REGES ET REGINAE Ius fetiale

Livio Lingua latina per se illustrata
Mortuo Tullo res, ut institutum iam inde ab initio erat, ad patres redierat ... Egregieque rebus bello gestis, aedes Iovis Feretrii amplificata est.

Come era già stato stabilito fin dall'inizio, morto Tullio la faccenda aveva fatto ritorno ai padri ed essi avevano nominato un inter-re. Dopo aver tenuto dei comizi, il popolo creò re Anco Marzio; i senatori ne furono i creatori.

Anco Marzio era nipote del re Numa Pompilio, nato da una figlia (di lui). Costui, quando iniziò a regnare, e memore dell'avita gloria, e perché il re precedente o aveva trascurato gli affari religiosi o li aveva condotti malamente, per prima cosa decise di condurre le cerimonie pubbliche come erano state istituite da Numa. Quindi e per i cittadini bramosi di tranquillità e per le comunità confinanti nacque la speranza che il re si sarebbe conformato ai costumi ed ai comportamenti dell'avo. I Latini dunque, con i quali durante il regno di Tulio era stata conclusa un'alleanza, avevano ripreso coraggio (lett. avevano risollevato i loro animi), ed avendo compiuto un'incursione nell'agro Romano, ai Romani che ne chiedevano ragione, danno una risposta altezzosa - certi che il re Romano avrebbe passato il regno entro i confini e fra gli altari. Anco aveva un'intelligenza media, ed era memore di Numa e di Romolo. Credeva, più dell'avo, che la pace fosse necessaria al regno, quando nell'allora selvatico popolo, avrebbe difficilmente mantenuto la pace senza attacchi. Ma poiché Numa aveva istituito i riti religiosi durante la pace, Anco scrisse il diritto feziale, non solo perché si conducessero le guerre, ma anche perché si indicessero con un qualche rituale, con il quale si chiedesse ragione dei fatti e si dichiarasse la guerra: l'incaricato, quando giunge al loro confine dal quale si chiede ragione degli avvenimenti, con il capo coperto da un velo fatto con lana e filo, dice: "Ascolta Giove, ascoltate confini [dei Latini]: io sono un pubblico messaggero del popolo Romano. Vengo come messaggero di diritto e di ragione, e si abbia fiducia nelle mie parole. " Ripete poi le sue richieste. Poi chiama Giove a testimone: "Se io ingiustamente ed empiamente sollecito che mi siano consegnati quegli uomini e quelle cose, che io non possa più fare ritorno in patria!" Queste cose le dichiara quando varca i confini, quando entra nella porta della città, all'ingresso nel foro, cambiando poche parole. Se non gli è consegnato ciò che ha richiesto, passati trentatré giorni dichiara così la guerra: "Ascolta Giove, e tu Giano Quirino, e tutti gli dei celesti e voi dei terrestri e voi dei inferi ascoltate: io vi chiamo a testimoni che il popolo [Latino] ha torto e non rispetta il diritto!

Ma di queste cose in patria chiederemo consiglio agli anziani, per come ottenere il nostro diritto". Allora il messo torna a Roma per avere istruzioni. Subito il re all'inarca con queste parole interpellava i padri (senatori): "Di quelle cose che il messo del popolo Romano dei Quiriti ha richiesto ai Latini, le quali cose non hanno consegnato, né compiuto, né fatto, quelle cose che era necessario fossero date, compiute, di' tu "disse a colui che per primo chiedeva una risposta" cosa pensi?". Allora quello: "Penso che siano da perseguire con una pura e giusta guerra, e così sono d'accordo e così decido". Poi gli altri erano interrogati uno dopo l'altro, e quando la maggioranza di coloro che erano presenti arrivava alla stessa decisione, c'era l'accordo a che ci fosse la guerra. Accadeva di solito che un feziale portasse una lancia ferrata e insanguinata ai loro confini e - presenti non meno di tre adulti - dicesse: "Ciò che il popolo Latino e gli uomini Latini fecero, commisero contro il popolo Romano dei Quiriti, poiché il popolo Romano dei Quiriti ha ordinato che ci sia guerra con i Latini, ed il senato del popolo Romano dei Quiriti ha deliberato, e ha deciso che ci sia guerra con i Latini, per tutto ciò io e il popolo Romano dichiaro e faccio guerra al popolo Latino ed agli uomini Latini!" Quando ebbe detto ciò scagliava la lancia nel loro territorio. Richieste allora in tal modo le cose ai Latini e dichiarata la guerra, i posteri accettarono tale usanza. Anco, affidata l'incombenza degli affari sacri ai flamini e agli altri sacerdoti, partito con un esercito appena reclutato, prese con la forza Palidoro città dei Latini; e seguendo l'uso degli antichi re, che avevano ingrandito lo stato Romano con l'accogliere in città i nemici, trasferì a Roma tutta la moltitudine.

E poiché intorno al Palatino, sede degli antichi Romani, i Sabini avevano riempito il Campidiglio e la rocca e gli Albani il monte Celio, fu assegnato l'Aventino alla nuova gente. Alla fine, concentrata tutta la guerra Latina a Medullia, per un certo tempo ivi si combatté con alterne vittorie, infatti la città era rafforzata con fortificazioni e con una valida difesa. All'ultimo, avendo attaccato con tutte le forze, Anco vinse sul campo; tornò quindi a Roma impadronendosi di un ingente bottino. Anche allora molte migliaia di Latini furono accolti in città, affinché l'Aventino si congiungesse al Palatino, stabilite le residenze in valle Murcia. Anche il Gianicolo fu aggiunto alla città, non per mancanza di spazio, ma perché non diventasse un giorno rocca dei nemici. Questo (Gianicolo) fu congiunto alla città con il ponte Sublicio, costruito allora per primo sul Tevere. allora per primo sul Tevere. Incrementata così l'estensione di Roma, dato che in una moltitudine così grande di uomini accaddero delitti impuniti (lett. nascosti), fu edificato un carcere nelle vicinanze del foro in mezzo alla città per spaventare la delinquenza crescente. E non soltanto con questo re la città crebbe, ma anche la campagna ed il territorio. Il dominio fu prolungato fino al mare e fu fondata la città di Ostia allo sbocco del Tevere, costruite delle saline nelle vicinanze. E condotte egregiamente le imprese militari, fu ampliato il tempio di Giove Feretrio.

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