confonto dante petrarca

Messaggioda alfons93 » 27 mar 2012, 14:12

I poeti Dante Alighieri e Francesco Petrarca hanno vissuto in contesti storico-politici differenti che hanno condizionato la loro produzione scritta. L’intellettuale Dante visse fino in fondo la situazione critica di Firenze, la sua città natale, negli anni in cui il comune era dilaniato da lotte civili interne dovute alla lotta tra guelfi e ghibellini. Partecipando in prima persona a questo difficile periodo storico, rimase egli stesso vittima e ingiustamente venne condannato all’esilio. Petrarca, invece, visse nell’epoca delle Signorie, in un periodo di transizione tra il medioevo e l’umanesimo quando crollarono la Chiesa e l’Impero, le due istituzioni che da sempre, nel Medioevo, erano state un punto di riferimento per l’uomo.
Da qui notiamo la principale differenza tra i due poeti: Dante, l’intellettuale cittadino, dedito ad un attivo impegno politico e legato agli schemi medioevali; Petrarca, l’intellettuale cosmopolita, legato a nessuna tradizione municipale e aperto a nuove conoscenze. Totalmente diverso è anche il loro modo di rapportarsi con l’ambiente in cui vivono: Dante sogna un impero universalistico e una città natale morigerata e contenuta (non per niente criticherà molto Firenze e i personaggi che in quel tempo vi abitavano, ma al contempo avrebbe desiderato ritornarvi); Petrarca invece è si un cittadino italiano, ma in continue peregrinazioni, che (a differenza di dante), rappresentavano per lui un motivo di vanto (era ospitato da un sacco di persone) auspicherà un’Italia unita in virtù dell’antica grandezza di Roma.
Il contesto storico-politico degli anni in cui hanno vissuto Dante e Petrarca delinea anche il loro modo di essere, la loro visione del mondo che poi è rispecchiata nelle loro opere.
Dante è dotato di un sapere enciclopedico e questo lo notiamo soprattutto nelle sue opere: la Commedia, la sua opera più importante nel quale tratta innumerevoli temi; le Rime, nella quale esprime la sua passione per la conoscenza e la difficoltà per raggiungerla; il Convivio, dove vengono trattati svariati argomenti. Petrarca, invece, concentra la sua produzione scritta sull’uomo, in particolare su sé stesso e sul proprio dissidio interiore; come nel suo Canzoniere. La condizione di peccatore del poeta, insicuro e tormentato, è di valore universale, in quanto ciò che è la condizione del poeta, rispecchia anche l’essere dell’uomo di quel periodo storico. Quindi, mentre Dante ha fiducia in un ordine unitario e fonda il suo pensiero sulla filosofia della Scolastica, prendendo come punto di riferimento S. Tommaso, Petrarca fonda il suo pensiero sulla filosofia che pone l’uomo al centro della sua indagine e che studia la sua interiorità, così si affida al pensiero di S. Agostino che cita anche nella sua opera Secretum, delineandolo come l’uomo che lo aiuta a raggiungere la salvezza eterna nel suo continuo dissidio interiore tra i piaceri terreni e l’elevazione spirituale. Petrarca ha scritto altre due opere che rispecchiano il dissidio interiore che lo tormentava: il De vita solitaria, nel quale si comprende come il poeta voglia elevarsi spiritualmente ma non rinuncia ai piaceri terreni; il De otio religioso, nel quale elogia la vita monastica dedita alla preghiera ed alla sola contemplazione di Dio.
Petrarca scorge, comunque, nella fede una tensione continua a differenza di Dante che percepisce in essa una certezza solida e stabile. Infatti, abbiamo già detto che Petrarca vive in un epoca storica durante la quale vi è il crollo della Chiesa, istituzione corrotta e instabile, e per questo motivo egli nutre una profonda delusione nei confronti di essa ed è alla continua ricerca di quei valori che sono andati perduti (di cui le opere classiche straripano); è perciò un intellettuale cosmopolita. Dante, invece, è fermo sulla sua concezione universalistica dell’Impero, su esempio dell’Impero romano mentre, in Petrarca, il pensiero di unità dell’Impero è totalmente scomparso.
Nei due intellettuali vi è anche una concezione diversa di poeta e letteratura; così mentre Dante è il colto medioevale che regge ogni campo della conoscenza, si pone come maestro di vita e concepisce una letteratura basata sulla fede religiosa e la morale, Petrarca è semplicemente “il poeta”, convinto del valore autonomo della letteratura e vede nella poesia un mezzo di purificazione. Egli è un testimone della condizione umana e, nella sua opera Rerum vulgarium fragmenta, è una guida spirituale che mette a disposizione dei suoi lettori le sue conoscenze e le sue competenze culturali.
In base all’esperienza di vita dei due poeti, si nota una differenza stilistica dovuta al plurilinguismo di Dante e all’unilinguismo di Petrarca.
Il De vulgari eloquentia di Dante è un trattato in latino sulle lingue che si incentra principalmente sulla volontà del poeta di ridare alla lingua volgare una sua dignità. Dante vede nel volgare la lingua di comunicazione, adatta a trattare di argomenti elevati, come afferma anche nel Convivio, ma non disprezza il latino: infatti, la definisce una lingua secondaria e la utilizza principalmente per rivolgersi ad un pubblico dotto nel De vulgari eloquentia; senza considerare l’enorme varietà di linguaggio che utilizza all’interno della Commedia a seconda dei personaggi e del luogo che caratterizzano l’episodio. Petrarca, a differenza di Dante, identifica nel latino la lingua di comunicazione, la lingua ufficiale della cultura (ama i classici!!!!). Utilizza il volgare solo nel Canzoniere e nel poemetto i Trionfi e privilegia per le opere dai contenuti più elevati, il latino. Petrarca, quindi, non disprezza il volgare, anzi cerca di elevarlo alla bellezza formale del latino. Petrarca ama l’uso del latino anche perché esso si rifà alla cultura del mondo classico (del resto è un pre-umanista). Come Petrarca, anche Dante rievoca la cultura classica, utilizzando immagini e temi classici per poi rimodellarli a seconda della sua visione della realtà. A differenza di Dante che allegorizza la cultura classica, Petrarca è consapevole della rottura avvenuta tra mondo antico e mondo contemporaneo e perciò vuole recuperare il senso autentico dei testi antichi ricercando in essi i valori perduti nella sua epoca (si occupa di compiere un’opera filologica in grado di ripulire i classici dai significati simbolico religiosi attribuitigli durante il periodo medioevale).
