Ungaretti, vita, opere, poesie principali

Messaggioda Azanatos1992 » 6 mag 2012, 12:50

Ungaretti

Vita

Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egittol'8 febbraio 1888 da genitori lucchesi. Si poté iscrivere in una delle più prestigiose scuole di Alessandria, la Svizzera École Suisse Jacot. L'amore per la poesia nacque durante questo periodo scolastico. In questi anni, attraverso la rivista Mercure de France, il giovane si avvicinò alla letteratura francese e, grazie all'abbonamento a La Voce, alla letteratura italiana: inizia così a leggere le opere, tra gli altri, di Rimbaud, Mallarmé, Leopardi, Nietzsche, Baudelaire, quest'ultimo grazie all'amico Moammed Sceab. Si trasferì poi a Parigi per svolgere gli studi universitari.

A Parigi frequentò per due anni le lezioni del filosofo Bergson, del filologo Bédier e di Strowschi, alla Sorbonne e al Collège de France.Venuto a contatto con un ambiente artistico internazionale, conobbe Apollinaire, con il quale strinse una solida amicizia, e analoga amicizia strinse anche con Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Aldo Palazzeschi, Picasso, De Chirico, Modigliani e Braque. Invitati da Papini, Soffici e Palazzeschi iniziarono la loro collaborazione alla rivista Lacerba. Dopo qualche pubblicazione su Lacerba, decise di partire volontario per la Grande Guerra. Quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, Ungaretti partecipò alla campagna interventista, per poi arruolarsi volontario nel 19º reggimento di fanteria. Quando il 24 maggio 1915 l'Italia entrò in guerra combatté sul Carso e in seguito a questa esperienza scrisse le poesie che, raccolte dall'amico Ettore Serra (un giovane ufficiale), vennero stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine nel 1916, con il titolo Il porto sepolto. Nel 1919 venne stampata a Parigi la raccolta di poesie francesi La guerre, che sarà poi inserita nella seconda raccolta di poesie Allegria di naufragi pubblicata a Firenze nello stesso anno. In questi anni egli svolse una intensa attività su quotidiani e riviste francesi. Furono questi anche gli anni della maturazione dell'opera Sentimento del Tempo.

Prime pubblicazioni di alcune sue liriche avvennero su L'Italia letteraria e Commerce.Nel 1923 venne ristampato Il porto sepolto presso La Spezia, con una sbrigativa prefazione di Benito Mussolini, che aveva conosciuto nel 1915, durante la campagna dei socialisti interventisti. Nel 1928 maturò invece la sua conversione religiosa al cattolicesimo, evidente nell'opera Sentimento del Tempo. A partire dal 1931 ebbe l'incarico di inviato speciale per La Gazzetta del Popolo e si recò in Egitto, in Corsica, in Olanda e nell'Italia meridionale, raccogliendo il frutto delle esperienze vissute in Il povero nella città (che sarà pubblicato nel 1949), e nella sua rielaborazione Il deserto e dopo, che vedrà la luce solamente nel 1961. Nel 1933 il poeta aveva raggiunto il massimo della sua fama. Nel 1936, durante un viaggio in Argentina su invito del Pen Club, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l'Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò; trasferitosi con tutta la famiglia, vi rimarrà fino al 1942. A San Paolo nel 1939 morirà il figlio Antonietto, all'età di nove anni, per un'appendicite mal curata, lasciando il poeta in uno stato di grande prostrazione interiore, evidente in molte delle poesie raccolte ne Il Dolore del 1947 e in Un Grido e Paesaggi del 1952. A partire dal 1942 la casa editrice Mondadori iniziò la pubblicazione dell'opera omnia di Ungaretti, intitolata Vita di un uomo.

Morì a Milano nella notte tra il 1º e il 2 giugno 1970 per broncopolmonite. Il 4 giugno si svolse il suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, ma non vi partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo italiano. È sepolto nel Cimitero del Verano accanto alla moglie Jeanne.

Poetica
Ungaretti concepisce la poesia come strumenti di conoscenza della realtà; infatti egli ritiene che la conoscenza della realtà interiore ed esteriore della coscienza non si raggiungono per via razionale o scientifica, ma per via analogica, alogica, arazionale; questa via appunto consente di scoprire le relazioni esistenti tra gli esseri umani e perviene alla coscienza di sentirsi in armonia con l’universo alla percezione dell’assoluto e alla fede di Dio. Secondo Ungaretti la poesia è molto importante nella vita degli uomini perché esprime ciò che è inesprimibile nel fondo dell’anima, ciò che è che nell’inconscio. È compito del poeta portarlo fuori. Ogni parola esprime allora un abisso che il poeta deve penetrare e portare alla luce i segreti più nascosti che l’uomo ignora dentro di sé.
Quindi la sua poesia contiene la storia dell’itinerario del poeta: dall’angoscia esistenziale, che deriva dal senso di dolore, alla fede in Dio; dalla condizione di “uomo di pena” alla condizione di “uomo di fede”. Questa sua ideologia spiega il titolo “Vita di un uomo” che egli assegnò alla raccolta delle sue opere. Naturalmente per poter ricercare l’autenticità dell’essere, egli necessitava di un’espressione adeguata, che la individuò nella parola nuda, scabra ed essenziale, che riconduceva alla purezza e freschezza delle origini dell’uomo.
“L’esperienza poetica è esplorazione di un personale continente d’inferno, e l’atto poetico, nel compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa costare, il sentire che solo in poesia si può cercare e trovare libertà. Continente d’inferno, ho detto, a causa della singolarità del sentimento di non essere come gli altri, ma in disparte, come dannato, e come sotto il peso di una speciale responsabilità: quella di scoprire un segreto e rivelarlo agli altri. La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella di essere un uomo d’oggi, ma anche un uomo favoloso, come un uomo dei tempi della cacciata dall’Eden; nel suo gesto d’uomo, il vero poeta sa che è prefigurato il gesto degli avi ignoti, nel seguito di secoli impossibile a risalire, oltre le origini del suo buio.”(da Vita di un uomo. Nota introduttiva pagina 505).

