli stili, sulla figura del perfetto oratore e sulla teoria dei numeros (struttura ritmica del periodo Ai registri stilistici corrispondono i tre officia dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere). Cicerone parla anche del numerus cioè le regole che fanno evitare suoni sgradevoli e cacofonici e disporre armonicamente le parole all’interno di una frase.

Opere politiche
La trattatistica politica era un ramo specializzato della filosofia, infatti, i tarattati politici antichi si devono a Platone ed Aristotele. La separazione tra opere filosofiche e politiche è solo strumentale ma ugualmente significativa.
Cicerone gia nell’87 aveva seguito le lezioni di Fedro epicureo e di Filone di Larissa. Tra il 79 e il 77 si recò ad Atene dove ascoltò Fedro, Antioco di Ascalone e Zenone. A Rodi aveva frequentato Posidonio e, tornato a Roma, divenne amico di Filodemo e Sirone.
Nonostante questa passione, Cicerone inizia a dedicarsi all’attività filosofica dopo i 50 anni, quando compone De re publica e De re legibus. Egli considerava le attività pubbliche superiori a quelle intellettuali, infatti, si dedicò alla filosofia solo dopo essere stato espulso dall’attività politica attiva. Gli argomenti prescelti sono comunque di carattere istituzionale e politico: natura dello stato e miglior governo, leggi e magistratura. Dietro questi problemi c’è quello della giustizia perché, secondo Cicerone, i valori politici vanno fondati su quelli etici.
La sua opera nasce nell’osservare il degrado della vita politica romana si impegna in una riflessione sulla natura dello Stato e delle leggi che investe anche gli avvenimenti di quel tempo.
Egli vuole riaffermare i valori della legalità e della giustizia che sembrano calpestati dalla demagogia politica. Il modello seguito è quello di Platone che aveva scritto una Politeia e dei Nomoi in forma dialogica ma mentre il discorso di Platone è teorico, quello di Cicerone è strettamente legato alla politica contemporanea.
DE RE PUBLICA: Scritto fra il 54 e il 51, è un dialogo in sei libri. Il dialogo si svolge nel 129 tra Scipione l'Emiliano e l'amico Lelio, Scevola l’Augure e altri personaggi
Nei primi due libri si affronta la quaestio sulla migliore forma di governo.
Riprendendo la tesi dello storico greco Polibio, Scipione afferma che la costituzione romana è quella migliore perchè è mista, cioè presenta i caratteri della monarchia nella figura dei due consoli, i caratteri della aristocrazia nel senato e quelli della democrazia nell'istituzione dei comizi.
Nel libri III e IV si tratta del problema della giustizia e dell’educazione romana considerata superiore a quella greca.
Negli ultimi libri viene introdotta la figura del princeps, ovvero del governatore ideale, che sapeva creare il consenso e che sapeva essere un moderatore della vita politica e sociale. Il princeps ideale era Scipione Emiliano, ma non sappiamo a chi pensasse Cicerone tra i politici della sua epoca.
De legibus
E’ un dialogo in tre libri al quale partecipano Cicerone, il fratello Quinto e l’amico editore Attico. Cicerone confuta le tesi relativiste di Epicureo e Carneade secondo le quali la legge è nata per convenzione(cioè per un accordo tra gli uomini) e afferma l’esistenza di una ius naturale che si basa sulla ragione innata di tutti gli uomini che è un principio divino. Non rispettare le leggi significa, quindi, ribellarsi alla divinità.
Nel III libro si espongono le problematiche legate alla vita istituzionale e sociale di Roma con particolare attenzione ai tribunali che approfittano dei loro poteri. De re publica e De legibus, nascono, quindi, per riaffermare i valori della tradizione e dell’impegno civile che in quegli anni si erano dissolti.

sarahmiryam

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Messaggioda giada » 23 mar 2011, 8:37

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