REGES ET REGINAE L. Tarquinius Priscus Rex

Livio Lingua latina per se illustrata

Regnavit Ancus annos quattuor et viginti, cuilibet superiorum regum gloria par. ...et aedis in Capitolio Iovis, quam voverat bello Sabino, fundamenta iacit.

Anco Marzio regnò per ventiquattro anni, e la sua popolarità e non fu seconda a nessuno dei suoi predecessori per capacità e gloria.

I suoi figli erono ormai quasi degli uomini; e perciò Tarquinio sollecitava che quanto prima fossero tenuti i comizi dell'assemblea popolare per l'elezione del re. Quando ne fu indetta la convocazione, egli inviò i figli del re ad una battuta di caccia. Allora lo stesso cercò di conseguire una campagna per il trono (il potere regio) e si dice che abbia tenuto un discorso composto ad arte per conciliarsi il favore popolare (dicendo) che lui non chiedeva nulla di nuovo, dato che già due re stranieri avevano regnato a Roma, e che Tazio, era divenuto re non solo provenendo da una terra straniera ma anche nemica, e che Numa, che pure non conosceva affatto Roma e pur non avendo avanzato alcuna candidatura, era stato invitato ad assumere l'incarico. (Dicendo) che lui era emigrato a Roma nella sua prima giovinezza (da giovane) con la moglie e tutti i suoi beni; e che la maggior parte della vita, che gli uomini dedicano ad assolvere i (propri) doveri civili, lui l'aveva trascorsa più a lungo a Roma che nella sua patria natale e che, quanto alla sfera civile e (a quella) militare, guidato da un maestro assolutamente fuori dal comune, e cioè da Anco in persona, aveva appreso il diritto ed i culti religiosi romani. Il popolo romano, dal momento che egli ricordava fatti realmente avvenuti, lo proclamò re con unanine consenso. Il nuovo re desideroso di rafforzare il suo potere non meno che di consolidare la potenza dello Stato, elesse cento (nuovi) senatori, indubitabili sostenitori del re, grazie la cui benevolenza avevano avuto accesso al senato. Dapprima intraprese la guerra contro i Latini e, in quel frangente, espugnò con la forza la città di Apiole, avendo portato via da lì un bottino più consistente di quanto sperava, organizzò i giochi in modo più sontuoso dei precedenti re. Solo in quel momento fu scelto e delimitato lo spazio per il circo che oggi si chiama Circo Massimo. Furono divisi tra senatori e cavalieri dei dei lotti di terra dove edificare dei palchi da utilizzare durante gli spettacoli, che vennero chiamati "fori". Fu lo stesso re che fece costruire attorno al foro anche portici e negozi. E si preparava a dotare Roma di una cerchia muraria in pietra, quando una guerra contro i Sabini interruppe i suoi progetti. E la cosa fu talmente improvvisa da permettere ai nemici di attraversare l'Aniene prima che l'esercito romano fosse in grado di marciare contro di loro e di fermare la loro avanzata.

Dapprima si combatté con esito incerto e da entrambe le parti le perdite furono consistenti. Poi, ritornate nell'accampamento le truppe nemiche, fu concessa ai Romani l'opportunità di organizzarsi di nuovo per la guerra. Tarquinio, ritenendo che tra le sueavessero particolari carenze i reparti di cavalleria, li incrementò dello stesso numero di effettivi in maniera tale che nell'esercito romano ci fossero milleottocento cavalieri al posto di novecento. Accresciuto questo settore dell'esercito, di nuovo si scontrano con i Sabini. Ma oltre al fatto che il contingente romano era aumentato di effettivi, si aggiunse anche un astuto espediente: alcuni (soldati) furono mandati a gettare nel fiume dopo averle dato fuoco, una grande quantità di legna, che si trovava sulle sponde dell'Amene; e grazie al vento favorevole, con la legna che bruciava incendiarono il ponte. L'espediente seminò il panico tra i Sabini nel pieno della battaglia e impedì loro la ritirata quando furono messi in fuga; molti uomini, essendo sfuggiti al nemico, trovarono la morte nel fiume stesso. In quel combattimento si distinse soprattutto la cavalleria: collocata ai due fianchi dei reparti, quando ormai il centro, composto di fanti, si stava ritirando, essa attaccò da entrambi i lati con una tale energia che non solo riuscì a frenare le legioni sabine che al momento stavano pressando gli altri Romani in ritirata, ma le mise anche in fuga. I Sabini, con una corsa disordinata si dirigevano verso le alture, ma solo pochi di loro le raggiunsero; la parte più cospicua, come detto in precedenza, fu spinta dalla cavalleria (romana) verso il fiume. Tarquinio, inviato a Roma il bottino ed i prigionieri, si spinse nel territorio sabino alla guida dell'esercito. E lì, i Sabini sbaragliati per la seconda volta, quando ormai la situazione era quasi disperata, chiesero la pace. Ai Sabini fu sottratta Collazia e tutto quel territorio che si trovava al di qua (di Collazia) della città. Egerio (era questo [il figlio del fratello] il nipote del re) fu lasciato a presidiare Collazia. I Collatini si arresero con queste parole, infatti è questa la formula della resa:

Il re domandò: "Siete proprio voi i legati e i portavoce inviati dal popolo collatino, (che avete l'incarico) con l'incarico di consegnare voi stessi ed il popolo collatino?". "Sì, lo siamo". "E il popolo collatino è forse padrone di se stesso?". "Lo è". "Consegnate dunque voi stessi e il popolo collatino, la città, le campagne, l'acqua, i confini, e tutti gli oggetti sacri e profani all'autorità mia e del popolo romano?". "Sì". "E io accetto". Conclusa la guerra contro i Sabini, Tarquinio ritornò a Roma trionfante. Quindi si scontrò con i Latini; qui in nessuna circostanza arrivò (ad un successo completo) ad uno scontro decisivo, ma soggiogò tutto il (nome) popolo latino accerchiando le città ad una ad una. Dei Latini o (degli alleati latini) dei loro alleati frono conquistate queste città: Cornicolo, Ficulea, Crustumeria, Medullia, Nomento. In seguito fu stipulata la pace. Quindi, con un impegno superiore di quello con cui aveva condotto le guerre, diede inizio alle opere di pace, affinché il popolo in periodo di pace non fosse più inattivo di quanto lo era stato durante la guerra. Infatti si accinge a far cotruire la cerchia muraria in pietra, il cui esordio era stato sconvolto dalla guerra con i Sabini, e fa prosciugare con dei condotti fognarli diretti verso il Tevere, i quartieri più bassi della città situati attorno al foro e le altre valli frapposte tra i colli, e fa gettare sul Campidoglio le fondamenta di un tempio che, durante la guerra coi Sabini, aveva promesso di innalzare in onore di Giove.

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