Svoglimento dei contenuti e delle forme
Le raccolte principali di Ungaretti sono:
• “Il porto sepolto”, scritta nel 1916, contiene le poesie scritte sul fronte di guerra in trincea su pezzi di carta occasionali. Il titolo allude ad un porto reale nei pressi di Alessandria, e ha un significato simbolico: infatti il porto sepolto è il mistero, l’assoluto, alla cui ricerca il poeta si pone per potervi approdare come in un porto di pace.

Ecco il commento di Eduardo Esposito a questa opera:<<Il porto sepolto è poesia della poesia, è un momento di riflessione che, dall’esperienza di dolore da cui nasce, si stacca per dire del proprio mistero e della propria felicità. Il poeta vi appare come colui che sa raggiungere il porto sepolto del nostro essere e della nostra memoria, e ne torna con un tesoro di canti da comunicare e da diffondere. Nulla gliene resta, se non la consapevolezza di quel bene toccato, di quel segreto raggiunto e tuttavia inesauribile, speranza e promessa di ulteriore consolazione>>. (da Poesia del Novecento in Italia e in Europa vol. I pag. 140)

• “L’Allegria”, scritta nel 1932, che contiene le liriche del “Il porto sepolto”. Anche questo titolo è allusivo: la guerra infatti è come un naufrago della vita; i superstiti del naufragio sono presi da una sorta di ebbrezza per lo scampato pericolo e superano il dolore con la fede e la speranza di un domani migliore.

In queste poesie sono raccolte le impressioni della Prima Guerra Mondiale. I temi fondamentali sono: Il sentimento dell’attaccamento alla vita spinge il poeta a scrivere lettere piene d’amore quando appunto è costretto a passare una nottata vicino a un compagno massacrato (Veglia); il cuore impietrito dal dolore, divenuto simile alla pietra refrattaria del San Michele, indurita dal sole (Sono una creatura); il cuore straziato dalle case sbriciolate dalla guerra, per la morte di tanti che gli corrispondevano (San Martino del Carso); il sentimento della precarietà di vita (Soldati), ecc. Per poter esprimere la sua condizione umana di combattente diseroicizzato, Ungaretti lo fa in poesie brevi, ridotte a semplici connotazioni ma dense di significato: esse rappresentano poesie da meditare, poesie profonde. Per poter esprimere queste impressioni, si avvale di versi liberi, di parole semplici, essenziali. Inoltre, ricorre ai mezzi tecnici utilizzati dai simbolisti e futuristi: per esempio l’accostamento paratattico, l’abolizione della punteggiatura, impiego di spazi bianchi e di pause, uso dell’analogia e sinestesia.
Al contrario di D'annunzio, Ungaretti sente la guerra non come una occasione di esaltazione patriottica, ma come una fatalità inevitabile, certa, che si abbatte sulla gente d’Italia, la quale la subisce con rassegnazione, con semplicità di gesti e parole.

In sintesi le grandi novità formali e poetiche apportate da Ungaretti in questa sua prima opera sono tante e molto innovative rispetto al panorama poetico della poesia italiana durante la prima guerra mondiale:
1) La prima novità formale e poetica è data dalla verticalizzazione dell’aspetto
tipografico con i versi che coincidono con le parole;
2) La mancanza di punteggiatura;
3) La soppressione degli aggettivi;
4) La tendenza alla nominalizzazione;
5) La frantumazione del verso;
6) La sintassi ridotta la minimo;
7) La rima libera;
8) Le parole ridotte all’essenzialità;
9) La preponderanza del tempo presente e dell’io del poeta.
10) Per questi motivi i versi delle poesie furono definite versicoli.

• “Il sentimento del tempo”, anche questa opera ha un titolo allusivo; si riferisce infatti allo scorrere del tempo, del rapido fluire delle cose, delle persone amate che produce nostalgia del passato e quindi un notevole attaccamento alla vita. Appare inoltre anche l’altro tema della raccolta, ossia il sentimento in Dio.
Terminata la guerra, Ungaretti continua la sua meditazioni sulla poesia e sulla condizione dell’uomo. La meditazione sulla poesia lo porta al recupero dell’endecasillabo e del settenario. Questa scelta è utilizzata dal poeta principalmente per poter comunicare agli uomini le sue scoperte di essere il poeta “veggente”, teorizzato dagli stessi simbolisti.

