Nelle cave di pietra il trattamento imposto nei primi tempi dai Siracusani fu durissimo: a cielo aperto, stipati in folla tra le pareti a picco di quella cava angusta, in principio i detenuti patirono la sferza del sole bruciante, e della vampa che affannava il respiro. Poi, al contrario, successero le notti autunnali, fredde, che col loro trapasso di clima causavano nuovo sfinimento e più gravi malanni. Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l'uno sull'altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile. E li affliggeva il tormento della fame e della sete (poiché nei primi otto mesi i Siracusani gettavano loro una cotila d'acqua e due di grano come razione giornaliera a testa). Per concludere, non fu loro concessa tregua da nessuna delle sofferenze cui va incontro gente sepolta in un simile baratro. Per circa settanta giorni penarono in quella calca spaventosa. Poi, escluse le truppe ateniesi, siceliote o italiote che avevano avuto responsabilità diretta nella spedizione, tutti gli altri finirono sul mercato degli schiavi. Il dato preciso sul numero effettivo dei prigionieri è difficile da stabilire con rigore: comunque non fu inferiore a settemila. Questo riuscì l'evento bellico più denso di conseguenze per i Greci, in tutto l'arco della guerra e, almeno secondo il mio giudizio, il più grandioso in assoluto tra i fatti della storia greca registrati dalla tradizione: quello che garantì il maggior trionfo alla potenza vincitrice e inflisse agli sconfitti la ferita più mortale. Disastrose disfatte, su tutti i fronti; tormenti di ogni sorte, acuiti allo spasimo. Fu insomma una distruzione radicale: è proprio questa la parola; e vi scomparve l'esercito, si dissolse la marina, e nulla si riuscì a salvare. E pochi della folla partita un giorno fecero ritorno a casa. Ecco, furono questi gli avvenimenti sul suolo della Sicilia.
Libro Ottavo - I
1. Allorché Atene fu colta dalla notizia la città stette per lungo tempo incredula, perfino contro i lucidi rapporti di alcuni reduci, uomini di garantito stampo militare, che rimpatriavano fuggiaschi dal teatro stesso delle operazioni: l'annientamento dell'armata non poteva davvero esser stato così totale. Ma quando ogni dubbio cadde, la folla ruppe in una feroce protesta contro gli oratori che avevano incoraggiato in pubblico la spedizione, quasi non fossero stati i cittadini stessi i responsabili del decreto. E il malumore ferveva anche contro gli interpreti dei responsi profetici e contro i vati, con tutta la specie di quelli che allegando predizioni celesti avevano divulgato l'illusione di una bella conquista in Sicilia. Intorno, ogni oggetto era ormai fonte di desolata amarezza: e sul popolo affranto da quel colpo mortale si stringeva una morsa di paura e di gelido sgomento. Poiché ognuno, in casa propria, aveva vittime da piangere: e il gemito riecheggiava diffuso nello stato, dolorosamente infranto sotto il peso di perdite atroci: ricche schiere di opliti, di cavalieri e il fiore di una gioventù distrutta cui non si scorgeva possibilità di rimedio. Si vedeva che negli arsenali la marina era insufficiente; che le finanze dell'erario dileguavano, che il personale di bordo per la flotta era introvabile: e ogni speranza di salvezza in quel frangente s'affievoliva. Anzi pareva già d'avvistare, di ora in ora, con gli occhi del terrore, vele nemiche accorrenti nel Pireo, sorte, folgorante minaccia, da quei mari remoti di Sicilia, superbe di tanta vittoria. Certo le genti ostili di Grecia raddoppiavano gli sforzi di guerra, allestendo con le truppe di terra e di mare un'offensiva senza tregua, mentre al loro fianco si schieravano gli alleati d'Atene, svelti al tradimento. Tuttavia, nei limiti delle possibilità presenti, si decideva di non arrendersi, ma di ricostituire una forza marina con l'acquisto di legname e stanziamenti economici, per quanto consentivano le ristrettezze attuali. Si doveva rinnovare con gli alleati, specialmente con l'Eubea, una politica di sicurezza ferrea; attenersi, in fatto di amministrazione interna della città, a regole oculate di risparmio; creare con potere esecutivo una commissione di cittadini anziani che programmassero in anticipo i provvedimenti da applicare, caso per caso in rapporto alla crisi dilagante. In breve sotto l'impressione della sovrastante minaccia (così è solito reagire il popolo) eran tutti pronti a serrarsi docilmente in quadrato. Furono queste le misure decretate, e che poi entrarono in vigore. Quest'estate, intanto, declinava.
2. Nell'inverno seguente, per la disastrosa conclusione dell'avventura ateniese in Sicilia, s'era sollevata in ogni angolo della Grecia una collettiva eccitazione: le potenze non allineate negli opposti blocchi si convincevano che anche senza attendere un appello diretto non era più tempo di conservarsi neutrali in quel conflitto; anzi urgeva affrettare la prima mossa e aggredire Atene, ciascuno ragionando che sarebbe stata ben presto la propria volta se gli Ateniesi, coronata con successo l'impresa siciliana, avessero potuto allargare le ambizioni. Le fasi conclusive della guerra, calcolavano tra loro, non potevano trascinarsi a lungo: e il personale intervento avrebbe fruttato la gloria. Per loro conto gli alleati spartani soffiavano anche più forte di prima sul fuoco del generale entusiasmo, sospirando d'ottenere, con un ultimo breve sforzo, sollievo dai propri annosi sacrifici. Ma il fermento più vivo ribolliva tra gli stessi sudditi ateniesi, risoluti a staccarsi, senza badare se all'atto fossero sufficienti le proprie forze: poiché la loro valutazione politica, resa faziosa da quella febbre generale, troncava in bocca ai corrieri ateniesi la protesta che, almeno per l'estate prossima, sarebbe bastata ad Atene l'energia per reggere e riprendersi. Da questa serie di elementi lo stato spartano ricavava vigore e confidenza: anzitutto prevedendo, come era del resto naturale e facile che i suoi alleati di Sicilia sarebbero accorsi all'inizio della primavera, forti di un grandioso armamento: essi, infatti disponevano della flotta che le necessità strategiche avevano imposto d'allestire, in appoggio alle divisioni terrestri. Le premesse, dunque, risultavano propizie a Sparta in ogni campo: sicché essa meditava di riaprire le ostilità senza mezze misure, stimando che una lieta conclusione della guerra l'avrebbe sollevata da incubi così sinistri, quale la minacciosa rete che gli Ateniesi le avrebbero tramato attorno, se fosse loro riuscita la conquista delle risorse siciliane. Inoltre, atterrando la potenza nemica, Sparta si riprometteva d'instaurare senza rischi la propria egemonia sul mondo greco.
3. Di conseguenza Agide, il re spartano, non attese neppure che spirasse quell'inverno per staccarsi dalla fortezza di Decelea con un contingente di truppe e raccogliere, visitando in giro i centri alleati, i contributi in denaro per il potenziamento della marina. Puntò sul golfo Maliaco, con un duplice scopo: strappare alle genti dell'Eta, per l'antica ruggine che li faceva ostili a Sparta, la maggior quantità della loro preda bellica, ricavandone denari con la vendita. Poi, sordo ai reclami e ai malumori del Tessali, costrinse gli Achei di Ftia e le altre popolazioni di quelle contrade suddite dei Tessali a fornire ostaggi e fondi. E dopo aver confinato gli ostaggi a Corinto, si adoperò per far aderire alla lega quelle genti. Gli Spartani intanto assegnavano alle città l'allestimento forzato di cento triremi, distribuendo in tal modo i lavori: s'impegnavano ad armare essi stessi venticinque unità e pari numero ne esigevano dai Beoti; quindici dalla Locride e dalla Focide; quindici da Corinto, l'Arcadia, Pellene e Sicione insieme ne dovevano fornire dieci Megara e Trezene, con Epidauro ed Ermione altre dieci. Non trascurarono ogni altro preparativo poiché ai primi giorni di primavera intendevano far scattare l'offensiva.