Sparse sono le rime di dante. La cosa più interessate di queste è la differenza dall’omogeneità stilistica di Petrarca. Per Dante viene fuori la dimensione pluristilistica e un forte sperimentalismo di generi letterari. Quando diciamo che Dante ha un forte sperimentalismo non dobbiamo errare credendo che il monolinguismo sia equivalente ad una mancanza di sperimentazione. Per affrontare in modo ancora più approfondito le differenze e similitudini tra dante e petrarca e necessario osservare i loro due personaggi principali. Beatrice e Laura sono le prime creature femminili di rilievo della nostra letteratura. La loro storia reale interessa poco. Quello che invece conta molto è ciò che esse rappresentarono nella vicenda poetica dei loro due eccezionali cantori: Dante e Petrarca. Sotto questo aspetto, si può affermare che i due personaggi femminili esprimono due diverse concezioni della vita, dell'amore, dell'arte. Beatrice, la donna cantata da Dante nella "Vita Nova" e celebrata poi nella "Divina Commedia", testimonia l'evoluzione spirituale, morale ed artistica di Dante, che fu l'ultima grande voce del medioevo cristiano: un'epoca in cui l'animo umano era proteso verso la conquista della beatitudine celeste e si sforzava di essere il più distaccato possibile dagli interessi prettamente terreni e dai piaceri mondani. La poesia era allora intesa come un momento di esaltazione delle virtù e come un mezzo di purificazione spirituale ed educazione morale. Beatrice fu concepita da Dante in questo clima e, come tutte le donne dello stilnovo, rappresentò grazia, candore, onestà, umiltà: tutte virtù che incutono soggezione all'uomo, gli fanno abbassare lo sguardo, lo rendono beato d'un semplice sorriso, d'uno sguardo affettuoso. Poi le vicende della vita ampliarono enormemente gli interessi della mente e del cuore di Dante, e Beatrice divenne il simbolo della Teologia e della Fede, colei che sola può svelare a Dante ed all'umanità tutta il mistero di Dio. Forse questa seconda Beatrice è più fredda della prima, più lontana dalla comune sensibilità, ma dobbiamo riconoscere che anche la prima non fu che un'idea di perfezione morale.
Tutt'altra creatura la Laura di Petrarca, che rappresenta il declino delle certezze religiose del medioevo. Laura è il simbolo di un dissidio interiore, di un animo tormentato che anela alla pace ma che non la trova: essa rappresenta la varietà degli umori e delle situazioni psicologiche del suo cantore, il quale ora rimane rapito dinanzi ai luoghi "ove le belle membra / pese colei che sola a me par donna ("Chiare, fresche, e dolci acque"), ora afferma che "uno spirto celeste, un vivo sole / fu quel ch' i' vidi ("Erano i capei d'oro a l'aura sparsi") ed ora confessa d'essere stato "sommesso al dispietato giogo / che sopra i più soggetti è più feroce" per cui sente di dover chiedere misericordia al Signore per il suo "non degno affanno" ("Padre del ciel, dopo i perduti giorni"). È simbolo dell’allontanamento da Dio. Infatti rappresenta l’attaccamento ai beni materiali che impediscono a Petrarca di raggiungere la beatitudine. È quindi causa del dissidio interiore del poeta, che non riesce a trovare conciliazione tra la vita terrena e quella spirituale.
Andiamo adesso a confrontare i due testi più celebri e rappresentativi dei poeti. In “Tanto gentil…” Dante traduce in versi il punto più alto della vita terrena di Beatrice: esso risulta uno sforzo supremo di semplificare il linguaggio,di portarlo ad una estrema esiguità stilistica e fonica. Questa ostinata ricerca di semplicità in realtà è funzionale, nel racconto, alla raffigurazione di una Beatrice trasfigurata. Nel testo gli attributi si dispongono secondo serie binarie che alludono a quella che ormai è la doppia natura, terrena e celeste, di Beatrice. Nel sonetto il poeta descrive gli effetti che la vista della donna provoca in chi la osserva: tutte le lingue diventano mute e gli occhi hanno quasi paura ad alzarsi per guardarla. Gli aggettivi che compaiono dopo la metà del sonetto sono volti a sottolineare la santità dell’amata e quindi la provenienza celestiale: vestita d’umiltà che sembra cosa venuta dal cielo, appare allo sguardo come un miracolo che dà, attraverso la vista, una dolcezza al cuore che la persona non riesce a capire. Il testo, come dalle premesse fatte, è estremamente chiaro: l’amore per Beatrice non isola il poeta in se stesso ma lo apre a tutte le bellezze del mondo. Questo è proprio il mezzo (lo stupore) con cui Dante riuscirà a compiere il viaggio fino in paradiso.
Passiamo ora al Petrarca; tutta la canzone“ Chiare,fresche…” è dominata dal paesaggio della dolce riva. La bellezza del paesaggio naturale non è soltanto quella di un convenzionale luogo di delizia e di piacere; l’indeterminatezza di questo linguaggio ne fa la figura di una bellezza che si affaccia alla mente ed al cuore senza lasciarsi afferrare, che fa balenare un desiderio non del tutto chiaro nella persona che legge. È la rivelazione di una bellezza che è tanto più forte ed intensa quanto più è assente: è come se la donna, una volta per tutte, avesse lasciato la propria traccia su quei luoghi, trasformandoli in qualcosa di strano e fascinoso, in uno spazio dove l’anima del poeta riconosce tutto il proprio essere in frantumi, ma si esalta in questa sua stessa lacerazione.