Poesia che abbiamo fatto in classe


Il porto sepolto

Mariano il 29 giugno 1916.

Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde
Di questa poesia
Mi resta
Quel nulla
Di inesauribile segreto.

COMMENTO
Il titolo, oltre a guidare il lettore alla comprensione del tema, è un tutt'uno con i versi: il verso iniziale, per esempio, si riferisce proprio al porto sepolto, cioè alla meta del viaggio intrapreso da Ungaretti alla ricerca della poesia nella profondità del proprio io, di cui il porto sommerso è simbolo. Il poeta si immerge nell'inconscio e negli abissi della memoria, coglie le improwise illuminazioni, le riporta alla luce e le consegna ai suoi versi grazie alla magia della parola.
La poesia mediante un'indagine non razionale ma intuitiva può fornire lo strumento di conoscenza per decifrare la verità della vita: questo Ungaretti vuole dirci.
La concezione della poesia come rivelazione dell'ignoto, oltre ad essere vicina a quella di Baudelaire, indica che Ungaretti avverte la suggestione letteraria dei miti antichi delle Georgiche e dell'Eneide di Virgilio, il verbo «disperde» deriva da alcuni luoghi dell’Eneide virgiliana (in particolare III, vv. 443-451, ma anche XI, vv. 617 e 794-795), dove si dice che «si disperdevano al vento le sentenze della Sibilla», con un gesto magico-misterico che sottolinea anche la «profondità simbolica» dell’immagine ungarettiana. Da quello del cantore Orfeo che scende nell'Ade per riportare in vita con la forza del suo canto poetico la moglie Euridice. Allo stesso modo Ungaretti presenta il viaggio del poeta nelle tenebre con il successivo riemergere alla luce: l'immagine del poeta che disperde i canti e il segreto scoperto, riafferma il valore divino della poesia capace di svelare misteri.

Lo stesso interprete ha sottolineato, per la seconda strofa, il debito contratto nei confronti di Leopardi da Ungaretti, stesso uso dei dimostrativi si riscontra nei vv. 4 e 6 del Porto sepolto, in cui «questa poesia» si risolve in «quel nulla». Il nulla può essere considerato l’equivalente del «mare dove i poeti usano naufragare» (anche l’idea del "naufragio" è fondamentale nella poetica ungarettiana), nel passaggio, in cui consiste tanta parte del procedimento analogico, da una dimensione materiale a una dimensione immateriale dell’esistenza. Lo stesso «nulla», a sua volta, è sostanziato da un «inesauribile segreto», ossia dal mistero profondo della vita, che, toccando le radici dell’essere, non ha né inizio né fine, e coincide quindi con l’infinito. L’ossimoro «nulla»-«inesauribile» è quindi la condizione essenziale della poesia, con la sua accanita ricerca di una «parola» che sfiori il «segreto», senza tuttavia coglierne la sostanza indicibile.

Commiato
Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l'umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

COMMENTO
Anche questa poesia contiene indicazioni essenziali di poetica, ricollegandosi per molti aspetti al Porto sepolto.la «poesia» (v. 3) coincide con l'intera e più gioiosa dimensione dell'esistenza (dagli elementi naturali alla persona), che la «parola» può fare sbocciare e fiorire. Essa è «la limpida meraviglia» (il sintagma congiunge l'effetto di nitido chiarore allo stupore), che nasce tuttavia da «un delirante fermento», ossia da un magma confuso e incandescente. In quest'antitesi il primo termine sembra riferirsi al piano della pura forma e dell'idea, il secondo alla materia grezza e contingente da cui deriva l'ispirazione.
Dalla poesia in generale Ungaretti passa, nella seconda strofa, alla "sua" poesia: la «propria vita» diventa la «mia vita», con l'uso del possessivo sottolineato dalla marcata corrispondenza, al v. 10, di «mio silenzio» (rafforzato dal dimostrativo «questo»). Dai versi precedenti Ungaretti riprende anche il termine «parola», al quale attribuiva un significato del tutto particolare, opponendolo a «vocabolo»: «Ho sempre distinto tra vocabolo e parola e credo che la distinzione sia del Leopardi. Trovare una parola significa penetrare nel buio abissale di sé senza turbarne né riuscire a conoscerne il segreto».
Con l'articolo indeterminativo («una parola»), il termine occupa il verso centrale della strofa, isolato e quasi avvolto dal «silenzio» che lo precede, ritenuto condizione indispensabile per la nascita della stessa poesia, in un costante rapporto fra presenza e assenza. Ma tutti i termini con cui si chiudono questi versi hanno una particolare rilevanza semantica: il verbo «trovo» allude al significato di una miracolosa scoperta; il sostantivo «vita» si riferisce alle radici esistenziali profonde di questa esperienza, che è anche faticosa e sofferta esplorazione sotterranea (il participio «scavata» ricorda il «penetrata» di Veglia, v. 10); l'«abisso», infine, corrisponde al «porto sepolto», come sorgente di un mistero sconosciuto e insondato, che la poesia può sfiorare senza riuscire ad esaurirlo.

Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

COMMENTO
Questa poesia è:
1) Documento : che fissa un momento della propria storia con quella collettiva e che vuole essere testimonianza
2) Monumento : è un qualcosa che parte dalla contingenza, ma assume un valore, un concetto, una poetica universale
Dopo un attacco, Ungaretti si risveglia a fianco di un compagno morto a cui sta ancora tenendo al mano. Lo scoprirsi ancora vivo di fianco al simbolo della morte suscita nel poeta i sentimenti de:
• Il concetto di naufragio
• La perdita del porto
Così che il poeta si rende conto di essere solo in balia degli eventi. Le parole del testo non sono legate tra loro, anzi, sono crude e secche. In quel momento dell’attacco, in cui la morte lo aveva quasi penetrato, ha sentito l’allegria dopo un naufragio, ovvero gli eventi lo hanno fatto naufragare, ma al contrario del compagno, lui è riuscito a cavarsela, per questo c’è motivo di allegria. Notiamo come da questo discorso emerga che la vita prende significato dalla morte.

La prima strofa è la descrizione macabra del cadavere di un compagno massacrato al fronte, simbolo della ferocia disumana che dilaga durante la Grande guerra. La sinestesia tra i versi 8 e 11 (congestione …penetrata nel mio silenzio) ha una forte pregnanza semantica e costituisce elemento centrale della strofa. Il cadavere diventa emblema metastorico del dolore umano che scaturisce dalla violenza senza tempo. La serie di participi passati ( buttato, massacrato e digrignata, penetrata) fissano la percezione immediata ed ineluttabile di un corpo inerte, con il quale il poeta stesso finisce per identificarsi con una sorta di empatia. La seconda strofa di tre versi costituisce l’explicit del componimento ed esprime il desiderio viscerale ed incontenibile della vita che, a dispetto della morte, si afferma con forza e segna il suo catartico distacco dal massacro visivo della guerra. Il ritmo ossessivo e cadenzato della lirica viene reso dalla serie di doppie del fonema /t/( nottata, scritto, attaccato) e dalle vocali toniche in penultima sillaba. Il contatto con la morte prende forza nel momento in cui le mani livide del compagno massacrato e la sua bocca digrignata volta al plenilunio, penetrano con forza nell’animo del poeta lacerandolo. La tensione rallenta al verso 11, quando nella lirica scompare il ritmo ossessivo ed incalzante dell’incipit e il poeta si riavvicina alla vita aggrappandosi ad essa con forza. L’amore e la volontà di vivere si riaffermano dopo la catarsi del poeta soldato, che dopo aver attraversato il Male, il non senso di quella carneficina, è approdato ad una dimensione esistenziale positiva ( non sono mai stato/tanto/ attaccato alla vita). L’ultimo verso foneticamente legato ai primi ( buttato, massacrato), ne costituisce anche il risvolto semanticamente antitetico ( attaccato alla vita ). Il poeta ha attinto, in tal modo, alla dimensione dell’Assoluto, ha ricomposto la scissione finito – infinito, particolare – universale, ed ha riaffermato la vita e l’amore a dispetto dell’angoscia e del dolore universale.