4. Anche gli Ateniesi si rianimavano, quell'inverno, seguendo il programma tracciato e cioè con la ricostruzione della marina, per cui vedevano di procurarsi il legname, e con l'attrezzare a caposaldo il promontorio Sunio, allo scopo di garantire ai mercantili carichi di grano una navigazione senza sorprese. Inoltre lasciarono in disarmo la fortezza che avevano piantato sul suolo della Laconia all'epoca dell'imbarco per la Sicilia. Divennero parsimoniosi contraendo le uscite laddove parevano ingiustificate e sterili: sempre all'erta, con gli occhi puntati sui paesi aderenti, per prevenire un tradimento o stroncarlo con mano tempestiva.
5. Mentre i due blocchi incrementavano i rispettivi potenziali bellici, con uno spirito d'iniziativa non meno intenso di quando ci si prepara per la prima volta ad entrare in un conflitto, proprio in quell'inverno le genti dell'Eubea spedirono per prime ad Agide un'ambasceria per intendersi sulla propria rivolta contro Atene. Agide si compiacque del progetto e convocò da Sparta Alcamene figlio di Stenelada e Melanto perché organizzassero il moto insurrezionale in Eubea: e costoro si presentarono con un contingente di circa trecento Neodamodi. Agide, intanto, preparava loro il terreno per passare in Eubea. Ma, proprio allora, comparvero i Lesbi, risoluti anch'essi alla defezione. Si associarono all'intrigo pure i Beoti, e dalle insistenze congiunte dei due stati Agide si lasciò indurre a differire l'impresa d'Eubea, dedicandosi ad elaborare con comodo un piano per la rivoluzione a Lesbo. Vi dislocò come armosta Alcamene mentre costui era già in procinto di trasferirsi in Eubea. I Beoti aggiunsero la promessa di dieci navi, e Agide di altre dieci. Tutte mosse per cui non occorreva interpellare l'autorità governativa di Sparta: poiché per tutto il periodo di fazione alla base di Decelea Agide, comandante unico delle sue forze armate, aveva carta bianca per decidere l'impiego delle truppe in qualsiasi scacchiere, per reclutarne a discrezione e per prelevare denari. Sicché è lecito asserire che in quella fase della guerra gli alleati mostravano più rispetto per lui che per le alte magistrature cittadine di Sparta: giacché, disponendo personalmente dell'armata, piombava su qualunque obiettivo con impressionante celerità. Mentre Agide concertava con Lesbo i particolari, i cittadini di Chio e di Eritre, bramosi essi pure di scuotere il giogo ateniese, non ricorsero ad Agide, ma direttamente a Sparta. Alla loro delegazione s'accompagnava anche Tissaferne, colui che a nome del re Dario, figlio di Artaserse, esercitava il potere sui distretti persiani della costa. Tissaferne era venuto a caldeggiare l'intervento dei Peloponnesi, cui prometteva i mezzi di sussistenza. Gli era capitata addosso da poco la richiesta regia dei tributi prescritti al suo governatorato: ma, impedito dagli Ateniesi, non aveva riscosso nulla dalle città greche, ed era perciò in debito. Tormentando Atene, sperava di percepire i propri tributi con maggior comodo e regolarità. In aggiunta avrebbe procurato al suo sovrano l'alleanza di Sparta oltre a potergli assicurare; in obbedienza a un comando personalmente impartito dal re, Amorge figlio illegittimo di Pissutne, che in Caria fomentava la rivolta: vivo o morto.
6. Ora, mentre gli isolani di Chio spalleggiati da Tissaferne se la fanno per comuni fini con gli Spartani, compaiono a Sparta, circa alla stessa epoca, due nuovi personaggi: Calligito figlio di Laofonte, da Megara, e Timagora, figlio di Atenagora, da Cizico, fuoriusciti entrambi dalle rispettive patrie e stabilitisi presso Farnabazo figlio di Farnace. Era stato proprio costui, Farnabazo, a metterli in viaggio verso Sparta, per ottenere un intervento della marina spartana nelle acque dell'Ellesponto. Anch'egli era ispirato da un movente analogo a quello di Tissaferne, di poter cioè staccare da Atene le città tributarie (ovviamente per il problema comune della riscossione tributaria) e suggellare l'impresa con un brillante successo diplomatico personale: il varo del progetto d'accordo tra il suo re e gli Spartani. Ma, poiché le due missioni - quella spedita da Farnabazo e l'altra, portavoce di Tissaferne - intrattenevano preliminari segreti in separata sede, era in corso a Sparta una vivace polemica tra il gruppo di quelli che premevano sul governo perché concedesse priorità assoluta alle operazioni nella Ionia e in Chio, e l'opposizione che insisteva con la richiesta d'interventi navali e terrestri nel settore dell'Ellesponto. Sparta, nella sua grande maggioranza, accolse più volentieri l'appello dei partigiani di Tissaferne e di Chio. Poiché anche Alcibiade s'era intromesso, a brigare per la loro vittoria e costui, per tradizione famigliare, era legato da vincoli strettissimi di ospitalità con l'eforo Endio. Proprio per onorare quest'intimità, la casata di Alcibiade aveva scelto per lui questo nome, che suonava spartano: anche il padre di Endio si chiamava infatti Alcibiade. Tuttavia gli Spartani mandarono a Chio, prima di arrischiare dei passi, uno dei loro perieci, un tale Frinide, per un'inchiesta destinata ad appurare se la gente di laggiù disponesse davvero di un numero di navi pari a quello divulgato, e se la città in complesso potesse contare su risorse corrispondenti alla stima che la cingeva. Appena questo agente ebbe inoltrato un rapporto positivo sulle reali dimensioni della potenza isolana, in tutto uguali alle voci che circolavano, Sparta iscrisse subito nella sua lega i Chii e i cittadini di Eritre, decretando una spedizione di quaranta navi: una forza ragionevole, considerando che i Chii garantivano di tenere in assetto a casa propria non meno di sessanta unità. In un primo momento gli Spartani avevano pensato di mandarne avanti dieci agli ordini di Melancrida, che era il loro navarco. Ma proprio allora intervenne un terremoto e sostituito Melancrida misero in mare Calcideo; poi, abolendo il progetto delle dieci unità, si limitarono all'armamento di cinque navi nella Laconia. Con questo episodio si chiudeva l'inverno e con esso volgeva a termine anche il diciannovesimo anno di questa guerra che Tucidide descrisse.
7. Appena sorta la primavera della seguente stagione estiva dietro le ostinate richieste di interventi navali in arrivo da Chio, dove si temeva che ad Atene approdasse qualche eco di quegli intrighi (tutte le ambascerie operavano all'insaputa di Atene), Sparta provvide a spedire in Corinto un terzetto di Spartiati con l'avviso di accelerare il più possibile il trasporto delle navi ancorate nel braccio di mare corinzio nell'opposto specchio, quello su cui si affaccia Atene, percorrendo la via di terra, attraverso l'Istmo. Di lì dovevano salpare tutte con rotta su Chio: sia quelle che Agide equipaggiava per passare a Chio, come le altre. In quella baia le unità della lega complessivamente radunate arrivavano a trentanove.
