L'educazione della donna secondo Augusto (Versione Svetonio)

L'educazione della donna secondo Augusto
Autore: Svetonio Da BREVE ITER

Filiam et neptes ita instituit, ut etiam lanificio assuefaceret vetaretque loqui aut agere quicquam nisi propalam et quod in diurnos...

Allevò la figlia e le nipoti con tanta severità che le abituò anche al lavoro della lana e vietò loro di dire e fare qualcosa se non in pubblico, perché tutto potesse essere riportato nelle quotidiane relazioni della sua casa.

Proibì a tal punto ogni rapporto con gli estranei che un giorno scrisse a L. Vinicio, giovane di buona famiglia, che si era preso un'eccessiva libertà venendo a Baia per salutare sua figlia. Personalmente, per lo più, insegnò alle nipoti a leggere, a scrivere e tutti gli altri rudimenti essenziali e per di più si impegnò perché imparassero ad imitare la sua scrittura. Non cenò mai insieme con loro se non facendole sedere ai piedi del suo letto e se viaggiavano con lui lo precedevano su un carro o cavalcavano al suo fianco.
Ma il destino non gli concesse di godere della gioia di avere una famiglia numerosa e della fiducia di possedere una casa ben disciplinata. Le due Giulie, la figlia e la nipote, colpevoli di ogni scostumatezza, dovette esiliarle, mentre, nello spazio di diciotto mesi gli morirono Gaio e Lucio, il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro, in forza della legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio, ma ben presto, considerate la grossolanità e la brutalità di Agrippa, annullò l'adozione e lo fece deportare a Sorrento.

Ciò nonostante sopportò molto più coraggiosamente la morte dei suoi cari che il loro disonore. La morte, infatti, di Gaio e di Lucio non lo prostrò oltre misura, ma quando si trattò della figlia, fece informare il Senato per mezzo di una comunicazione che lesse un questore, senza che lui si presentasse, poi la vergogna a lungo lo tenne lontano da ogni contatto con la gente e pensò perfino di farla uccidere. Ad ogni modo, nello stesso periodo di tempo, quando venne a sapere che una delle complici di sua figlia, la liberta Febe, aveva posto fine ai suoi giorni impiccandosi, disse che avrebbe preferito essere il padre di Febe. Alla figlia esiliata proibì l'uso del vino ed ogni forma di lusso e non permise a nessun uomo, libero o schiavo che fosse, di avvicinarla se non con la sua autorizzazione, in modo da poter conoscere l'età del visitatore, la taglia, il colore e perfino i segni particolari e le cicatrici. Alla fine, dopo cinque anni, dall'isola, la trasferì sul continente mettendola in condizioni più sopportabili. Ma nessuna intercessione poté fare in modo che la richiamasse presso di sé e quando il popolo romano implorava la grazia con ostinata insistenza, egli in piena assemblea gli augurò di avere tali figlie e tali spose.

Si rifiutò di riconoscere e di allevare il figlio che la nipote Giulia aveva messo al mondo dopo la sua condanna. Agrippa per altro non diveniva certo più trattabile, anzi di giorno in giorno sembrava sprofondare nella follia, tanto che lo fece trasportare su un'isola e per di più circondato da una guardia di soldati. Prese anche la decisione di farlo trattenere per sempre in quel luogo, mediante un decreto del Senato. Ogni volta poi che si faceva menzione sia di Agrippa, sia delle due Giulie, gemendo era solito esclamare: «Fosse piaciuto al cielo che non mi fossi mai sposato e fossi morto senza discendenti» e non li chiamava in altro modo che i suoi tre ascessi, i suoi tre cancri.

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