I Fiumi

Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre


COMMENTO
È la poesia della consapevolezza, quindi, e di una raggiunta identità, che deriva dal recupero del proprio passato attraverso la memoria. Immergersi nella corrente dell’Isonzo equivale a ricordare tutti gli altri fiumi che hanno segnato l’esperienza ungarettiana, ricomponendone il tessuto lacerato. Prendere «coscienza di sé» significa allora chiarire il proprio percorso biografico-esistenziale, dando un senso, nello stesso tempo, alle motivazioni della ricerca poetica.
L’acqua è un evidente simbolo della vita, che dalle sue origini ancestrali (richiamate dal Serchio, il fiume della propria «gente», ai vv. 47-51), giunge alla chiarezza del presente (rappresentata dall’Isonzo), alla maturazione dell’uomo che la guerra ha dolorosamente determinato. In mezzo, ugualmente emblematici, ci sono gli altri due fiumi: il Nilo, che rievoca la stagione libera e avventurosa dell’infanzia e della prima giovinezza africana, con le spontanee acquisizioni della vita e dei sensi; la Senna, che richiama gli anni parigini dell’inquieta formazione artistica e intellettuale, con la scoperta della propria vocazione letteraria (si veda il v. 60, «mi sono conosciuto», che si oppone allo spensierato «ardere d’inconsapevolezza» della strofa precedente, al v. 55, ma rappresenta ancora una fase anteriore rispetto al «mi sono riconosciuto» del v. 29).
Il carattere autobiografico del componimento è sottolineato dall’uso della prima persona, con cui iniziano numerose strofe (si noti la frequenza dei pronomi personali e possessivi «mi», «mie», «miei», ecc.). Ma questa dimensione, come si diceva, tende subito a caricarsi di significati ulteriori. L’immersione nell’acqua ha un valore rituale, che rinvia a precisi riferimenti archetipici, e in particolare alla cerimonia del battesimo. La situazione può essere avvicinata per certi aspetti a quella del Porto sepolto, anche se qui il discorso tende a disporsi in forme più piane e descrittive, che riflettono non la folgorazione di una scoperta improvvisa, ma i passaggi di una più lenta e serena conquista interiore.
Il lavacro rigeneratore trasforma il fiume in un’«urna» (v. 10) che raccoglie la «reliquia» del corpo, con un uso dell’analogia che si avvale di un linguaggio liturgico e religioso, attribuendo un significato sacrale all’intera situazione. Lo scorrere dell’acqua, nei vv. 13-15, compie un’opera di trasformazione e di purificazione, riducendo l’individuo a una realtà minerale e ricongiungendolo alla natura primigenia, tanto da assimilarlo a un «sasso» del fiume. L’azione è così intensa che finisce per scarnificare la figura umana («le mie quattr’ossa», al v. 17), costituendo tuttavia il presupposto necessario per una riemersione che è anche rinascita e liberazione. Il motivo della partenza (v. 18: «e me ne sono andato»), che ne è il corrispettivo, assume un valore opposto rispetto a quello sviluppato in Girovago, traducendosi in un’immagine di straordinaria e quasi incorporea leggerezza: quella dell’«acrobata» (in relazione analogica con il «circo» del v. 4) che cammina «sull’acqua», con un richiamo al ben noto miracolo compiuto da Cristo, a conferma della disposizione religiosa presente nel componimento. Un altro elemento significativo, nella strofa che segue, è costituito dalla nudità del poeta, che non ha ancora indossato «i panni / sudici di guerra» (simbolo della corruzione e della morte) e che, in un immediato rapporto con la natura, si china «a ricevere / il sole» (ma si veda anche la nota 6), che porta con sé la luce e il calore della vita (il paragone «come un beduino» introduce l’atmosfera africana su cui il poeta tornerà nei vv. 52-56).
Attraverso la gradazione di questi passaggi, simbolicamente confluenti nel corso dell’Isonzo (v. 27), il poeta compie la conquista definitiva della propria identità, che consiste nel "riconoscersi" «una docile fibra / dell’universo» (vv. 30-31), pienamente partecipe della vita del tutto e capace di assecondarne i più intimi movimenti, vibrando all’unisono con il creato. È questa l’«armonia» (v. 35) e «la rara / felicità» (vv. 40-41) di cui il poeta va alla ricerca e che solo pochi momenti privilegiati di pienezza dell’essere sembrano in grado di poter realizzare. Di qui si compie anche il processo di riappropriazione del proprio passato (vv. 42-44), che ha un tangibile riscontro geografico nei fiumi via via nominati (il Serchio, il Nilo e la Senna); fiumi della realtà ma soprattutto fiumi della memoria (v. 62: «contati nell’Isonzo»), le cui acque zampillano in un’unica sorgente di vita e di poesia.
L’evidenza dell’immaginazione è anche nella forza dimostrativa dei pronomi, che, riprendendo il v. 27 («Questo è l’Isonzo»), Si ripetono regolarmente, con l’insistenza dell’anafora, all’inizio delle ultime strofe (si veda anche la variante puramente metrica fra i vv. 45-46, «Questi sono i miei fiumi», e il v. 61, «Questi sono i miei fiumi», il cui più ampio movimento confluisce nella specificazione successiva). Dalla raggiunta pacificazione con se stessi nasce anche il rapporto di quiete con il paesaggio notturno, che incornicia, per così dire, il componimento. Nell’ultima strofa le «tenebre» si risolvono nell’immagine floreale della «corolla»; nella strofa iniziale, strettamente collegata, la solitudine del «circo» supera la desolazione della natura («quest’albero mutilato», «questa dolina») con un «languore» che si placa, nonostante le «nuvole», nella tersa serenità della notte lunare.

• TEMPO = è soggettivo e asseconda il pensiero del poeta (Bergson)
• EQUILIBRIO = Espressione paradigmatica dell’uomo del 900 che non riesce a trovare un proprio equilibrio in questo mondo senza certezze, dove non ci sono più appigli, più punti fermi.
Il primo tema è il recupero del passato attraverso la memoria e il secondo tema è il ristabilimento di un rapporto di armonia con il creato, che l’esperienza della guerra sembra aver infranto. Bagnandosi nelle acque dell’Isonzo, il poeta ha la sensazione di essere in piena sintonia con l’universo e con sé stesso. Ciò l'induce a ripensare a tutti i fiumi che ha conosciuto, simbolo delle diverse tappe della sua vita: il Serchio, legato alle vicende dei suoi avi, il Nilo, che lo ha visto crescere negli anni della fervida giovinezza egiziana, La Senna, che ha accompagnato la sua maturazione durante il periodo parigino» (Marzio Dardano I testi, le forme, la storia, Palombo editore pagina 789).
Nella prima parte della poesia il poeta descrive sè stesso immerso nella sua condizione esterna, ambientale, presso una dolina, [una formazione tipica del paesaggio carsico, una cavità di forma approssimativamente circolare che si è creata ad opera dell'acqua che scorre o precipita sulla roccia calcarea ndr.]. Quindi descrive il suo stato d’animo di reduce dalla guerra. Disteso nel letto del fiume Isonzo si sente come una reliquia, un frammento superstite – e pertanto maggiormente prezioso – di un resto mortale, si sente come uno dei sassi levigati su cui cammina con movenze d'acrobata, sotto il sole, il cui calore benefico riceve con la stessa familiarità di un beduino.
Ora affidato alle “mani” amorevoli dell’Isonzo il poeta si riconosce parte dell’universo, cosciente che il suo rammarico è frutto sempre di una disarmonia con il creato. Le acque del fiume lo lavano e lo purificano e gli danno una rara innocente felicità. Ungaretti rammenta i fiumi che hanno accompagnato la sua vita. Il Serchio, fiume della toscana, dove ha attinto l’acqua la sua stirpe. Il Nilo, che lo ha visto nascere e crescere adolescente. La Senna, il fiume di Parigi, dove il poeta ha conosciuto se stesso. Il ricordo di questi fiumi affolla la memoria nostalgica dell'uomo, ora che la sua vita è oscura e che sembra una collana di tenebre, perché «le tenebre della notte evocano l’immagine di una vita piena di incognite, racchiusa in un cerchio oscuro di timori e di presagi di morte» (Maurizio Dardano pag. 791) .