8. Calligito e Timagora, emissari che lavoravano per conto di Farnabazo, non vollero aggregarsi alla spedizione in partenza per Chio ne consentirono a depositare i venticinque talenti che avevano recato con sé per provvedere ai bisogni della flotta: progettavano piuttosto di prendere il largo più tardi con forze navali allestite per conto proprio. Quanto ad Agide, apprendendo che la meta principale dell'azione spartana diveniva Chio, fu anch'egli dell'idea. Concentratisi a Corinto, gli alleati stilarono un programma operativo: obiettivo primario restava Chio, verso cui sarebbero salpati agli ordini di Calcideo, che stava armando le cinque navi in Laconia; di lì puntare su Lesbo, mettendosi a disposizione di Alcamene, cioè l'uomo già indicato da Agide; più tardi, a conclusione della campagna, passare nell'Ellesponto (a dirigere quest'ultima parte dell'impresa s'era designato Clearco, figlio di Ranfia). Solo metà della flotta, in un primo momento, sarebbe stata trasferita sull'Istmo da un mare all'altro, veleggiando poi senza indugi al largo affinchè gli Ateniesi non potessero concentrare sulla prima squadra di navi maggior attenzione che sul secondo gruppo, il cui trasporto doveva seguire a breve distanza. poiché i Peloponnesi intendevano partire di lì e compiere la traversata con beffarda disinvoltura, facendosi gioco dell'impotenza ateniese. La marina nemica, infatti, non faceva ancora sentire il suo peso in nessun settore. Sicché il pianto fu così deciso, e le prime ventun navi varcarono l'Istmo senza ritardi.
9. A dispetto delle insistenze alleate, intese ad affrettare l'imbarco, l'impegno dei Corinzi fu deludente, finché non ebbero celebrate le festività istmiche che proprio in quella data ricorrevano. Agide si confessò pronto al compromesso: che evitassero pure di infrangere la tregua istmica avrebbe pensato lui a guidar la flotta a titolo personale. I Corinzi dissentirono. Si perse del tempo e qualche notizia più netta e certa filtrava ad Atene sugli intenti di Chio. Gli Ateniesi inviarono dai Chii Aristocrate, uno dei loro strateghi, ad esigere un chiarimento plausibile: a Chio si negò tutto. Gli Ateniesi invocarono gli articoli dell'alleanza e richiesero come pegno di fiducia l'invio di una squadra navale. Da Chio furono messe a disposizione sette unità. Questa partenza fu giustificata dalla circostanza che per la folla di Chio i negoziati in corso erano mistero: e le frange oligarchiche che ne erano al corrente non intendevano attirarsi l'ostilità popolare prima di poter fare affidamento su qualche elemento sicuro. Frattanto l'attesa dei rinforzi dal Peloponneso si spegneva: troppo grave era il loro ritardo.
10. In quei giorni si celebravano le feste istmiche e gli Ateniesi (cui era giunto l'invito e l'avviso di tregua) s'erano presentati per prendervi parte. Sicché l'intrigo di Chio trasparì più lampante. Essi allora si ritirarono immediatamente, accingendosi a spiare la squadra in partenza da Cencrea per non lasciarla partire senza esserne informati. Conclusi i giochi, i Peloponnesi presero il mare con le ventuno unità agli ordini di Alcamene, con rotta su Chio. Anche gli Ateniesi si mossero senza perder tempo: e con pari numero di navi avanzarono contro la flotta avversaria cercando di attirarla al largo ma i Peloponnesi si mantennero per poco sulla loro scia, poi virarono. Quinti anche gli Ateniesi tornarono indietro: infatti avevano nella squadra le sette navi di Chio ritenute malfide. Ma poco dopo aggiunsero altre unità equipaggiate fino a costituire una flotta di trentasette triremi, con cui si gettarono sulle tracce del nemico, in navigazione lungo la costa. Lo tennero d'occhio fino a Spireo, un porto deserto del territorio di Corinto, sito al punto estremo della frontiera con Epidauro. In quel mare al largo, i Peloponnesi persero una trireme ma, radunate le altre, si ormeggiarono. Gli Ateniesi, vibrato un assalto dal lato del mare e dalla parte di terra con le truppe da sbarco determinarono una rotta disordinata e indescrivibile nelle schiere nemiche. Sulla spiaggia gli Ateniesi si danno ad aprire falle nelle chiglie avversarie e ammazzano il comandante Alcamene: qualche vuoto anche tra le loro file.
11. Sganciate le proprie truppe, gli Ateniesi distaccarono un nerbo navale sufficiente a stabilire il blocco contro la flotta nemica e con le altre unità della squadra si ancorarono intorno all'isolotto, non molto distante, su cui si accingevano a piantare il campo. Intanto mandavano un corriere ad Atene con un appello di rinforzi. Infatti, il mattino dopo, accorsero anche i Corinzi ad appoggiare la flotta dei Peloponnesi in difficoltà, e più tardi vennero di rincalzo anche altri contingenti di popolazioni limitrofe. Ma i Peloponnesi si avvidero che la difesa della flotta in quella spiaggia, isolata e deserta, era compito arduo e non sapevano risolversi ad agire. Dapprima ebbero l'ispirazione di ardere le navi, ma poi si decise di trascinarle in secco e schierandovi intorno la fanteria di presidiarle, finché capitasse l'opportunità adatta per allontanarsi. Anche Agide, quando apprese l'infortunio, inviò loro uno Spartiata: Termone. A Sparta, in un primo tempo, era giunta comunicazione che la squadra s'era staccata dall'Istmo (poiché Alcamene aveva ricevuto dagli efori il comando di spedir subito un cavaliere, appena salpate le navi), e gli Spartani erano inclini a far subito seguire la squadra di cinque navi che tenevano in serbo nel loro porto, agli ordini di Calcideo, coadiuvato da Alcibiade. A breve intervallo di tempo, quando l'imbarco era questione di attimi, venne segnalato l'incidente occorso alla prima flotta, costretta a riparare nello Spireo. L'entusiasmo per l'impresa cadde subito, poiché proprio all'apertura delle operazioni belliche in Ionia s'era subito un disastro così avvilente. Onde si abrogò la decisione di far salpare le navi e a Sparta, anzi, si ventilò il proposito di farne rientrare alcune già uscite in avanscoperta.
12. Giuntogli all'orecchio questo ripensamento Alcibiade s'impegnò una seconda volta per convincere Endio e gli altri efori a non perder tempo con la spedizione, asserendo che se si affrettava la corsa si poteva comparire a Chio con la squadra prima che laggiù divenisse di pubblico dominio l'infortunio toccato alle prime navi. Egli stesso poi, bastava che mettesse piede in Ionia per indurre con facilità i centri di quella regione a ribellarsi contro il dominio di Atene, illustrando la fragilità del suo apparato bellico e lo zelo battagliero di Sparta: era lui la persona più adatta a destar fiducia su questo tema. A quattr'occhi con Endio, andava suggerendogli altri particolari più personali: l'onore, ad esempio, di siglare con il proprio nome la rivolta della Ionia ateniese, o di procurare a Sparta, quale diretto intermediario, l'alleanza con il Gran Re. Endio aveva forse intenzione di concedere ad Agide questa brillante affermazione politica? (Tra i due per l'appunto non mancavano gli attriti). Sicché, persuaso Endio e, con lui, tutto il collegio degli efori, Alcibiade salpò con le cinque navi in compagnia dello spartano Calcideo: la velocità di navigazione si mantenne elevata.
13. In quella stessa epoca, stavano rimpatriando dalla Sicilia anche le sedici navi dei Peloponnesi che agli ordini di Gilippo avevano concorso all'impulso risolutivo di quel conflitto. Intercettate nel mare di Leucade e strapazzate dalla squadra di ventisette triremi attiche che, diretta da Ippocle figlio di Menippo, stava sul chi vive per cogliere al varco le unità nemiche sulla rotta di ritorno dalla Sicilia, tutte, tranne una, si rifugiarono nella rada di Corinto, seminando gli inseguitori ateniesi.
