COMMENTO :L'INFINITO DI LEOPARDI

Messaggioda Reair » 18 ott 2011, 12:46

L'INFINITO DI LEOPARDI

L'infinito di Leopardi è un infinito "negativo", nel senso che è un infinito creato dall'immaginazione e dal desiderio, un puro prodotto della mente umana. È chiaro che il suo modo di porsi di fronte al "problema infinito" è di tipo metafisico, è la ricerca del rapporto tra infinito come spazio assoluto e tempo assoluto e la nostra cognizione del tempo e dello spazio empirici. Ma nella sua riflessione inserisce il suo particolare modo di interpretare l'infinito, o meglio l'indefinito, come fluttuare di sensazioni.

Nello "Zibaldone" Leopardi afferma che "L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia […] l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di esso, neppur per analogia". Per Leopardi l'infinito coincide con lo slancio vitale, con lo spasimo, la tensione che l'uomo ha connaturata in sé verso la felicità. L'infinito diventa il principio stesso del piacere, e il fine stesso a cui tende questo slancio dell'uomo.

È il desiderio assoluto di felicità che porta l'uomo a ricercare il piacere in un numero sempre crescente di sensazioni, nella speranza vana della sua completezza; è una tensione che non ha limiti, né per durata nel tempo, né per estensione, per questo si scontra irrevocabilmente con la vita umana, lo spazio, il tempo, la morte. Infatti "l'anima umana desidera sempre essenzialmente e mira unicamente, benché sotto molti aspetti, al piacere, ossia alla felicità […] Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita e congenita con l'esistenza, e perciò non può avere fine in questo o in quel piacere che non puyò essere infinito, ma solamente, termina con la vita".

Per Leopardi, questa tensione può spegnersi solo nel momento della morte perché è uno slancio connaturato alla vita stessa, "l'anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa che ella desidera illimitatamente".

Per superare i limiti fisici della natura umana interviene l'immaginazione, che ha come "attività" principale la raffigurazione del piacere: "Il piacere infinito non si può trovare nella realtà, si trova così nell'immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni, ecc…" Ma l'immaginazione ha bisogno di stimoli e perciò "l'anima si immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vita si estendesse dappertutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario.".

E dunque "la molteplicità delle sensazioni confonde l'anima, gli impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l'esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare da un piacere in un altro senza poterne approfondire nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo ad un piacere infinito.". Resta quindi nell'animo un senso di inappagamento, di insoddisfazione perché non si riesce effettivamente a concepire l'infinitudine, ma solo l'indefinito, che è un'idea inadeguata, approssimata, vaga: e questa insoddisfazione conduce al tedio, alla noia spirituale. Ci sono però immagini, sensazioni che suscitano nell'animo l'idea di infinito, ad esempio la visione di una torre antica, perché "il concepire uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde e sebbene sa che non ci sono confini, non li distingue e non sa quali sieno", oppure le immagini "di una campagna ad andamento declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle, e quella di un filare di alberi, la cui fine si perde di vista" o, infine "una fabbrica, una torre veduta in modo che paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte e questo non si vede, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra finito e indefinito" Ovviamente, a questo proposito, l'immagine che meglio ha esemplificato questa concezione leopardiana dell'indefinito è senz'altro costituita dagli "interminati spazi" della famosa poesia intitolata, appunto, "L'infinito".

"L'infinito" di Leopardi è forse uno degli idilli più organici per quanto riguarda significato-struttura-significante, la disposizione delle parole, il loro potere semantico, l'uso stesso che ne fa il poeta contribuiscono a rendere questa poesia un "viaggio interiore", una scoperta dello spirito, una illuminazione. L'infinito di cui parla è temporale e spaziale e viene evocato tramite il limite fisico(la siepe, il fruscio del vento) che porta il poeta da una dimensione fisica e sensoriale ad una "metafisica". I sensi, in questo caso la vista e l'udito, conducono alla intuizione di qualcosa che è al di là.

