Il dramma di Edipo (versione latino Seneca)

Il dramma di Edipo
Autore: Seneca

Ormai, cacciata la notte, torna, esitante, il sole; da una nuvolaglia scura spunta, triste, il suo raggio e spandendo luce luttuosa col suo fuoco portatore di morte, guarderà da lontano le case devastate dalla peste ingorda.

Sulla rovina che la notte ha portato, farà luce il giorno. Chi ormai può più godere del suo potere regale? O bene ingannevole, quanti mali tu nascondi sotto una apparenza quanto lusingatrice! Come è l’alto delle vette, sempre, a ricevere i soffi dei venti, come le ondate del mare sempre, anche nella bonaccia, colpiscono gli scogli che con le loro rocce rompono i marosi, così i poteri più alti sono soggetti alla Fortuna. Quanto giustamente ero fuggito lontano dallo scettro regale di mio padre Polibo! Ma anche così, libero da affanni, esule, vagando senza paura, mi sono imbattuto senza averlo cercato – ne chiamo a testimoni il cielo e gli dèi - nel potere regale. Di cose orrende ho paura: che trovi la morte per mano mia mio padre; di questo mi avverte l’oracolo di Delfi e un’altra colpa ancor più grave mi prospetta. Ma c’è un delitto più grave e più empio dell’uccidere il proprio padre? O mia infelice devozione filiale, mi vergogno a rivelare il destino profetizzato: Febo minaccia al figlio di condividere il letto, un giorno, con la madre, empio mostruoso incesto. È questa paura ad avermi spinto lontano dal regno di mio padre. Non da esule mi sono allontanato dalla mia patria: fidando poco io per primo in me stesso, ho voluto mettere al sicuro, o natura, le tue leggi. Se hai orrore di cose tremende che pur ritieni impossibili, ne puoi aver timore tuttavia: io di fronte a tutto sono preso da paura, nemmeno di me stesso mi fido. Ormai certo i fati preparano qualcosa contro di noi: cos’altro dovrei pensare di fronte al fatto che questa peste della città di Cadmo, così rovinosa per i Tebani e così estesa, me solo risparmia?

A quale sciagura siamo riservati? In mezzo alle rovine della città, in mezzo a morti da piangersi con lacrime sempre nuove e a mucchi di cadaveri, senza danno io mi reggo. Come facevi a sperare, tu, condannato da Febo, che a colpe così gravi fosse concesso un regno sano? Siamo stati noi ad ammorbare l’aria: nessun fresco soffio ristora i petti in affanno, non spirano dolci Zefiri, anzi il Sole, entrato nella costellazione del Leone, fa bruciare ancor più il fuoco della canicola. L’acqua ha abbandonato i fiumi, il colore ha abbandonato le erbe, la fonte di Dirce s’è inaridita, scarseggia d’acqua l’Ismeno e a malapena riesce a coprire il suo letto rimasto nudo. Fosca corre nel cielo la luna e il mondo, fattosi cupo, illividisce sotto una nuvolaglia mai vista; nessuna stella occhieggia nelle notti senza nuvole e invece un vapore pesante e scuro avvolge la terra: un aspetto infernale ha coperto le rocche dei celesti e le loro alte case. Cerere, giunto oramai il tempo, nega i suoi frutti – e bionda ondeggia con le sue alte spighe – e la messe sterile muore sul gambo rinsecchito. Non c’è luogo che non sia toccato dalla rovina: ogni età e ogni sesso allo stesso modo precipita e questa peste portatrice di morte coglie insieme giovani e vecchi, padri e figli; uno stesso rogo brucia gli sposi e le morti premature non ricevono pianti e lamenti. Anzi, una così ostinata strage, una così grande sventura, ha seccato gli occhi e non ci sono più lacrime, come accade nei mali estremi. Questo il padre sofferente lo porta sul rogo funebre, quest’altro la madre impazzita lo porta, e si affretta per andare poi a prendere un altro figlio e portarlo sul medesimo rogo. All’interno del lutto un nuovo lutto nasce e il rito funebre si interrompe.

Cremano su roghi altrui i corpi dei loro cari, si rubano il fuoco: nella loro infelicità non c’è posto per il pudore; non ci sono tumuli separati a coprire le sacre ossa, è abbastanza che siano state bruciate – quanta parte finisce in cenere? Manca terra per i tumuli, i boschi non han più legna per i roghi. Non c’è preghiera, non c’è arte medica che possa sollevare chi è colpito dalla malattia: cadono i medici, il morbo si porta via anche chi potrebbe essere di aiuto. Prostrato davanti agli altari levo le mie mani supplici, chiedo che venga anche il mio momento, per precorrere la rovina della patria e non cadere soltanto dopo tutti gli altri ed essere io la fine ultima del mio regno. O dèi troppo crudeli, o destino gravoso: a me solo dunque, in questo popolo, si nega una morte peraltro così sollecita? Lascia il regno contagiato da mano fatale, lascia le lacrime, le morti, le infezioni dell’aria che porti con te, ospite infausto, vattene in fretta, fosse anche presso i tuoi genitori!

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