14. In mare Calcideo ed Alcibiade trattenevano tutte le unità sorprese durante il tragitto per impedire che fossero segnalati in navigazione con una squadra da guerra. Toccarono Corico come prima tappa del continente: e solo dopo aver preso terra laggiù ridiedero la libertà ai detenuti. La località fu anche teatro di un convegno con alcuni emissari del partito rivoluzionario di Chio, per stabilire un piano; e siccome costoro consigliavano di far vela direttamente su Chio, senza preavvisare nessuno, gli Spartani fecero di sorpresa il proprio ingresso in città. La folla cadde in un inquieto stupore: ma gli oligarchici avevano preparato egregiamente il terreno, sicché proprio in quel momento il consiglio si stava raccogliendo in seduta. Sedotta dall'annuncio sull'imminente approdo di una seconda numerosa squadra anticipato da Calcideo e da Alcibiade (che però tacquero sul particolare delle navi detenute nello Spireo), Chio, seguita da Eritre, si ribellò agli Ateniesi. Dopo quest'adesione Calcideo ed Alcibiade imbarcatisi con tre navi sollevarono anche Clazomene. Onde i Clazomeni, passati senza perder tempo sul continente, cominciavano a fortificare Policna, nella eventualità di dover sgomberare dall'isolotto ch'era la loro sede. Così tutti i dissidenti affrettavano i tempi per munirsi e attrezzarsi alla guerra.
15. Ad Atene l'allarme per Chio approda in un baleno. L'opinione pubblica è presto all'erta: una minaccia grave, sicuramente individuata, circonda la città, mentre senza dubbio gli altri centri della lega non vorranno starsene a lungo con le mani in mano, quando lo stato principale è in rivolta. Per quei mille talenti, cui gli Ateniesi erano così attaccati da impedirne l'impiego in tutto il tempo della guerra, abrogando di colpo le pene prescritte per chi avanzasse la proposta di prelievo o la mettesse ai voti, si decretò, in quel clima di diffusa agitazione, di spenderne una parte e di allestire con la somma non poche navi. Si decise inoltre la spedizione nel mare di Chio, staccandole dalla squadra che sosteneva il blocco al porto Spireo, delle otto navi che gettatesi sulla scia di Calcideo e delle sue unità erano rientrate senza riuscire ad intercettare il nemico (le comandava Strombichide figlio di Diotimo); altre dodici, abbandonando anch'esse il blocco, avrebbero dovuto accorrere sotto gli ordini di Trasicle per dare man forte alle prime. I sette vascelli di Chio, che collaboravano con gli Ateniesi all'assedio del porto Spireo, furono ritirati: il personale di bordo di condizione servile fu affrancato, l'equipaggio libero gettato in catene. Si armarono rapidamente altre dieci navi che sottentrarono a tutte quelle tolte dal blocco stretto intorno ai Peloponnesi. L'armamento di una seconda squadra di trenta unità era in progetto. L'entusiasmo era vivo e nessuno sforzo fu risparmiato per stroncare la ribellione di Chio.
16. Strombichide intanto con le sue otto navi approdò a Samo e incorporata nella squadra una nave samia passò a Teo, intimando agli isolani di star calmi. Salpato da Chio, era in rotta per Teo anche Calcideo con ventitre navi e, simultaneamente, si presentarono anche le fanterie di Clazomene e di Eritre. Strombichide, preavvisato, prese il mare e, guadagnato il largo, avvistando numerose le navi in arrivo da Chio, puntò fuggendo sull'isola di Samo: le unità nemiche lo inseguirono. In un primo tempo i Tei non ammisero l'esercito sopraggiunto all'interno della cinta, ma appena gli Ateniesi fuggirono le porte vennero schiuse. Le fanterie in attesa che Calcideo rientrasse dalla caccia non assunsero iniziative. Ma costui ritardava e quelli, per proprio conto, cominciarono a demolire il baluardo che gli Ateniesi avevano eretto a protezione della città di Teo, dal lato del continente. Nell'opera di distruzione ricevettero l'aiuto di un minuscolo contingente di barbari accorso agli ordini di Stage, ufficiale di Tissaferne.
17. Calcideo ed Alcibiade, dopo aver dato la caccia a Strombichide fino alle acque di Samo, dotando di armature pesanti gli equipaggi della squadra navale sopraggiunta dal Peloponneso, li dislocarono a Chio e dopo averli rimpiazzati a bordo con milizie della marina locale, aggiunte venti nuove unità, fecero vela su Mileto con il proposito di staccarla da Atene. Alcibiade, che intratteneva relazioni cordiali con i notabili della città, desiderava anticipare la flotta spedita dal Peloponneso ed attirarsi Mileto prima del suo arrivo per riservare a Chio, a se stesso, a Calcideo e ad Endio, da cui aveva ricevuto l'incarico, quell'onore che aveva promesso partendo: di sollevare cioè, sostenuto dalla potenza di Chio e in compagnia di Calcideo, il più alto numero di stati. Per la maggior parte della traversata passarono inosservati e, precorrendo di un soffio Strombichide e Trasicle, che era da poco salpato da Atene con dodici navi e collaborava all'inseguimento, fecero ribellare Mileto. Gli Ateniesi, che li tallonavano con una squadra di diciotto navi, poiché Mileto si rifiutava d'introdurli si misero alla fonda nell'adiacente isoletta di Lade. Subito dopo la ribellione di Mileto si stipulò la prima alleanza tra il re e Sparta, con Tissaferne e Calcideo intermediari, in questi termini:
18. "Spartani e alleati hanno concluso con il re e Tissaferne un trattato d'alleanza articolato su questi punti. Tutte le regioni e le città possedute dal re per successione ereditaria, restino possesso del re. Quanto ai tributi in denari o in diversa natura che gli Ateniesi esigevano dalle suddette città, il re e Sparta con i suoi alleati, di comune accordo stroncheranno questo afflusso di tributi finanziari o d'altra specie. Il re e Sparta con i suoi alleati creeranno una coalizione offensiva contro Atene. Non sarà ammesso lo scioglimento separato del conflitto, privo di una ratifica bilaterale da parte del re e di Sparta con i suoi alleati. Quanti si staccheranno dal re si esporranno alla reazione armata di Sparta e dei suoi alleati. Analogamente, chi tenterà la defezione da Sparta e dai suoi alleati, si esporrà alla reazione armata del re.
19. L'alleanza fu stesa su questi articoli del patto. Subito dopo questa intesa i Chii, messe in assetto altre dieci navi, puntarono su Anea intenzionati ad apprendere il vero sui Fatti di Mileto e, nello stesso tempo, a sollevare le altre città del paese. Ma, ricevuto da Calcideo l'avviso di invertire rapidamente la rotta e il messaggio che Amorge sarebbe comparso con un'armata per la via di terra da un momento all'altro, misero le prue sul santuario di Zeus. E avvistarono le dodici navi con cui arrivava Diomedonte, salpato da Atene poco dopo che ne era uscito Trasicle. Appena scorsero la squadra nemica fuggirono con una nave a Efeso, con il resto della squadra a Teo. Gli Ateniesi catturarono quattro unità, prive dell'equipaggio che aveva fatto in tempo a saltare a terra. Le navi restanti ripararono nella città di Teo. Gli Ateniesi allora si ritirarono a Samo, mentre i Chii, prendendo il largo con il resto delle navi, appoggiati dalle truppe di fanteria, provocarono la ribellione a Lebedo e, subito di seguito, a Ere. Dopo questi eventi, ciascuno rientrò alle proprie basi, armati di terra e gente del mare.
