Divina commedia analisi poetica canto XIII vv 58-69 Inferno

Messaggioda zio mike » 6 apr 2012, 8:05

Io son colui che tenni ambo le chiavi 58
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 63

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio, 66

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 69


Questi versi fanno parte dell’inferno Dantesco e possono essere così parafrasati: “ Io sono colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico II , e che le girai , aprendo e chiudendo, così soavemente, poichè non rivelai i segreti a nessuno ; portai fede al nobile incarico, tanto che persi il sonno e lasanità(mentale). La meretrice ( l’invidia ) che non tolse mai gli occhi avidi da Cesare, comune a tutti e peccato delle corti, innalzò tutti gli animi contro di me; e gli animi infiammati riuscirono ad aizzare contro di me anche l’imperatore , così che i lieti piaceri divennero tristi pene”. In questo canto Dante si trova nella selva dei suicidi, dove le anime dei peccatori sono tramutate in arbusti: dai più piccoli cespugli(erano morti da poco tempo), a piante secolari(erano morte da molto tempo) ; in questi versi parla Pier delle Vigne , e narra di come lui da fidato notaio e confidente dell’imperatore(Io son colui che tenni ambo le chiavi/ del cor di Federigo) sia finito in carcere a causa dell’invidia dei cortigiani , la quale invidia espressa da Dante con la metafora tra i versi 64-66 ; con questa figura retorica il poeta ci vuole fare capire che essa si annidava in tutti gli ambienti aristocratici fin da Cesare ma anche prima facendo condannare (come in questo caso ) innocenti. Dante usa sempre una metafore ai vv58-60 per farci capire quanto i due fossero amici e confidenti , che Pier delle vigne dice di essere stato il suo più stretto confidente. Al vv67-68 è presente un poliptoto: infiammò/infiammati/ infiammar usato da Dante per sottolineare il desiderio ardente dei cortigiani di cacciare Pier delle vigne dalle grazie dell’Imperatore.
Nel XIII canto ,come si è detto, i dannati sono costretti a stare relegati in arbusti e martoriati dalle arpie per l’eternità; essi nemmeno dopo il giudizio universale si ricongiungeranno con propri corpi, bensì, li prenderanno e li appenderanno a propri rami; Dante , probabilmente, prende spunto per questa pena dal mito di Marzia che sfidò Apollo a una gara musicale , al termine della quale venne sconfitto , Apollo come punizione lo scuoiò e appese la pelle e il corpo a un albero. Oppure da un episodio narrato nell’Eneide di Virgilio, nel quale, Enea e i compagni, approdati su un’isola volendo innalzare un altare agli dei, salirono su un colle e iniziarono a strappare dei piccoli arbusti, ma si dovettero fermare subito perché da quelli strappati fuoriusciva del sangue misto a lacrime.
Pier delle Vigne nelle terzine successive chiederà a Dante di riportare la sua memoria nel mondo dei vivi e di tramandare la sua innocenza; il suo discorso viene interrotto dal sopraggiungere di due dannati inseguiti da delle cagne che contribuiscono a dare un ulteriore martirio ai dannati.

zio mike

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Messaggioda giada » 6 apr 2012, 8:46

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