Pellegrinaggio

Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba



Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia





COMMENTO
La situazione è la guerra di trincea, dove un corpo morto si sta decomponendo, degradando, corrompendo. La trama dei suoni sottolinea questo concetto di degrado. La concretezza dell’azione sottolinea il messaggio di fondo, ovvero la salvaguardia della propria umanità anche in condizioni disumane. Già il titolo “Pellegrinaggio” allude metaforicamente al trascinarsi faticoso, a un atto religioso, un cammino di redenzione. Ungaretti identifica se stesso come “uomo di pena”, ma nello stesso tempo afferma la sua volontà di non lasciarsi sopraffare dalla sofferenza, basta un “illusione” per dare “coraggio”; che cosa sia questa illusione è indeterminato, probabilmente essa è simboleggiata dall’incerta luce del riflettore su cui si chiude la poesia. Quello che conta è che l’impegno che il poeta assume e dichiara vuole essere positivo nonostante tutto: coraggio di vivere come uomo, anche in mezzo all’orrore.

La notte bella


Quale canto s'è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle
Quale festa sorgiva
di cuore a nozze
Sono stato
uno stagno di buio
Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio
Ora sono ubriaco
d'universo

COMMENTO
Con questa poesia l’autore vuole comparare i regolari battiti del suo cuorecon il perpetuo apparire e sottrarsi alla vista delle stelle nel cielo. Questoparagone colpisce profondamente il poeta, lo diverte e gli dona allegria. Sirende allora conto di non essersi mai interessato a questo mondo celeste, diessere come “uno stagno di buio”, fermo e rinchiuso in se stesso. Adessosi sente avido di universo come è avido un bambino del latte della madre.

Vanità

Vallone il 19 agosto 1917
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità

E l’uomo
curvato


sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra.

Cullata e
piano
franta


COMMENTO
“..e il naufragar m’è dolce in questo mare”. L’ Infinito de Giacomo Leopardi dona al lettore un’ emozione di indescrivibile intensità; al di là di un ostacolo naturale si cela la verità proiettata nell’immaginario di ognuno di noi e attraverso la “finzione del pensiero” si intuisce la straordinaria bellezza del paesaggio naturale.
Questa stessa bellezza si intuisce nella prima strofa di Vanità, in contrapposizione alla drammaticità della realtà dolorosa delle macerie della guerra. Il limpido stupore dell'immensità condensa stupendamente il senso di improvvisa apertura dell'animo, che coglie - quasi miracolosamente - la vastità degli spazi della natura, pur negli scenari di guerra.

La parola poetica di Ungaretti permette di cogliere altresì l'emozione di un'altra inquietante scoperta: quella dell'estrema fragilità umana che si intreccia con lo stupore di sentirsi in armonia con la natura. In guerra il tempo si trasforma, muta, si distorce perdendo quasi la cadenza naturale delle stagioni. La luce del sole sulla superficie dell'acqua rifrange un'ombra tremante, una vaga insicura parvenza che sembra tuttavia fluttuare delicatamente.
Per l'uomo, prigioniero del dramma bellico, anche il riflesso di un volto nell’acqua può apparire straordinariamente nuovo, un'ombra abbandonata nel delicato abbraccio della natura.

Si tratta di illuminazione improvvisa, caratterizzata dall' infinito nitore della luce e dell'acqua ( essa richiama forse la dimensione religiosa della purificazione ); dimensione che pare - del resto - radicalmente negata dalla provvisorietà tragica del presente.
II poeta ha questa duplice intuizione osservando il rischiararsi improvviso d'uno specchio d'acqua colpito dal sole. Rinvenirsi «ombra» può mantenere ancora implicazioni negative, una sorta di scomparsa della propria identità.
Tuttavia il moto lieve dell'acqua, che culla l'immagine riflessa del poeta, sembra risolvere positivamente tale preziosa imminenza in una momentanea percezione di pienezza vitale



«Una delle opposizioni immaginative fondamentali della poesia ungarettiana è quella tra "deserto", con le connotazioni dell'aridità e sete e abbandono ed esposizione alla morte, e "acqua", con le connotazioni contrarie della protezione, del conforto, del rifugio». Il critico Gioanola compie quest'osservazione a proposito della lirica I fiumi, ma è chiaro che essa può applicarsi anche al finale di Vanità.