20. Verso la stessa epoca la squadra di venti navi peloponnesie rinchiuse nello Spireo, che a suo tempo era stata inseguita e bloccata da un pari numero di unità ateniesi, tentando una sortita all'improvviso e travolgendo in battaglia le navi avversarie, catturò quattro navi Ateniesi e, ritiratasi a Cencrea, si preparò a riprendere la rotta verso Chio e la Ionia. Da Sparta sopraggiunse come navarco Astioco, che deteneva ormai l'alto comando della marina. Quando l'armata terrestre abbandonò la posizione di Teo, Tissaferne in persona si presentò con reparti propri e, spianata l'ala di muro che resisteva ancora in piedi, si ritirò. Costui se ne era andato da poco quando comparve a Teo con dieci vascelli ateniesi Diomedonte, che trattò con i cittadini un accordo secondo cui si rilasciava anche agli Ateniesi il permesso d'entrata. Costeggiò poi verso Ere, sferrò un attacco, ma, fallita la conquista della città, si mise in rotta per il ritorno.
21. Esplose verso questo periodo anche l'insurrezione di Samo, organizzata dal partito democratico contro il governo dell'aristocrazia, con l'appoggio degli Ateniesi che stazionavano ancora in quelle acque forti di tre navi. A Samo il partito popolare mise a morte in complesso circa duecento delle personalità più autorevoli in campo avverso; ne colpi quattrocento con l'esilio, confiscando i loro poderi e le case. Gli Ateniesi decretarono di restituire agli isolani di Samo l'assoluta indipendenza Politica, stimando sicura, dopo questo atto, la loro fedeltà: ed essi, da quel giorno, amministrarono autonomamente lo stato. Non si accordarono i diritti ai geomori: e fu perfino vietato per legge che un popolare concedesse a un ricco la mano di sua figlia, o scegliesse in moglie una d'alto lignaggio.
22. Dopo questi avvenimenti, nel corso di quella stessa estate, i Chii, anziché allentare il proprio entusiasmo che, era ancora quello dei primi momenti, insistevano anche senza l'appoggio dell'esercito peloponnesio a comparire con un potente nerbo d'armati nelle diverse città per farle defezionare. Il proposito era di aggregarsi il maggior numero di seguaci all'impresa rischiosa in cui si erano imbarcati. Per propria iniziativa avanzarono con tredici navi su Lesbo accordando la propria azione al disegno strategico spartano che indicava quale secondo bersaglio l'offensiva contro quell'isola, per poi passare nelle acque dell'Ellesponto. Durante la medesima fase l'armata terrestre dei Peloponnesi ch'erano presenti con a fianco gli alleati di quella zona si dirigeva, seguendo la costa a Clazomene e a Cuma, sotto la direzione dello spartiata Evala. Al comando della flotta agiva il perieco Diniade. E la squadra dopo il primo sbarco fece subito ribellare Metimna, dove vennero distaccate quattro unità di presidi. In seguito le restanti provocarono la rivolta in Mitilene.
23. Astioco, navarco spartano, sopraggiungendo dalla base di Cencrea con quattro navi approdò a Chio com'era nei suoi intenti. Correva il terzo giorno dal suo arrivo quando le venticinque navi attiche, dirette da Leonte e da Diomedonte si misero sulla rotta di Lesbo. Leonte, infatti, salpato poco più tardi proveniva da Atene con forze di soccorso. Anche Astioco sciolse le vele, quel giorno stesso, all'imbrunire: e annessa alla squadra una sola nave di Chio dirigeva su Lesbo per recare tutto l'aiuto possibile. Toccò Pirra e di là giunse nel giorno seguente ad Ereso, dove fu informato che Mitilene era caduta in mano ateniese al primo slancio. Gli Ateniesi infatti, sorgendo improvvisi dal mare, avevano arrestato la corsa nel porto di Mitilene senza nemmeno variare la formazione di marcia: la squadra di unità chie fu travolta e gli Ateniesi, sbarcati, superarono in battaglia le truppe accorse a contrastarli, conquistando la città. Astioco aveva appreso questa notizia dalla gente di Ereso e dalla squadra navale di Chio che, sotto Eubolo, era salpata da Metimna: queste navi allora erano state lasciate laggiù, ma sorprese dalla caduta di Metilene s'erano date alla fuga imbattendosi appunto in lui ridotte a tre unità (gli Ateniesi ne avevano intercettata una). Astioco sospese il tragitto a Metilene; provocò il distacco di Ereso fornendo armi pesanti ai cittadini spedì lungo la costa, per la strada di terra, gli opliti che teneva a bordo delle sue navi fino ad Antissa e Metimna dopo avere assegnato il comando della colonna ad Eteonico. Quanto a lui, costeggiò con le proprie navi, rinforzate dalle tre di Chio, confidando che la vista della sua squadra in navigazione avrebbe ridato cuore agli abitanti di Metimna, inducendoli a tener duro nella rivolta. Ma, vedendo che davanti a ogni punto del suo programma a Lesbo si ergevano ostacoli invalicabili, imbarcò di nuovo le sue fanterie e retrocesse a Chio. Anche le truppe della fanteria alleata che avrebbero poi dovuto operare nell'Ellesponto furono ritirate dalle varie città. Dopo questi movimenti, si congiunsero alle forze concentrate in Chio sei navi, unità in forza alla squadra di alleati peloponnesi di stanza alla base di Cencrea. Gli Ateniesi ridussero all'ordine lo stato politico dell'isola di Lesbo nei loro interessi: e, staccandosi dalla sua riva, strapparono ai cittadini di Clazomene la fortezza continentale di Policna, in via di allestimento; poi trasferirono di nuovo i Clazomeni nella loro città sull'isola, tranne i promotori della ribellione, che avevano trovato ricovero a Dafnunte. Clazomene tornò ad accostarsi ad Atene.
24. Nella stessa estate gli Ateniesi che con la squadra di venti navi ormeggiate nella base di Lade vigilavano su Mileto, con uno sbarco a Panormo Milesia uccisero Calcideo, il comandante spartano accorso con deboli forze a far resistenza e nel terzo giorno, dopo aver riattraversato il braccio di mare, piantarono un trofeo che i Milesi però tolsero subito in quanto eretto senza aver stabilito un effettivo dominio sul territorio. Leonte e Diomedonte, che guidavano la squadra ateniese di Lesbo, lanciandosi dalle Enusse, gruppo d'isole nelle acque di Chio, e da Sidussa e Pteleo, ambedue piazzeforti occupate dagli Ateniesi nel territorio di Eritre, intensificavano ai danni di Chio l'attività bellica navale: essi disponevano, come combattenti di bordo, di effettivi tratti dalle liste oplitiche e passati obbligatoriamente a questo servizio. Con uno sbarco a Cardamile e a Bolisco disfecero in battaglia le milizie di Chio accorse alla difesa e infliggendo perdite pesanti sconvolsero quella parte del paese. Riportarono in seguito una seconda vittoria a Fane e una terza a Leuconio. Dopo queste prove di forza i Chii rinunciarono definitivamente ad uscire in armi contro gli Ateniesi, mentre costoro devastavano quelle campagne lavorate con tanta cura e praticamente intatte dall'epoca dell'invasione persiana fino a quei giorni. Nella sola Chio, infatti, oltre a Sparta, per quanto ne so io, benessere ed equilibrio politico progredirono congiunti e nella misura in cui la città s'elevava in pacifica potenza, in pari grado fioriva sempre più solida la bella armonia tra le classi. Neppure a quest'atto di rivolta si accinsero gli isolani - se qualcuno lo giudica un volontario attentato alla sicurezza di cui godevano - se non quando poterono contare, per condividere il pericolo, su molte e valorose schiere di alleati, e solo dopo aver appreso come gli Ateniesi stessi ormai non smentissero che il disastro patito in Sicilia aveva coinvolto in una rovina irrimediabile le basi della propria potenza. Rimasero invischiati, certo, essi pure nell'imponderabile che aleggia sulla vita umana: ma spartirono con molti, anch'essi persuasi dell'identica realtà illusoria, il diffuso errore che prevedeva per Atene un rapido e profondo declino. Vedendosi esclusi dal mare, davanti alla desolazione del proprio paese, un partito tentò di consegnare la città in mano agli Ateniesi. Quando appresero la trama, le autorità personalmente non si esposero con provvedimenti repressivi; ricorsero invece al navarca Astioco, richiamandolo da Eritre con le quattro navi che aveva a disposizione, e vagliarono i vari rimedi per soffocare il complotto senza destare eccessivo chiasso: con l'arresto di ostaggi o con altri decreti. Queste erano le operazioni a Chio.
