La disfatta del Trasimeno, primavera del 217 a.C. (Versione Latino Livio)

La disfatta del Trasimeno, primavera del 217 a. C.
Autore: Livio

Tres ferme horas pugnatum est et ubique atrociter; circa consulem tamen acrior infestiorque pugna est.

Eum et robora uirorum sequebantur et ipse, quacumque in parte premi ac laborare senserat suos, impigre ferebat opem, insignemque armis et hostes summa ui petebant et tuebantur ciues, donec Insuber eques—Ducario nomen erat—facie quoque noscitans consulem, "" inquit "hic est" popularibus suis, "qui legiones nostras cecidit agrosque et urbem est depopulatus; iam ego hanc uictimam manibus peremptorum foede ciuium dabo". Subditisque calcaribus equo per confertissimam hostium turbam impetum facit obtruncatoque prius armigero, qui se infesto uenienti obuiam obiecerat, consulem lancea transfixit; spoliare cupientem triarii obiectis scutis arcuere. Magnae partis fuga inde primum coepit; et iam nec lacus nec montes pauori obstabant; per omnia arta praeruptaque uelut caeci euadunt, armaque et uiri super alium alii praecipitantur. Pars magna, ubi locus fugae deest, per prima uada paludis in aquam progressi, quoad capitibus exstare possunt, sese immergunt; fuere quos inconsultus pauor nando etiam capessere fugam impulerit; quae ubi immensa ac sine spe erat, aut deficientibus animis hauriebantur gurgitibus aut nequiquam fessi uada retro aegerrime repetebant atque ibi ab ingressis aquam hostium equitibus passim trucidabantur.


La battaglia, accanita in ogni settore, durò circa tre ore; tuttavia era intorno al console che si combatteva in modo più duro e violento. Gli stava accanto il nerbo dei combattenti e lui stesso, ovunque vedesse che i suoi subivano pressione ed erano in difficoltà, portava instancabilmente aiuto. Siccome con la sua armatura era un punto di riferimento, i nemici profondevano ogni sforzo per attaccarlo mentre i suoi concittadini lo proteggevano, ma ad un certo punto un cavaliere insubro riconobbe anche dalla fisionomia il console e urlò a quelli della sua gente: «Eccolo qui quello che ha sterminato le nostre legioni e ha devastato le nostre campagne e la nostra città. E ora io ne farò una vittima per i mani dei cittadini turpemente trucidati!». Dato di sprone al cavallo, si lanciò dove più serrate erano le file dei nemici: prima uccise uno scudiero che aveva cercato di opporsi al suo assalto, poi trafisse il console con la lancia. I triari si gettarono con i loro scudi a impedire il suo tentativo di spogliarlo.

Quello fu l'inizio della fuga per gran parte dei Romani; ormai nemmeno il lago e le montagne riuscivano a frenare la paura e, come ciechi, i Romani cercano di fuggire attraverso i luoghi più stretti e scoscesi mentre armi e uomini precipitano gli uni sugli altri. Molti altri, cui non si apre alcuna via di scampo, avanzano sui primi bassifondi paludosi, immergendosi in acqua fino a dove possono rimanere fuori con la testa o le spalle. Ci furono alcuni che, resi temerari dalla paura, cercarono la fuga a nuoto, ma poiché non avevano alcuna speranza di superare quelle enorme distanza, venivano inghiottiti dai gorghi quando mancavano le forze oppure, stancatisi inutilmente, riguadagnavano con enorme fatica i bassifondi e lì venivano uccisi dove capitava dai cavalieri nemici entrati in acqua.

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