L'osservazione del paesaggio si svolge in meditazione: il paesaggio, la natura, la fisicità vengono interiorizzati ed entrano a far parte dello "spirito" del poeta, o meglio: il poeta riesce a calarsi nell'infinito. Parte da una visione familiare, la vista del colle, il Monte Tabor, ermo, ma caro, ovvero solitario ma già appartenente alla esperienza personale del poeta, spettatore ma anche compartecipe della sua vita, così come familiare è la siepe. Una siepe che diventa un limite, che evoca il desiderio, l'immaginazione di ciò che il guardo esclude, di ciò che non si può raggiungere con il solo ausilio dei sensi Da un connotato fisico di realtà, si risveglia l'immaginazione di uno spazio ben più u1timo. Ed ecco che sia il colle che la siepe prima indicati con gli aggettivi questo/questa ad indicarne la vicinanza sia fisica che spirituale, diventano la porta per l'infinito. La siepe diventa quella, è già posta in un'altra dimensione, decisamente diversa da quella fisica. Il poeta siede e guarda, in uno spazio senza tempo, e la sua immaginazione coglie e crea (io nel pensier mi fingo) irterminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete.

Leopardi ha colto, ha intuito l'infinito spaziale, che viene visto nella negazione della realtà fisica a cui è sempre abituato. Infatti gli spazi sono interminati, i silenzi sono sovrumani, la quiete è profondissima. Danno l'idea di una dimensione impossibile da paragonare con quella "solita", "abituale". Anche la disposizione nel verso, con l'enjambemant tra interminati e spazi e tra sovrumani e silenzi e la dieresi su quiete danno la sensazione di una vastità infinita; inoltre sono tutte parole polisillabe: tutto acquista una dilatazione inusitata in tutte le direzioni. Portando all'interno del suo animo questi pensieri, rivelano il confine tra la limitatezza della vita umana e l'immensità della Natura, di cui l'uomo fa parte, ma che non può cogliere appieno .

Questa intuizione gli dà un senso di paura (ove per poco il cor non si spaura), un senso di smarrimento in una dimensione mai conosciuta prima, mai immaginata con tale chiarezza.I1 cuore quasi non riesce a sostenere la potenza di questa visione, è uno sgomento dato dalla consapevolezza di aver superato i suoi limiti, di aver trasceso la sua quotidianità e di aver partecipato di un evento ai confini della religiosità. Ma il vento, espressione della sua limitatezza fisica, lo riporta all'esistenza terrena e non più cosmica; tuttavia gli dà l'impulso per spaziare di nuovo nell'infinito temporale perché la voce della realtà (odo stormir tra queste piante) viene paragonata al silenzio dell'infinito(da notare quello infinito, cioè appartenente all'altra dimensione).

Il senso della vita terrena si rianima nel vento, e con esso il limite temporale dell'uomo, la morte. Ma il pensiero riprende il suo corso e fluisce (l'affollarsi dei pensieri è sottolineato dall'anafora della "e") nell'eterno, nella distensione temporale della vita dal passato al presente, che è vivo, mentre il passato è morto. Tutto si riduce a un suono, è il respiro della vita universale, il suo battito eterno, smorzato, affievolito e quindi morto nel passato e invece vivo e prepotente nel presente. Il pensiero e l'uomo vengono sommersi da questa immensità, da questa incommensurabilità e il mare, simbolo della vastità (come riprenderà Montale), fa annegare il suo pensiero, la sua mente, la sua razionalità, lo fa perdere, obliare in una dimensione universale in comunione con l' infinito , tanto più dolce perché insperata, inaspettata. È la pace dell'uomo che ha abbandonato l'umanità per il non-limite, anche se è consapevole di aver creato egli stesso questa dimensione: non riesce a darne una consistenza reale, è un infinito del pensiero, ma ugualmente dolce e potente.

Che cosa resta di questo mare nell'animo dell'uomo? La consapevolezza di poter annegare in esso solo per il breve istante di una illuminazione, perché come basta una siepe ad evocarlo, è altresì bastante un soffio di vento per riportarlo alla sua essenza limitata.

Reair

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Messaggioda *Yole* » 18 ott 2011, 14:18

ti ho messo il credito

*Yole*

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