Referam tibi meae infelicitatis historiam Cum ante annos plurimos domo, parentibus, sorore, cognatis et, quod his difficilius est,consuetudine lautioris cibi propter caelorum me regna castrassem et Hierosolymam militaturus
pergerem, bibliotheca, quam mihi Romae summo studio ac labore confeceram, carere non poteram.Itaque miser ego lecturus Tullium ieiunabam. Post noctium crebras uigilias, post lacrimas, quas mihi praeteritorum recordatio peccatorum ex imis uisceribus eruebat, Plautus sumebatur in manibus. Si quando in memet reuersus prophetam legere coepissem, sermo horrebat incultus et, quia lumen caecis oculis non uidebam, non oculorum putabam culpam esse, sed solis. Dum ita me antiquus serpens inluderet, in media ferme quadragesima medullis infusa febris corpus inuasit exhaustum et sine ulla requie – quod dictu quoque incredibile sit – sic infelicia membra depasta est, ut ossibus uix haererem. Interim parabantur exsequiae, et uitalis animae calor toto frigente iam corpore in solo tantum tepente pectusculo palpitabat, cum subito raptus in spiritu ad tribunal iudicis pertrahor, ubi tantum luminis et tantum erat ex circumstantium claritate fulgoris, ut proiectus in terram sursum aspicere non auderem. Interrogatus condicionem Christianum me esse respondi. Et ille qui residebat: ‘Mentiris’, ait, ‘Ciceronianus es, non christianus; «ubi thesaurus tuus,ibi et cor tuum»’.
Riferisco a te la mia storia di infelicità.Quando, molti anni fa, mi amputai, per il regno dei cieli, casa, genitori, sorella, parenti e – cosa più difficile – l’abitudine a pranzi piuttosto lauti, dirigendomi alla volta di Gerusalemme a militare per Cristo, non potevo restar privo della biblioteca che a Roma mi ero messa insieme con molta cura e fatica. E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Dopo frequenti veglie notturne, dopo le lacrime che mi faceva uscire dal profondo delle viscere il ricordo dei vecchi peccati, prendevo in mano Plauto. E se talvolta, ritornato in me, iniziavo a leggere i profeti, mi faceva orrore quel linguaggio rozzo e, non vedendo la luce a causa della cecità degli occhi, non pensavo che fosse
colpa degli occhi; ma del sole. Mentre l’antico serpente si faceva beffe di me in questo modo, verso la metà della Quaresima la febbre mi penetrò fin nelle midolla e si impadronì del mio corpo esausto, e senza un attimo di tregua – anche a dirlo è incredibile – mi consumò le membra infelici al punto che a stento restavo attaccato alle mie ossa. Intanto si preparava il funerale; tutto in corpo era già freddo ed il calore vitale dell’animo palpitava solo nel povero petto, appena tiepido, quando improvvisamente, rapito nello spirito, vengo tratto davanti al tribunale del Giudice, dove c’erano tanta luce e tanto fulgore irradiato dai presenti che io, gettatomi a terra, non avevo il coraggio di alzare lo sguardo. Interrogato su chi fossi, risposi di essere cristiano. E colui che sedeva disse: «Menti, tu sei ciceroniano, non cristiano; “dove c’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore”».