Vanità, una delle più tarde liriche dal fronte. E' giudicata da Pasolini il «capolavoro» delle «composizioni rarefatte» ungarettiane. In essa «meglio si configura l'ineffabilità ungarettiana, la parola in trasparenza, il sintagma volatilizzato in nuclei semantici senza peso», e in essa «si riscontra quella situazione di abbandono, di confidenza, di allegria, molto giovanili, che sono il sottofondo fisico più ancora che psicologico del primo libro ungarettiano» (Pasolini usa qui il termine "allegria" secondo l'interpretazione di Contini, che egli stesso descrive: allegria «come momento attivo dell'atto liberatorio della poesia, come passaggio dal piano della vicissitudine umana al piano linguistico»). Si tratta, comunque, dell'illuminazione improvvisa di una dimensione di limpidezza, di infinito (e di eterno?) che pare radicalmente negata dalla provvisorietà torbida e finita del presente. II poeta coglie questa intuizione nel rischiararsi improvviso d'uno specchio d'acqua colpito dal sole (o dalla stessa limpida trasparenza dell'acqua). Rinvenirsi «ombra» può - come si è osservato in nota - mantenere implicazioni negative (del resto presenti irrimediabilmente nel titolo), in parte risolte però nel moto lieve dell'acqua che culla appunto l'ombra del poeta e forse la sua illusoria intuizione di salvezza.

L’Isola
A una proda ove sera era perenne
Di anziane selve assorte, scese,
E s'inoltrò
E lo richiamò rumore di penne
Ch'erasi sciolto dallo stridulo
Batticuore dell'acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide;
Ritornato a salire vide
Ch'era un aninfa e dormiva
Ritta abbracciata a un olmo.

In sé da simulacro a fiamma vera
Errando, giunse a un prato ove
L'ombra negli occhi s'addensava
Delle vergini come
Sera appiè degli ulivi;
Distillavano i rami
Una pioggia pigra di dardi,
Qua pecore s'erano appisolate
Sotto il liscio tepore,
Altre brucavano
La coltre luminosa;
Le mani del pastore erano un vetro
Levigato da fioca febbre.

COMMENTO
Note al testo

1. proda: riva. L’ombra, densa dei boschi secolari (anziane selve), quasi chiuse in se stesse e meditative (assorte), dà l’impressione di un’oscurità serale senza fine (perenne).
2. scese: il soggetto è indeterminato.
3. rumore di penne: quelle di un uccello, che si era alzato in volo (sciolto) da un’acqua immersa nella calura (torrida) e quasi percorsa da un’intensa vibrazione (stridulo batticuore). Ma il reticolo dei richiami analogici è intensissimo e fittissimo: «batticuore introduce anche una sensazione emotiva, come di sorpresa e di ansia, che si estende intorno, al paesaggio e a quella presenza umana "richiamata" dal rumore; stridulo è aggettivo che ci riporta al suono acuto delle penne mosse nel volo» (Bàrberi Squarotti - Jacomuzzi).
4. larva: presenza evanescente, diafana e incorporea: prelude a ninfa (v. 10), mitica divinità dei boschi.
5. In sé ... errando: «difficilmente districabile il procedimento analogico che ha portato a queste immagini, anche se il significato complessivo è quello di un mutare continuo di sensazioni e di impressioni davanti all’instabilità delle visioni. Forse: errando, vagando dentro di sé alla ricerca di una chiarificazione delle labili immagini apparse e delle loro mutazioni, in un gioco di rapporti e di rispondenze per cui le cose, quindi l’atteggiamento interiore di chi le guarda e se ne compenetra - in sé -, acquistano, da parvenze incerte - simulacro - che erano, la verità chiara della fiamma» (Bàrberi Squarotti - Jacomuzzi).
6. l’ombra ... ulivi: riprende, dai versi iniziali, le immagini della sera e dell’ombra, che si raccolgono negli occhi delle fanciulle (vergini) apparse nel prato, riverberandosi ai piedi (appiè) degli alberi d’ulivo (cui la tradizione attribuisce un significato di mestizia funebre e religiosa).
7. distillavano ... dardi: i rami intricati lasciavano cadere quasi ad uno ad uno i raggi (dardi) del sole, "distillandoli" come le gocce di una pioggia pigra, lenta e rada.
8. liscio tepore: quello dei raggi filtrati dagli alberi, morbido e uniforme.
9. la coltre: il manto erboso del prato, nelle zone illuminate dal sole.
10. le mani ... febbre: così annotano criticamente Giorgio Bàrberi Squarotti e Stefano Jacomuzzi: «ancora una presenza umana (e ancora individuata in un solo particolare, le mani) a saldare la visione paesistica. La figura tradizionale, arcadica, del pastore, sembra quasi l’emblema conclusivo di tutta la composizione, che si risolve in un’ultima impressione di morbida lucentezza e di febbrile alterazione. Le mani del pastore in quel clima di umido tepore si stagliano in una lucida trasparenza - levigato richiama il liscio del v. 20 - come se una febbre leggera - fioca - le imperlasse di vitrea umidità».