25. S'era al tramonto di quella medesima estate, quando mille opliti messi in campo da Atene, millecinquecento provenienti da Argo (a spese proprie gli Ateniesi fornirono ai cinquecento fanti leggeri argivi l'attrezzatura oplitica) e mille alleati, imbarcati su quarantotto navi, tra cui alcune unità addette al trasporto delle truppe, salpando da Atene toccarono Samo al comando degli strateghi Frinico, Onomacle, Scironide; poi, essendo passati a Mileto, fissarono il campo in questa località. I Milesi organizzarono una sortita contro di loro, con ottocento opliti cittadini, con i Peloponnesi sopraggiunti sotto Calcideo, con un nucleo di mercenari stranieri di Tissaferne e con Tissaferne stesso, che era presente con la propria cavalleria. Gli Ateniesi e gli alleati subirono un attacco. Gli Argivi, scattando fuori dal settore del fronte in cui erano schierati e convinti, con baldanza gonfia di disprezzo, che gli avversari, essendo Ioni, non avrebbero retto al proprio urto, avanzarono non inquadrati: furono travolti dai Milesi e lasciarono sul terreno poco meno di trecento morti. Sull'altro lato invece, gli Ateniesi prima ruppero la resistenza dei Peloponnesi, poi passarono ai barbari e all'altra gente, piegandoli; con i Milesi però non arrivarono a battersi, dal momento che costoro, ritraendosi dopo aver disperso gli Argivi e vedendo che il resto del fronte cedeva, arretrarono verso la cinta. Gli Ateniesi, spezzato il contrasto nemico, accerchiarono la città con il campo. In questa battaglia la fortuna aveva disposto che su entrambi gli schieramenti gli Ioni dominassero sui Dori. Infatti gli Ateniesi avevano battuto i loro diretti avversari Peloponnesi, mentre le truppe di Mileto umiliavano gli Argivi. Eretto un trofeo, gli Ateniesi tirarono fuori l'attrezzatura per la costruzione di un muro avvolgente, poiché la località si presentava come un istmo. Si pensava che costringendo al rispetto Mitilene anche le altre città avrebbero chinato il capo.
26. A sera inoltrata, tuttavia, gli Ateniesi furono colti dalla notizia che dal Peloponneso e dalla Sicilia era già in navigazione una squadra di cinquantacinque navi che avrebbe impiegato poco a comparire. Dalle genti di Sicilia infatti, soprattutto per i caldi, ripetuti moniti di Ermocrate affinché si collaborasse ad affrettare l'ultimo tracollo di Atene, erano state spedite venti navi siracusane e due selinuntine: dal Peloponneso s'erano aggiunte quelle che, completato l'armamento, erano in attesa di prendere il largo. Le due squadre, consegnate allo spartano Terimene con l'istruzione di condurle al navarco Astioco, fecero prima scalo a Lero, un'isola che sorge di fronte a Mileto. Qui appresero che gli Ateniesi cingevano già Mileto, sicché prima vollero penetrare nel golfo Iasio per prendere i loro rilevamenti sulla situazione strategica della città. A Teichiussa nella Milesia, la località del golfo Iasio in cui le squadre avevano gettato l'ancora per il bivacco, comparve Alcibiade a cavallo che riferì notizie sulla battaglia (Alcibiade vi aveva preso parte battendosi a fianco dei Milesi e di Tissaferne) e li esortava, se non volevano compromettere la campagna di Ionia e l'intera guerra, a farsi vivi con la massima celerità a Mileto per coprirla e impedire l'opera di sbarramento ateniese.
27. I Peloponnesi allora stabilirono di attendere l'aurora ed accorrere. Ma lo stratego ateniese Frinico, ricevute da Lero informazioni sicure sulla flotta avversaria contrastò il piano dei suoi colleghi di comando che prevedeva l'attesa del nemico in quelle acque per una battaglia risolutiva, dichiarando che si opponeva a questa tattica e che si sarebbe messo con tutto l'impegno per impedirne l'attuazione a loro come a chiunque altro. Infatti, mentre temporeggiando avrebbero potuto provocare il duello con notizie esatte sulla forza numerica delle squadre nemiche, nonché delle proprie, e dopo avere eseguito con metodo gli opportuni preparativi egli non si sarebbe mai avventurato in un assurdo rischio cedendo a un mal inteso sentimento d'onore. Non era certo una viltà per gli Ateniesi una ritirata strategica della marina, quando le circostanze lo richiedessero: piuttosto una disfatta, di qualunque natura e gravità, avrebbe gettato fango sull'onore ateniese. E per la città al bruciore della vergogna si sarebbe aggiunta la minaccia più grave: era già tanto se Atene, dopo i ripetuti disastri, poteva permettersi a stento, contro voglia o addirittura sotto la spinta di una necessità inevitabile, di raccogliere le forze per iniziare un'impresa con qualche garanzia di preparazione solida: ma aspirare a imprese pericolose senza esservi costretta, era davvero troppo! Quindi comandava che si imbarcassero i feriti, l'esercito e tutti gli arnesi che avevano recato con sé, abbandonando la preda che avevano conquistato con le scorrerie in terra nemica, per mantenere più agili le navi. Occorreva salpare per Samo e da quella base, concentrando le squadre, attendere il momento propizio per scagliare gli attacchi. Gli altri strateghi annuirono, e così fece: e anche più tardi, in circostanze diverse da questa, in tutti gli impegni che dovette affrontare, Frinico si guadagnò il prestigio di ingegno sottile. Gli Ateniesi, senza indugio, alle prime ombre si staccarono da Mileto lasciando incompiuta la propria vittoria. Gli Argivi incolleriti per quel loro infortunio sul campo, si allontanarono di furia e da Samo rientrarono in patria.
28. I Peloponnesi, alle prime luci si staccarono da Tichiussa e a loro volta approdarono nel porto di Mileto; vi si trattennero alle ancore per un giorno e dopo aver associato al proprio organico la squadra di Chio che era stata prima, insieme a Calcideo, vittima di un inseguimento, decisero di fare una capatina indietro a Tichiussa per raccogliere l'attrezzatura navale che vi avevano scaricato. Appena toccarono terra, Tissaferne presentandosi con l'esercito li indusse a marciare su Iaso, dove s'era piantato da padrone il suo nemico Amorge. Piombarono su Iaso di sorpresa e, mentre gli abitanti pensavano a una visita di navi attiche, quelli conquistarono la piazza. Nell'azione brillò l'entusiasmo dei Siracusani. Amorge, figlio illegittimo di Pissutne, ribelle al Re, fu catturato vivo e consegnato dai Peloponnesi a Tissaferne affinché, se lo desiderava, trascinasse il colpevole a palazzo, come imponeva il comando reale. Le truppe misero a sacco Iaso e l'esercito ne ricavò un bottino ingente: da lunghi anni, infatti, il benessere regnava su quella contrada. I Peloponnesi incolonnarono nelle proprie schiere i reparti che agivano con Amorge assimilandoli senza reazioni ostili, poiché la massa di quell'esercito si componeva di loro compatrioti. Inoltre i Peloponnesi lasciarono la piazzaforte nelle mani di Tissaferne con tutti i detenuti di guerra, liberi o servi, per i quali pattuirono con lui il prezzo di uno statere darico a testa. Poi fecero subito ritorno a Mileto. Pedarito, figlio di Leonte, inviato da Sparta come comandante di Chio, fu mandato dai Peloponnesi per via di terra fino ad Eritre, con le truppe ausiliarie già di Amorge: a capo di Mileto fu posto Filippo con decisione presa sul luogo. L'estate finiva.
