Alcuni aneddoti sull'empietà del tiranno Dionigi (Versione Cicerone)

Alcuni aneddoti sull'empietà del tiranno Dionigi
versione latino Cicerone libro Corso lingua latina B
dalla grammatica alla traduzione unità 14/25

Duodequadraginta Dionysius tyrannus annos fuit opulentissumae et beatissumae civitatis....

Dionisio tiranneggiò per trentotto anni una ricchissima e felicissima città; Diogene il Cinico era solito affermare che Arpalo, considerato a quei tempi come un pirata fortunato, costituiva per la sua lunga fortuna una vivente testimonianza contro gli dèi.

Dionisio, di cui s'è già detto, dopo aver depredato a Locri il tempio di Proserpina, stava navigando verso Siracusa. Visto che il viaggio procedeva bene con il favore del vento: « Vedete » disse ridendo «o amici, che bella navigazione gli dèi immortali offrono ai sacrileghi? ». Da uomo acuto quale era, considerata bene ogni cosa, perseverò nello stesso atteggiamento. Sbarcato nel Peloponneso e giunto nel tempio di Giove Olimpio spogliò la statua dei Dio del pesante mantello d'oro di cui l'aveva ornata Gelone servendosi del bottino tolto ai Cartaginesi e non si peritò di fare dello spirito sulla cosa dicendo che un mantello d'oro è fastidioso d'estate e freddo d'inverno: rivesti perciò la statua di un mantello di lana col pretesto che essa si adattava a tutte le stagioni.

Analogamente ad Epidauro ordinò che si asportasse la barba d'oro di Esculapio col pretesto che non era bello che il figlio avesse la barba quando in tutti i templi il padre era raffigurato senza barba. Fece anche asportare da tutti i templi le mense d'argento e poiché queste recavano, secondo l'antico uso greco, l'iscrizione « degli dèi buoni » diceva di voler fruire di questa loro bontà. Non sì faceva neppure scrupolo di prelevare le piccole Vittorie d'oro, le tazze e le corone sorrette dalle mani protese delle statue e affermava che questa era una accettazione, non una sottrazione, in quanto sarebbe stata una sciocchezza chiedere dei beni agli dèi per poi non volerli accettare quando sono essi stessi ad offrirceli con le loro stesse mani. Si tramanda anche che il tiranno portasse al mercato gli oggetti tolti dai templi e li vendesse per mezzo di un banditore e che quindi, riscosso il danaro, ordinasse che ciascuno prima di un giorno stabilito riportasse l'oggetto sacro acquistato nel suo tempio:

in tal modo all'empietà nei riguardi degli dèi aggiunse un sopruso a danno degli uomini. Ebbene, né Giove Olimpio lo colpì con il fulmine né Asclepio lo fece morire con una lunga e debilitante malattia, ma morì nel suo letto e fu adagiato su un rogo regale e lasciò in eredità al figlio come giusto e legittimo quel potere che si era procurato col delitto.

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