Beatrice e Laura sono evocatrici di due epoche della storia. Beatrice è la “donna angelica”, portatrice di elevazione spirituale, aspirazione alla bellezza divina; non fa parte del mondo terreno ma del mondo eterno, perfetto. Beatrice vive il suo pieno splendore dopo la sua morte e così annuncia l’autenticità della sua bellezza interiore. Ciò è provato soprattutto nell’opera di Dante, la Vita Nuova, nel quale notiamo il cambiamento di Dante e del suo modo di poetare e lodare Beatrice, dopo la sua morte. Ella non è mai descritta in tratti fisici da Dante ma è descritta solo in base agli effetti che provoca al suo passaggio. Laura, invece, è conosciuta nel mondo terreno soprattutto per la sua bellezza, subisce l’azione del tempo ed è inserita in una prospettiva del tutto naturale. La donna di Petrarca, a differenza di Beatrice, provoca nel poeta una costante agitazione, è fonte della perdizione del poeta, come verifichiamo nella sua opera Rerum vulgarium fragmenta. La sua morte è una tragica fine di ogni desiderio terreno. L’amore di Petrarca è, perciò, un amore sensuale, terreno e continuamente vissuto come peccato. Inoltre, è anche materia per l’investigazione dell’io. L’amore di Dante, invece, è percepito come strumento per giungere a Dio, è portatore di salvezza eterna. Ma nonostante petrarca si distacchi infine da dante, figura del resto ad un’epoca ormai passata, ne riprende comunque alcuni aspetti. Comune infatti alla sua tradizione stilnovista è l’irrangiungibilità della donna, il sentimento amoroso inevitabilmente inappagato, l’esaltazione della donna, la delusione dell’amante e ancora il viaggio spirituale e ascetico (anche se quello di petrarca non si conclude con grandissimi risultati). Ma possiamo poi notare un netto distacco nella rappresentazione viva e mossa della psicologia amorosa che appare più interiore e soggetta al variare delle situazioni, libera dagli schemi stilnovisti. Oltretutto l’amore provato per laura è un sentimento completamente personale, e lo stesso petrarca lo ammette nel dialogo con agostino del secretum, ribadendo che laura non è ne uno strumento di perfezionamento, ne di innalzamento. È proprio per questo suo attaccamento al mondo terreno che laura è soggetta all’invecchiamento, vero o presunto dato che secondo le notizie di petrarca è morta molto giovane (simbolo della effimerità di ogni cosa).


