Verum praecipuam et exitiabilem sibi inuidiam hinc maxime mouit. adeuntis se cum plurimis honorificentissimisque decretis uniuersos patres conscriptos sedens pro aede Veneris Genetricis excepit. quidam putant retentum a Cornelio Balbo, cum conaretur assurgere; alii, ne conatum quidem omnino, sed etiam admonentem Gaium Trebatium ut assurgeret minus familiari uultu respexisse. idque factum eius tanto intolerabilius est uisum, quod ipse triumphanti et subsellia tribunicia praeteruehenti sibi unum e collegio Pontium Aquilam non assurrexisse adeo indignatus sit, ut proclamauerit: 'repete ergo a me Aquila rem publicam tribunus!' et nec destiterit per continuos dies quicquam cuiquam nisi sub exceptione polliceri: 'si tamen per Pontium Aquilam licuerit.'
Adiecit ad tam insignem despecti senatus contumeliam multo arrogantius factum. nam cum in sacrificio Latinarum reuertente eo inter inmodicas ac nouas populi acclamationes quidam e turba statuae eius coronam lauream candida fascia praeligata inposuisset et tribuni plebis Epidius Marullus Caesetiusque Flauus coronae fasciam detrahi hominemque duci in uincula iussissent, dolens seu parum prospere motam regni mentionem siue, ut ferebat, ereptam sibi gloriam recusandi, tribunos grauiter increpitos potestate priuauit. neque ex eo infamiam affectati etiam regii nominis discutere ualuit, quanquam et plebei regem se salutanti Caesarem se, non regem esse responderit et Lupercalibus pro rostris a consule Antonio admotum saepius capiti suo diadema reppulerit atque in Capitolium Ioui Optimo Maximo miserit
Ma ciò che suscitò contro di lui un odio profondo e mortale fu soprattutto questo. Un giorno tutto il corpo del Senato venne a presentargli un complesso di decreti che gli conferivano i più alti onori: egli lo ricevette davanti al tempio di Venere Genitrice, senza nemmeno alzarsi. Alcuni dicono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi, altri invece che non tentò nemmeno, ma che al contrario guardò con aria severa Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi. Questo suo modo di comportarsi apparve assolutamente intollerabile e lui stesso, passando su un carro di trionfo davanti ai seggi dei tribuni e vedendo che, di tutto il collegio, solo Panzio Aquila se ne stava seduto, pieno di indignazione gridò: «Tribuno Aquila, richiedimi dunque la Repubblica.» Per più giorni, in seguito, quando faceva qualche promessa a qualcuno, non mancò di aggiungere: «Sempre se Aquila lo permette.»
A così grande disprezzo per il Senato, aggiunse una arroganza ben più grave. Infatti, mentre ritornava dalle feste latine tra acclamazioni eccessive ed insolite del popolo, uno della folla impose sulla sua statua una corona di lauro legata con un nastro bianco; allora i tribuni della plebe Epidio Marullo e Cesezio Flavo ordinarono di togliere il nastro alla corona e di mettere in prigione l'autore del gesto. Cesare, però, furente, sia perché l'allusione alla regalità aveva ottenuto così scarso successo, sia perché, come pretendeva, gli era stata tolta la gloria di rifiutare il regno, rimproverò severamente i tribuni e li destituì dalla carica. Da allora non riuscì più a far cadere il sospetto infamante di aver aspirato anche al titolo di re, sebbene un giorno al popolo che lo salutava con il nome di re, avesse risposto di essere Cesare e non re e durante i Lupercali, davanti ai rostri, avesse rifiutato la corona che il console Antonio, a più riprese, aveva avvicinato alla sua testa; la fece portare, invece, in Campidoglio, nel tempio di Giove Ottimo Massimo.