29. Nell'inverno seguente Tissaferne, dopo avere allestito a Iaso una cintura di protezione, comparve a Mileto e, come aveva stabilito con una promessa fatta a Sparta, pagò agli equipaggi dell'intera flotta lo stipendio mensile nella misura di una dracma attica giornaliera per ogni combattente, ma per il resto del tempo desiderava limitare il versamento a tre oboli, in attesa di domandare chiare istruzioni al re: a un suo comando assicurava che avrebbe distribuito la dracma intera. Ermocrate, stratego dei Siracusani, sporse reclamo (poiché Terimene, che non era navarco e si trovava imbarcato unicamente per consegnare ad Astioco la squadra non si dava eccessiva pena dello stipendio per gli uomini) e si raggiunse l'accordo di elevare i tre oboli a testa aumentando il soldo globale di una somma corrispondente allo stipendio di cinque navi. Tissaferne versava infatti trenta talenti mensili per cinquantacinque navi. Anche agli altri equipaggi fuori di questo numero era corrisposta una paga nella medesima proporzione.
30. Sempre durante quell'inverno, agli Ateniesi di Samo era sopraggiunto dalla città un rinforzo di altre trentacinque navi, dirette dagli strateghi Carmino, Strombichide ed Euctemone. Quindi, raccolte tutte le navi, quelle di Chio e le altre, si decise di sorteggiare a chi toccasse il compito di bloccare Mileto con la flotta e a chi di puntare su Chio con l'armata terrestre e l'altra marina. E così fecero: Strombichide, Onomacle ed Euctemone furono scelti dalla sorte per dirigere su Chio con trenta navi e una parte dei mille opliti assegnati per le operazioni di Mileto e fatti salire su navi per il trasporto delle truppe; gli altri, trattenendosi a Samo con settantaquattro navi, spadroneggiavano sul mare e scagliavano attacchi navali contro Mileto.
31. Astioco, che intanto già da tempo s'occupava di redigere a Chio la lista degli ostaggi per prevenire un eventuale tradimento, troncò quest'operazione quando apprese che erano in arrivo le navi comandate da Terimene e che per gli alleati le cose volgevano al meglio. Prese con sé le dieci navi del Peloponneso e le dieci navi di Chio e salpò: essendogli fallito un tentativo d'assalto a Pteleo, veleggiò di costa fino a Clazomene, dove intimò che i simpatizzanti di Atene si trasferissero verso l'interno, a Dafnunte, e dichiarassero la propria adesione al Peloponneso. Anche Tamo, luogotenente della Ionia, si associava ad Astioco in questo comando. Di fronte all'opposizione degli abitanti sferrò un assalto alla città, ma, risultandogli impossibile la conquista, Astioco riparò, sospinto da un impetuoso fortunale, a Focea e a Cuma; le altre navi attraccarono ai moli delle isole adiacenti a Clazomene, cioè Maratussa Pele e Drimussa. Costretti dai venti a fermarsi otto giorni, rapinarono e distrussero in parte tutte le riserve che la gente di Clazomene aveva accumulato in quelle isole in parte le caricarono a bordo e si misero sulla rotta di Focea e di Cuma, alla volta di Astioco.
32. Mentre Astioco soggiornava ancora in queste località gli si presentarono ambasciatori di Lesbo con la dichiarazione di essere pronti, per la seconda volta, a sollevarsi. Egli aderì al progetto, ma di fronte alla scarsa energia dei Corinzi e degli altri alleati, memori della prova fallita, salpò e si diresse a Chio. Sennonché le navi, sparpagliate da una bufera, approdarono a Chio con ritardi notevoli, chi da una direzione chi da un'altra. Dopo questo fatto Pedarito, che seguendo la costa marciava per la via di terra da Mileto, giunto ad Eritre passò personalmente, alla testa delle sue truppe, sul suolo di Chio. Poteva disporre anche dei combattenti, completi d'armatura, che in numero di circa cinquecento Calcideo aveva sbarcati dalle sue navi lasciandoli laggiù. Poiché un comitato di Lesbi proclamava che la propria terra si sarebbe di lì a poco sollevata, Astioco si fece interprete presso Pedarito e i Chii dell'urgenza di accorrere con la marina a sostenere lo sforzo imminente di Lesbo per staccarsi da Atene. Ma essi non vollero ascoltarlo, e Pedarito aggiunse che non gli avrebbe lasciato usare la squadra navale di Chio.
33. Quindi Astioco con le cinque unità corinzie, una sesta di Megara, una di Ermione e le navi spartane che aveva condotte con sé partendo, veleggiò verso Mileto per prendere possesso, come comandante, della flotta là dislocata tempestando i Chii di proteste, finché tagliò corto minacciando che non s'arrischiassero a chiamarlo in caso di bisogno. Sceso a Corico, una località di Eritre, vi fece bivaccare gli uomini. Anche gli Ateniesi che, salpati con l'esercito, da Samo dirigevano su Chio presero terra a Corico, ma ancoratisi ai piedi dell'opposto versante di un'altura restarono divisi dagli altri i quali, non visti, ignorarono a loro volta i nuovi venuti. All'imbrunire arrivò un dispaccio di Pedarito: uomini di Eritre, detenuti a Samo, erano comparsi nella loro città lasciati liberi dai Sami con l'espresso scopo di organizzarvi la rivolta. Allora Astioco non perse tempo: tornò di volo ad Eritre, sfuggendo di tanto poco al rischio di piombare in braccio agli Ateniesi. Anche Pedarito, traversando, s'era ricongiunto alle forze di Astioco e aperta un'inchiesta sui sospetti autori del complotto, si trovò ch'era tutto un imbroglio gonfiato dagli indiziati per liberarsi con quel pretesto dal carcere di Samo. Quindi, lasciate cadere le imputazioni, ripartirono: Pedarito si ritirò a Chio, Astioco passò a Mileto, come prescriveva il piano.
34. L'armata ateniese frattanto, sciolte le proprie vele da Corico, stava doppiando il capo, quando, circa all'altezza di Argino, urtò in una flottiglia di tre unità da guerra di Chio e, appena avvistatele, si gettò all'inseguimento. Ma, levandosi una violenta tempesta le navi chie, tra gravi difficoltà, si rifugiarono nel porto; tra quelle ateniesi, invece, le tre che si erano accostate troppo furono messe fuori uso e si incagliarono presso la città di Chio. Degli equipaggi, chi fu preso, chi cadde; le altre trovarono riparo nel porto chiamato Fenicunte ai piedi della montagna Mimante. Ne ripartirono e gettando le ancore a Lesbo preparavano l'occorrente per il lavoro di fortificazione.