Laura, un nuovo tipo di gentildonna
Così Petrarca opera questo distacco dal maestro Dante attraverso la sua più bella creatura poetica, Laura, distinguendo la sua dama, la sua figura femminile protagonista, da tutte le gentili donne create fino a quel momento. E quale via migliore poteva avere del confronto diretto con Beatrice, sintesi e superamento di tutte le 'gentili dame' della poesia d'amore del passato? Eppure a Beatrice, inevitabilmente, Laura almeno in parte finirà per somigliare. Vediamo come. È vero che laura è molto più umana delle remote e inattingibili immagini femminili degli stilnovisti e di dante, poiché rientra in una dimensione psicologica più viva, e più vicina all’esperienza comune. Tuttavia è ben lontana dall’avere la concretezza corposa di una persona reale.
Mai veramente descritta nei suoi tratti fisici Beatrice; famosa soprattutto per la sua bellezza, dai lineamenti vivi e dai colori solari, Laura. Sono alle nostre origini, vediamo dunque, due modi forse non antitetici, ma ben diversi, di mettersi in relazione con l'altro, anzi con la vita stessa. Profondo, analitico e legato alla sorgente interiore il linguaggio di Beatrice: è il linguaggio della conoscenza di sé. Che è anche la meta indicata dalla donna di Dante, raggio di luce che conduce verso il cielo, la dimensione divina, e non distoglie mai dalla vera vita, che non è quella terrena.
Più immediatamente suggestiva, ma col rischio di restare in superficie e forse di innamorarsi della propria stessa bellezza è Laura (non per niente lauro è l’alloro = gloria personale), e i suoi sostenitori potrebbero sembrare a una prima occhiata fautori di un amore senza autoanalisi, affidato alla festa delle percezioni sensoriali, non finalizzato ad altro scopo. Eppure anche Laura è tramite di una conoscenza di sé, dei propri limiti e insieme della propria, sia pur non eterna, ricchezza espansiva: la sua bellezza trasparente, morbida e luminosa, comprende in sé la natura delle stagioni più belle.
Una diversa visione della morte e dell'aldilà
Su questa scia vanno letti anche i due diversi rapporti con la morte e l'aldilà, che le due donne implicitamente rispecchiano. Beatrice vive il suo pieno splendore solo dopo essere morta, e così annuncia l'autentica felicità promessa dalla conoscenza del proprio essere profondo. Ed è proprio da morta, paradossalmente, che raggiunge il culmine della sua visività, essendo descritta nello splendore trionfale in cui appare a Dante nel Paradiso Terrestre. Lì per l'unica volta Dante ritiene sia il momento di rivelarci il colore dei suoi occhi: verdi, come smeraldi splendenti.

