Ultimatum di Cesare ad Ariovisto (Versione di latino Cesare)

Ultimatum di Cesare ad Ariovisto - versione latino Cesare

Caesar legatos cum his mandatis mittit: quoniam tanto suo populique Romani beneficio adtectus, cum in consulatu suo rex atque amicus a senatu appellatus esset, hanc sibi populoque Romano gratiam referret ut in conloquium venire invitatus gravaretur neque de communi re dicendum sibi et cognoscendum putaret, haec esse quae ab eo postularet: primum ne quam multitudinem hominum amplius trans Rhenum in Galliam traduceret; deinde obsides quos haberet ab Haeduis redderet Sequanisque permitteret ut quos illi haberent voluntate eius reddere illis liceret; neve Haeduos iniuria lacesseret neve his sociisque eorum bellum inferret. Si [id] ita fecisset, sibi populoque Romano perpetuam gratiam atque amicitiam cum eo futuram; si non impetraret, sese, quoniam M. Messala, M. Pisone consulibus senatus censuisset uti quicumque Galliam provinciam obtineret, quod commodo rei publicae lacere posset, Haeduos ceterosque amicos populi Romani defenderet, se Haeduorum iniurias non neglecturum. Ad haec Ariovistus respondit: ius esse belli ut qui vicissent iis quos vicissent quem ad modum vellent imperarent. Item populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum arbitrium imperare consuesse. Si ipse populo Romano non praescriberet quem ad modum suo iure uteretur, non oportere se a populo Romano in suo iure impediri. Haeduos sibi, quoniam belli fortunam temptassent et armis congressi ac superati essent, stipendiarios esse factos. Magnam Caesarem iniuriam facere, qui suo adventu vectigalia sibi deteriora faceret. Haeduis se obsides redditurum non esse neque his neque eorum sociis iniuria bellum inlaturum, si in eo manerent quod convenisset stipendiumque quotannis penderent; si id non fecissent, longe iis fraternum nomen populi Romani afuturum. Quod sibi Caesar denuntiaret se Haeduorum iniurias non neglecturum, neminem secum sine sua pernicie contendisse.

Cum vellet, congrederetur: intellecturum quid invicti Germani, exercitatissimi in armis, qui inter annos XIIII tectum non subissent, virtute possent.
Cesare manda di nuovo ad Ariovisto degli ambasciatori, con il compito di comunicargli quanto segue: durante il consolato di Cesare, il senato e il popolo romano lo avevano definito re e amico. Adesso, poiché così dimostrava a Cesare e al popolo romano la sua gratitudine, rifiutandosi di venire a colloquio benché invitato e ritenendo di non dover discutere o conoscere questioni di interesse comune, Cesare, allora, gli notificava le proprie richieste: primo, di non far più passare in Gallia altri Germani; secondo, di restituire gli ostaggi ricevuti dagli Edui e di permettere ai Sequani di rendere quelli che detenevano per ordine suo; infine, di non provocare ingiustamente gli Edui e di non muovere guerra né a essi, né ai loro alleati. Regolandosi così, Ariovisto si sarebbe garantito per sempre il favore e l'amicizia del popolo romano. Cesare, invece, se non avesse ottenuto quanto chiedeva, non sarebbe rimasto indifferente alle offese inflitte agli Edui, perché sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone il senato aveva stabilito che il governatore della Gallia transalpina doveva difendere gli Edui e gli altri amici del popolo romano, per quanto ciò rispondesse agli interessi di Roma. Ariovisto replicò così: il diritto di guerra permetteva ai vincitori di dominare i vinti a proprio piacimento; allo stesso modo il popolo romano era abituato a governare i vinti non secondo le imposizioni altrui, ma a proprio arbitrio.

Se Ariovisto non dava ordini ai Romani su come esercitare il loro diritto, non c'era ragione che i Romani ponessero ostacoli a lui, quando applicava il suo. Gli Edui avevano tentato la sorte in guerra, avevano combattuto ed erano usciti sconfitti; perciò, li aveva resi suoi tributari. Era Cesare a fargli un grave torto, perché con il suo arrivo erano diminuiti i versamenti dei popoli sottomessi. Non avrebbe restituito gli ostaggi agli Edui, ma neppure avrebbe mosso guerra a essi, né ai loro alleati, se rispettavano gli obblighi assunti, pagando ogni anno i tributi. In caso contrario, poco sarebbe servito loro il titolo di fratelli del popolo romano. Se Cesare lo aveva avvertito che non avrebbe lasciato impunite le offese inferte agli Edui, gli rispondeva che nessuno aveva combattuto contro Ariovisto senza subire una disfatta. Attaccasse pure quando voleva: si sarebbe reso conto del valore degli invitti Germani, che erano addestratissimi e per quattordici anni non avevano mai avuto bisogno di un tetto.

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