Eneide, analisi di Didone, tema svolto

Messaggioda vex95 » 1 apr 2011, 14:21

Didone, è la figura femminile più famosa dell’altrettanto noto poema di Virgilio, l’Eneide, che narra le vicissitudini dell’eroe Enea, esule da Troia lungo il viaggio verso l’Italia, dove fonderà la nuova Ilio.
Questa non è una semplice donna, bensì la regina di Cartagine, città da lei fondata dopo la fuga da Tiro governata dal crudele fratello, il quale per impadronirsi del potere uccise Sicheo, marito della sovrana.
Dopo la morte del coniuge, Didone non si è mai risposata, è quindi considerata un’univira, una donna che godeva di grande onore e approvazione presso la società romana, poiché aveva mantenuto la fedeltà verso il suo uomo per tutta la vita, nonostante la castità della vedova sia di gran lunga più difficile da sopportare della castità della vergine: le donne cui è morto il marito, infatti, hanno conosciuto le gioie dell’amore, e per questa ragione è a loro più complesso rinunciarvi. La regina Cartaginese persegue questo modello, e rifiuta diverse proposte di matrimonio, tra le quali si ricorda quella mossa da Iarba re dei Getuli. Non viola mai, dunque, le leggi del pudor, che la vedono subordinata al ricordo del marito deceduto Sicheo.
Tutti questi principi emergono nel libro quarto, nel quale si assiste al colloquio tra Didone e la sorella Anna. La prima confessa all’altra giovane donna il suo tormento interiore, e questa la incita ad assecondare il suo desiderio di passione, muovendo come argomenti l’incalzante avanzare dei popoli confinanti, vede, infatti, in Enea un possibile difensore di Cartagine, e i figli che potrebbe avere dall’eroe troiano. Discioglie così ogni senso di pudore nella sorella. Sempre nello stesso libro appare la figura di , che vaga per la città. Si possono qui distinguere i tre “tipi” di amore. L’amore come fiamma, che consuma le membra della bella regina, era stato già incontrato nel brano riguardante il discorso tra le due sorelle regali, ma qui si ripresenta come “una dolce fiamma che divora le midolla”.
L’amore come ferita vede Didone protagonista di una similitudine, che la paragona a una cerva ferita dall’arco di un pastore, che si trascina per i boschi senza riuscire a levarsela. Questa passione è dunque la più pericolosa delle ferite, poiché è invisibile e non è curabile.
Infine s’incontra l’amore come furor, perciò la follia e il delirio. Come una Menade, infatti, la sovrana è invasata, cioè “posseduta dal dio”. Questo tipo di amore si svilupperà durante lo scontro con Enea.
Nel medesimo libro, infatti, l’esule Troiano deve riprendere il suo viaggio verso la nuova patria. Per la pietas che lo caratterizza, è costretto a mettere da parte i suoi desideri, e quindi anche l’amore per la regina ospite, in favore del “piano” che il Fato ha prescritto per lui. Ma Didone lo accusa d’infedeltà: accecata dagli dei, in particolare da Giunone e Venere, vede l’episodio della loro unione in una spelonca durante una battuta di caccia, come una cerimonia nuziale. In nome di questo “ingannevole” matrimonio la povera sovrana scongiura Enea di rimanere, ma quando capisce che le sue suppliche sono inutili passa alle minacce, e si lascia pervadere dall’ira, la stessa ira che l’accompagnerà nella morte.
Tre sono i principali sentimenti che assalgono Didone durante il suo addio alla vita. Dapprima rimpiange di non essersi vendicata dell’empio amante, ed è accecata dalla rabbia, immagina ogni più sanguinosa ipotesi di vendetta sul Troiano, e lancia contro di lui una maledizione d’infelicità e disgrazie. In questa sono contenute diverse anticipazioni sulla storia a venire (guerre Puniche): si assiste qui a un esempio di eziologia. Poi giunge la follia, e libera il tumulto che le agita il cuore; rabbia, vergogna, dolore, frustrazione la invadono, e la bella regina perde il senno. Ora è pronta al suicidio, brandisce la spada lasciata nella stanza da letto da Enea, e pronuncia le sue ultime parole. Queste però hanno un sapore amaro: una nota di malinconia avvolge Didone nel suo estremo saluto alla luce.
E così, con una pugnalata al petto finisce la vita di una grande regina, che ebbe la sfortuna di un Fato avverso. Questa è la ragione che giustifica il suo epiteto fisso: infelix, non triste ma sventurata.

vex95

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