posto t'avem dinanzi a gli smeraldi
ond'Amor già ti trasse le sue armi".
(Dante, Purgatorio, XXXI, vv. 116-117)

Laura invece vive nel presente naturale di un Paradiso Terrestre non nominato come tale ma di fatto Eden assoluto, uno scenario primaverile ed estivo, la stagione più bella sua e del mondo, ma la sua morte non è continuità di legame amoroso dal cielo, bensì è tragico scandalo della fine di ogni terrena espansione. La morte non appare come un porto tranquillo in cui trovare rifugio, ma un dubbioso passo, pieno di insidie e di pericoli. Per questo il poeta vuole trovare rifugio nel libro, unica cosa salda e duratura.

Le dame e la luce
Basta confrontare i ben diversi rapporti con la luce che i due personaggi femminili mostrano nei versi.
Così Beatrice:

Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto.
E quella non ridea; ma "S'io ridessi",
mi cominciò, "tu ti faresti quale
fu Semelé quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l'etterno palazzo più s'accende,
com'hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.
(Dante, Paradiso, XXI, vv. 1-12)

Insomma, ormai vicinissima a Dio, morta eppure viva più che mai, Beatrice è così luminosa che le basterebbe pochissimo per incenerire Dante, com'è accaduto alla povera Semele: basterebbe che sorridesse, rendendo il suo viso ancora più sfolgorante di luce divina. Insomma, la luce di Beatrice è così benefica da superare tutti i limiti umani, e da rischiare solo di poter essere troppo positiva.
Così invece, ben diversamente, la luce di Laura

Quand'io son tutto vòlto in quella parte
ove 'l bel viso di madonna luce,
e m'è rimasa nel pensier la luce
che m'arde e strugge dentro a parte a parte,
i', che temo del cor che mi si parte
e veggio presso il fin de la mia luce,
vammene in guisa d'orbo, senza luce,
che non sa ove si vada e pur si parte.
Così davanti a i colpi de la morte
fuggo; ma non sì ratto che 'l desio
meco non venga, come venir sole.
(Petrarca, Canzoniere, sonetto 18, vv. 1-11)

Tanta luce anche qui, richiamata dalle rime identiche, ma solo un ricordo di una bellezza ormai svanita, non tale da illuminare al poeta la strada verso l'aldilà, né da consolarlo dalla morte di madonna. Anzi, la morte non è meta ma crudele evento da cui fuggire, senza che sfugga il desiderio, però per una donna che ormai non c'è più. Così il sereno personaggio di Laura sembra essere accompagnato da una sorta di tarlo, un senso di colpa che nasce forse dall'incapacità del suo poeta di entrare in serena relazione col mondo. Anche in Laura c'è dunque, nascosto dietro i lineamenti gentili, i colori solari e le grazie di un corpo armonioso, una sorta di linguaggio della conoscenza di sé, uno scavo meno diretto, ma solo rimandato al silenzio della propria stanza, dopo la leggerezza vagante dell'aria aperta. Forse, in termini odierni, lo stimolo ad abbandonare una sorta di pigrizia mentale dell'Occidente, che sembra odiare il pensiero, aver paura di scoprire le profondità (altezze) dell'anima.

Decisamente dubbia è l’effettiva esistenza di Laura, o quantomeno di una relazione tanto forte e duratura con lei. Molti sono coloro che ne affermano al contrario l’effimerità, ma al contempo la concentrazione che petrarca vi ha impresso, al fine di renderla simbolo della sua travagliata vita interiore. Lo stesso De Sanctis la definisce solamente come la trasposizione in termini ritmici e fonici dei conflitti interni di petrarca. Ancora laura è considerata come la riconferma della caducità della vita e di tutte le cose belle che la caratterizzano: anche i suoi bellissimi occhi si spengono. È per questo che Petrarca sembra voler continuamente trovare la pace interiore, che gli possa finalmente permettere di vivere sereno. Ma qui non si sta parlando della Commedia, al termine della quale dante porta a termine effettivamente il suo percorso: Petrarca non può arrivare ad una fine, anche perché lui stesso non lo desidera, in quanto questo suo stato di inquietudine è requisito fondamentale per rendere degna di gloria e memoria la sua produzione.

alfons93

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Messaggioda giada » 27 mar 2012, 18:59

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