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L’immagine dell’isola è del tutto irreale, priva di riscontri geografici, svincolata da ogni spazio rintracciabile o riconoscibile. Ungaretti ha dichiarato che ail paesaggio è quello di Tivoli. Perché l’isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo: è un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene ». Tutta la poesia vive così in un’atmosfera indeterminata e rarefatta, nel suo andamento insieme descrittivo e narrativo; il suo stesso protagonista, pur compiendo una sequenza di azioni precise («scese», «s’inoltrò», «lo richiamò», «vide» ripetuto, «giunse»), allontanate peraltro in un passato remoto, è privo di ogni identità, muovendosi in un anonimato favoloso e meraviglioso, che sfuma e svanisce nella pura immaterialità.
Secondo Giuseppe De Robertis, L’isola è una di quelle poche «liriche di forma complessa» che, nel Sentimento del tempo, «non sono legate al filo di una logica autobiografica, non si muovono sul ritmo impresso da un bisogno di confessarsi, la nota personale è dimenticata, o, per così dire, rinasce con una necessità di creazione mitica». Ma anche il mito viene consumato e bruciato, senza residui, negli emblemi di una dimensione incorporea, in cui presenze e figure sembrano il corrispettivo attonito di un’evocazione o di un sogno intensamente concentrato, pensoso, e, nello stesso tempo, impalpabile, evasivo, sfuggente. Uno stesso procedimento di astrazione riguarda il riferimento a elementi tipici della letteratura arcadica e neoclassica (le ninfe, il prato, le greggi, il pastore). Come ha scritto Folco Portinari, «l’esplicita presenza di classiche divinità non significa una vocazione classicheggiante, ma che quei suoni, quei nomi sono strumenti analogici, metafisiche cifre dell’assoluto, della realtà sublimata».
Davvero folgorante e quasi virtuosistico è il gioco delle analogie da cui il componimento è interamente tramato e intessuto. Il significato delle parole (come abbiamo visto anche nelle note) si dilata a quelle immediatamente contigue, stabilendo una rete di corrispondenze sottilissima e inestricabile (si veda ad esempio « selve assorte», «stridulo batticuore dell’acqua», «pioggia pigra di dardi»), in cui i diversi registri di significato trascorrono uno nell’altro, mescolando fra loro allusioni, impressioni, sensazioni, in una profonda e indecifrabile sinestesia (dal «liscio tepore» del v. 20 allo stupendo esito dei due versi finali, con l’immagine delle «mani del pastore» trasferita nel «vetro l levigato da fioca febbre»). In questo modo Ungaretti ha potuto rappresentare la multiforme complessità di un’esistenza in cui il «sentimento del tempo» si confronta costantemente con la dimensione dell’eternità (si pensi ai versi iniziali, in cui l’azione comune e contingente di un personaggio, «scese», è inserita nel contesto di una stagione «perenne»).
Non ha senso, pertanto, cercare il significato preciso di questi versi (per quanto riguarda le singole parole e l’intero contesto), ma occorre affidarsi alla profonda suggestione della loro magia evocatrice e meditativa, che pure trasmette sensazioni indimenticabili (relative alla bellezza, all’amore, in ultima analisi al mistero della vita, in ciò che ha di fragile e di persistente, di contingente e di assoluto). Quello che importa sottolineare è l’estrema letterarietà dell’operazione, che, pur mettendo a frutto le esperienze in precedenza maturate (in particolare l’uso dell’analogia), se ne distacca radicalmente, soprattutto sul piano del linguaggio. Alla ricerca della parola nuda ed elementare si sostituisce adesso un periodare più complesso e addirittura lussureggiante, raffinato e prezioso, che recupera i moduli della tradizione, rinnovandone tuttavia i risultati. Si può notare, da un lato, l’urgere di una ricca e variegata ispirazione "barocca", evidente nel motivo delle metamorfosi, che percorre l’intero componimento, della molteplicità delle sue forme; dall’altro, la subordinazione di questa materia tumultuante a una rigorosa disciplina, di classica compostezza e rigore. Non è difficile cogliere la perizia tecnica, con cui Ungaretti costruisce sapientemente i suoi versi. L’analogia è esaltata dagli effetti dell’allitterazione, mentre, ai vv. 7-8, l’inciso parentetico sottolinea «la lunghezza estenuata del suono nei due verbi languiva e rifioriva» (Bàrberi Squarotti - Jacomuzzi), in rima fra di loro (oltre che prolungati da «larva» e da «vide», ripreso poi alla fine del verso successivo). Il procedimento, che cristallizza la parola in emblemi astratti e assoluti, è parallelo al recupero delle forme della versificazione tradizionale, che lo stesso Ungaretti ha così interpretato: «Dal lato strettamente tecnico il mio primo sforzo è stato quello di ritrovare la naturalezza e la profondità e il ritmo nel senso d’oggi singola parola; ho ora cercato di trovare una coincidenza fra la nostra metrica tradizionale e le necessità espressive d’oggi».

Azanatos1992

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Messaggioda *Yole* » 6 mag 2012, 14:55

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