35. Nello stesso inverno lo spartano Ippocrate, salpando dal Peloponneso con dieci navi turbe, al cui comando si trovava Dorieo figlio di Diagora con altri due colleghi, e con una nave di Sparta, oltre a una siracusana, approdò a Cnido: centro che per opera di Tissaferne s'era già sollevato. Appena i capi risiedenti a Mileto furono informati dell'arrivo, ordinarono loro di appostarsi con metà della squadra a tener d'occhio Cnido; l'altra operasse nel settore del Triopio, per intercettare i mercantili provenienti dall'Egitto che vi andavano ad approdare: il Triopio è un promontorio della regione di Cnido, dove sorge un santuario di Apollo. Appresa questa manovra, gli Ateniesi in navigazione da Samo catturano le sei navi di fazione al Triopio; gli equipaggi si danno alla fuga. Riuscito il colpo, veleggiarono alla volta di Cnido e con un assalto alla città, che era sprovvista di cinta, per poco non la conquistarono. Il mattino dopo rinnovarono l'attacco, ma i Cnidi avevano rafforzato gli spalti durante la notte ed essendo penetrati in città i membri delle ciurme fuggiaschi dopo l'incidente del Triopio per aggregare le proprie forze, l'urto ateniese non provocò più gli stessi danni. Quindi gli Ateniesi desistettero e, dopo aver devastato il paese dei Cnidi, fecero ritorno veleggiando a Samo.
36. Nella stessa epoca, quando Astioco si presentò a Mileto per ricoprire il suo posto di comando nella marina, al campo dei Peloponnesi regnava ancora l'abbondanza di ogni genere di riserve utili alle truppe. Il soldo era sufficiente; le milizie potevano inoltre contare sui tesori rapinati a Iaso; i Milesi collaboravano con slancio ai sacrifici della guerra. Tuttavia pareva ai Peloponnesi che il primo trattato d'intesa stipulato con Tissaferne per i buoni uffici di Calcideo presentasse delle lacune e fosse poco vantaggioso nei loro confronti: sicché, mentre durava il soggiorno di Terimene a Mileto strinsero un'intesa in nuovi termini. Eccoli:
37. "Convenzione degli Spartani e dei loro alleati con il re Dario, con i figli di Dario e con Tissaferne. Si negoziano una pace e un'accordo di amicizia ai patti seguenti. Quante contrade e città sono possesso del re Dario o del padre suo e degli antenati, contro di esse non muoveranno guerra, né faranno atti d'ostilità, gli Spartani o gli alleati di Sparta. Proibito per Sparta e per i suoi alleati esigere tributi dalle suddette località. Analogamente il re e la gente dei suoi domini si asterrà dal portare la guerra o dall'infliggere danni agli Spartani e agli alleati di Sparta. Se gli Spartani o i loro alleati saranno nella necessità di ricorrere all'assistenza del re o, viceversa, il re all'aiuto di Sparta o degli alleati, le potenze raggiungano un punto d'accordo e vi si attengano stimandolo legittimo. Le parti condurranno in comune la guerra contro Atene e contro i suoi alleati. Cesseranno insieme le ostilità quando eventualmente si decida la pace. Tutte le milizie che il re chiamerà ad operare sul proprio territorio saranno mantenute a spese del re. Se una qualunque città tra quelle che hanno sottoscritto la convenzione con il re attaccherà i domini del re, gli altri la respingano e difendano il.re con tutte le proprie forze. Se qualche città del territorio del re, o sottomessa al suo dominio, alzerà le armi contro gli Spartani o gli alleati, il re lo impedisca, e accorra alla difesa con ogni forza."
38. Sancito questo trattato, Terimene consegnò il comando della flotta ad Astioso, ma imbarcatosi su una scialuppa agile, si perse in mare. Gli Ateniesi che stazionavano a Lesbo avevano intanto compiuto il passaggio a Chio con le truppe e dominando per terra e per mare attrezzavano Delfinio, località adatta per diversi motivi, ma soprattutto per esser forte dal lato di terra, provvista di baie accoglienti dal mare e non molto lontana dalla città di Chio. L'inerzia prevaleva tra i Chii, già da tempo disfatti in ripetuti scontri, ancora vanamente alla ricerca di un'armonia interna, compromessa anche più gravemente dal reciproco sospetto, ora che Pedarito aveva mandato al supplizio, colpevoli di simpatie attiche, gli aderenti al circolo di Tideo figlio di Ione, mentre il resto della cittadinanza s'era dovuta adattare per forza a far buon viso agli oligarcici. E in questa atmosfera di diffidenza né le proprie truppe, né quelle ausiliarie di Pedarito sembravano adatte a reggere il peso di una battaglia. Tuttavia i Chii pensarono di ricorrere a Mileto con un appello di soccorso rivolto ad Astioco: costui rifiutò. Allora Pedarito spedì a Sparta una relazione al suo carico con le proprie rimostranze. A questo punto era lo stato delle operazioni a Chio per le forze ateniesi; la squadra ateniese di Samo si lanciava in scorrerie contro la nemica Mileto; ma, poiché le navi avversarie non prendevano il mare per opporsi, ritraendosi di nuovo a Samo sospese ogni attacco.
39. In quel medesimo inverno le ventisette unità armate dagli Spartani per Farnabazo in seguito ai negoziati con Calligito di Megara e Timagora di Cizico, presero il largo dal Peloponneso e puntarono sulla Ionia, verso il solstizio invernale, dirette dallo Spartiate Antistene che vi si trovava imbarcato. Gli Spartani associarono alla spedizione anche undici concittadini per assistere Astioco in qualità di consulenti: tra questi era Lica, figlio di Arcesilao. Costoro avevano istruzione, appena sbarcati a Mileto, di scegliere per comune accordo la linea operativa che garantisse, in avvenire, i migliori risultati e di decidere se fosse il caso d'inviare nell'Ellesponto o presso Farnabazo la propria flotta, tal quale o rinforzata o minore di qualche unità, dopo averne assegnato il comando a Clearco, figlio di Ranfia che si trovava a bordo. Inoltre, il collegio degli undici doveva deporre dall'alto comando Astioco, se lo riteneva conveniente, ed insediarvi Antistene: si nutrivano sospetti sul suo conto, dopo la denuncia di Pedarito. Orbene la flotta, salpando da capo Malea puntò al mare aperto e giunse a Melo, e imbattutasi in dieci navi ateniesi ne catturò tre prive d'equipaggio e le diede alle fiamme. Subito dopo temendo che le navi ateniesi superstiti dell'agguato a Melo corressero a segnalare, come in effetti avvenne, il loro arrivo alla flotta di stanza a Samo, i Peloponnesi veleggiarono alla volta di Creta e, allungando la rotta per ragioni di sicurezza, approdarono a Cauno, sulla costa asiatica. Da lì poi, certi di esser fuori da acque pericolose, inviarono alla squadra ancorata a Mileto un messaggio perché muovesse incontro e, costeggiando, facesse loro da scorta.
40. I cittadini di Chio, spalleggiati da Pedarito, non avevano desistito per tutto questo tempo dall'inviare corrieri a sollecitare Astioco, benché costui ogni volta interponesse indugi, per indurlo ad accorrere con tutte le sue forze navali in difesa di loro assediati, anziché lasciar correre sul fatto che la più importante delle città alleate di Ionia si vedeva esclusa dal mare e distrutta nelle sue stesse campagne. Gli abitanti di Chio possedevano molti servi, anzi il numero più alto per una città sola, se togliamo Sparta: e ogni loro mancanza, proprio perché erano così numerosi veniva punita con estrema durezza. Ora, appena parve che l'armata ateniese, munendosi, desse solide garanzie di sicurezza, di colpo una moltitudine cospicua di servi disertò dalla parte degli Ateniesi e consentì d'infliggere le perdite più gravi per la pratica che possedeva di quei luoghi. I Chii, dunque, protestavano che bisognava difenderli, mentre era viva un'ultima speranza e si poteva ancora contrastare validamente il nemico: finché i lavori alla fortezza erano in corso, e non erano per il momento sorti i tratti conclusivi di una seconda, più ampia linea fortificata che avrebbe dovuto comprendere il campo ateniese e le navi all'ancora. Astioco rimaneva di
