divina commedia canto XXXIII dal 1 al 90 verso + parafrasi

Messaggioda alessia123 » 14 gen 2012, 9:19

Canto XXXIII

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: "Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.

Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand'io t'odo.

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.

Breve pertugio dentro da la Muda
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand'io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.

Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?

Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;

e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond'io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".

Perciò non lacrimai né rispuos'io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".

Queta' mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi,

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno".

Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

Ché se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.

parafrasi:
Allora quello sollevò la bocca dal suo fiero pasto,
pulendola coi capelli di quel capo
ch'egli aveva guastato sulla nuca.

E cominciò a parlare: "Tu vuoi ch'io ricordi
il dolore disperato che m'opprime già il cuore
solo a pensarci, prima ancora di parlarne.

Ma se le mie parole possono esser utili
a produrre infamia a costui che sto rodendo
sia pure, mi vedrai parlare e lacrimare insieme.

Io non so chi tu sia, né in che modo
sei venuto quaggiù, ma ad ascoltar
la tua parlata mi sembri fiorentino.

Ebbene devi sapere ch'io fui il conte Ugolino
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
ora ti dirò perché lo odio così tanto.

Non occorre che ti racconti come,
pur fidandomi di costui, fui per causa
dei suoi maligni intrighi incarcerato e ucciso.

Però tu non puoi sapere
quanto la mia morte fu crudele
e fino a che punto costui m'abbia offeso.

Una finestrella dentro la torre Muda,
che per causa della mia morte prese il nome
"della fame" e che sarà chiusa anche per altri,

m'aveva mostrato varie lune nuove
quando feci il sogno funesto
che mi squarciò il velo del futuro.

Vedevo costui guida e signore di una schiera
che cacciava un lupo e i suoi lupacchiotti
sul monte che impedisce ai pisani di vedere Lucca.

I Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi
erano in prima fila, scortati
da cagne magre, affamate e addestrate.

Dopo breve corsa il lupo e i lupacchiotti
erano stanchi e le cagne già dilaniavano
i loro fianchi con le aguzze zanne.

Quando, prima dell'alba mi svegliai,
sentii i miei figlioli, ch'erano con me,
piangere e chiedere del pane mentre dormivano.

Il sogno profetico che t'ho raccontato
dovrebbe bastarti a farti piangere
e, se non lo fai, davanti a cosa ti commuovi?

I miei figlioli s'erano appena svegliati
ma proprio nel momento in cui di solito
portavano il cibo a ognuno venne un dubbio.

Io sentii inchiodare la porta di sotto
dell'orribile torre, sicché guardai in faccia
i miei figlioli senza dire una parola.

Non piangevo, tanto il dolore m'aveva impietrito,
però loro sì e il mio Anselmuccio arrivò a dire:
"Padre perché ci guardi così?".

Non piansi quel giorno e non dissi neppure
una parola, e così la notte successiva,
finché spuntò di nuovo il sole all'orizzonte.

E quando si fece un po' di luce
nel doloroso carcere, vedendo il mio sguardo
riflesso nello sguardo dei miei figlioli,

per il dolore mi morsi ambo le mani;
ed essi, pensando che lo facessi per fame,
si alzarono improvvisamente

e dissero: "Padre, ci farà meno dolore
se ti ciberai di noi: tu in fondo ci hai dato
queste misere carni, tu puoi anche privarcene".

Allora mi quietai per non renderli più tristi
e stemmo tutti muti quel giorno e quello dopo:
ahi dura terra, perché non c'inghiottisti?

Ma quando fummo digiuni al quarto giorno
Gaddo mi si gettò ai piedi dicendomi:
"Padre mio perché non m'aiuti?".

E lì se ne morì. E come tu ora vedi me
così io vidi gli altri tre cadere uno a uno
tra il quinto e il sesto giorno, finché io stesso

già cieco, cominciai a brancolare sopra di loro
chiamandoli per altri due giorni,
poi finalmente venne anche il mio turno".

Quand'ebbe detto questo, con gli occhi biechi
riprese il misero teschio coi denti
che nel rodere erano forti come quelli d'un cane.

Ahi Pisa, vergogna delle genti d'Italia,
il bel paese dove suona il "sì",
poiché i tuoi vicini sono lenti a punirti,

si muovano le isole Capraia e Gorgona,
e facciano argine alla foce dell'Arno,
in modo che le sue acque anneghino ogni abitante.

Anche se fosse vera la voce che il conte Ugolino
t'aveva tradita donando alcuni castelli ai nemici,
non dovevi sottoporre i suoi figlioli alla stessa croce.

Infame Tebe moderna! La giovane età
rendeva innocente Uguccione, il Brigata
e gli altri due già nominati.

alessia123

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Messaggioda *Yole* » 14 gen 2012, 15:16

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