L'elogio della vita agreste (Versione dalle Georgiche di Virgilio)

L'elogio della vita agreste
Versione dalle Georgiche di Virgilio

O fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis fundit humo facilem victum iustissima tellus....

O fortunati, fortunati i contadini, se apprezzassero i beni che possiedono! Lontano dal contrasto delle armi, la terra con esemplare giustizia genera spontaneamente dal suolo ciò che a loro senza difficoltà serve per vivere.

Se un palazzo imponente la mattina dall'atrio gremito non vomita attraverso le sue porte superbe l'alluvione di chi è venuto a salutare, se a bocca aperta non si possono ammirare battenti intarsiati di tartaruga e vesti ricamate d'oro, bronzi di Corinto, se la lana bianca non è adulterata dai colori d'oriente e la cannella non corrompe la purezza dell'olio; la loro pace almeno è sicura e la vita, ricca d'un mondo di risorse, non conosce inganni, ma l'ozio nella vastità dei campi fra grotte, laghi di sorgente, la frescura di Tempe e muggiti di buoi, e sotto un albero non mancherà la dolcezza del sonno. Là trovi pascoli e tane di belve, giovani che non temono fatica, abituati ai sacrifici, e il culto degli dei, il rispetto dei padri; andandosene dalla terra la Giustizia lasciò tra loro le sue ultime tracce. Rapito da infinito amore, più care d'ogni bene mi accolgano le Muse a cui sono consacrato, e m'insegnino le vie del cielo, delle stelle, le eclissi del sole, le fasi della luna; perché tremi la terra, per quale forza, rotti gli argini, si gonfi così alto il mare e in sé poi si quieti; perché d'inverno il sole tanto si affretti a bagnarsi nell'oceano e d'estate le notti tardino a venire. Ma se il mio sangue gelando intorno al cuore mi vieterà d'avvicinare questa parte della natura, vorrei che mi fosse cara la campagna, l'acqua che scorre nelle valli e potessi con umiltà amare le foreste, i fiumi. Dove, dove sono le piane dello Sperchio e il Taigeto, percorso da cortei di vergini spartane? Qualcuno mi fermi alle gelide valli dell'Emo, all'ombra fitta dei suoi rami! Felice chi si avvicina al cuore delle cose e calpesta la paura d'ogni paura, il fato inesorabile, il frastuono ossessivo di Acheronte.

E fortunato ancora chi conosce gli dei agresti e Pan, il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle. Non lo turbano i fasci del popolo, la porpora dei re o la discordia che infidi agita i fratelli, i Daci che uniti in congiura scendono dall'Istro o la potenza di Roma, i regni destinati a perire; non soffre per pietà dei poveri, non invidia il ricco. Coglie i frutti che i rami, i campi generosi spontaneamente producono e ignora le leggi severe, le insanie del foro, i pubblici archivi. Ma c'è chi tormenta coi remi mari ignoti e con le armi in pugno penetra nelle corti, nelle stanze dei re; abbatte città, focolari indifesi per bere in una tazza preziosa, dormire sulla porpora di Tiro; o accumula ricchezze vegliando sull'oro sepolto; o si stupisce attonito davanti ai rostri, s'incanta rapito dall'applauso comune di popolo e patrizi che si leva a teatro; e chi cosparso di sangue fraterno si rallegra e muta la casa, la dolce terra con l'esilio cercando nuova patria sotto un altro sole. Curvo sull'aratro l'agricoltore smuove la terra: questa la sua fatica; e così nutre la casa, i figli, gli armenti di buoi, i giovenchi. Non vi è mai riposo: ogni giorno dell'anno trabocca di frutti, di nati del bestiame, di covoni di frumento e nei solchi si accumula il raccolto, al suo peso cedono i granai. Viene l'inverno: l'oliva si rompe nei frantoi, sazi di ghiande tornano i maiali, le selve si riempiono di bacche e l'autunno depone tutti i suoi frutti: al sole dolce matura l'uva sulle rocce.

Pendono teneri i figli intorno ai baci e la casa conserva puro il suo pudore; seni gonfi di latte porgono le vacche e capretti robusti sull'erba folta lottano tra loro con le corna. Nei giorni di festa il contadino riposa e sdraiato sul prato intorno al fuoco, dove i compagni incoronano il cratere, alzando il bicchiere t'invoca, Leneo; pone ai pastori per la gara delle frecce il bersaglio su un olmo, e i corpi induriti si spogliano per una lotta rusticana. Così un tempo era la vita degli antichi Sabini e di Remo, del fratello, così crebbe forte l'Etruria e Roma divenne la più bella città del mondo, chiusa fra le mura, sola su sette colli. Così prima del regno di Giove, quando sulle mense uomini empi non ponevano giovenchi uccisi, così si viveva sulla terra nell'età d'oro di Saturno; e mai s'erano udite squillare trombe di guerra, mai stridere spade sulle incudini di ferro. Ma il cammino percorso è senza fine e ormai è tempo di sciogliere i miei cavalli fumanti.

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