da eveline » 16 feb 2012, 14:09
da clari fontes
inizio: persaepe mihi admirandum videtur quid sit, quod omnes translatis et alienis magis delectentur verbis quam propriis et suis.
fine: cuius nos non in aliis rebus possimus uti vocabulo et nomine.
Molto spesso mi sembra che si debba ammirare il fatto che tutti sono rallegrati dalle traduzioni e da altre parole più che dalle proprie. Infatti se una cosa non ha il suo nome e un proprio vocabolo come "scotta" per la nave, "obbligazione" per quegli atti pubblici che si compiono per mezzo di una bilancia, "divorzio" per il ripudio della moglie, la necessità spinge, poichè non ce l'hai, a prendere da un'altra parte; ma tuttavia gli uomini nella massima abbondanza di proprie parole si dilettano molto di più con quelle straniere, se esse sono tradotte con la ragione. credo che questo rovini o perchè è prova dell'ingegno prevedere qualcosa che passa davanti ai piedi per prendere le cose stabilite dal passato ed oltre; o perchè colui che ascolta, è condotto altrove dal pensiero e tuttavia non si discosta, questo è il massimo diletto; o perchè con una sola parola si esprimono un concetto e la sua immagine; o perchè ogni traslazione che certamente è adoperata dalla ragione, è accostata agli stessi sensi, maggiormente la vista, che è il senso più acuto. infatti sia "l'odore" della civiltà, sia "la mollezza" dell'umanità, sia "il mormorio" del mare, sia la "dolcezza" dell'orazione sono condotte dai restanti sensi; davvero quello della vista è molto più acuto, che quasi pone al cospetto dell'animo, che non possiamo vedere e distinguere. non c'è niente nella natura di cui noi non possiamo in altri modi nè nominare nè registrare.