IL SOGNO o la vita di Luciano - testo greco e traduzione
Avevo pur allora smesso di andare alle scuole, essendo già della persona un giovanotto, e mio padre si consultava con gli amici a che mi dovesse applicare. I più opinavano che la Letteratura vuole fatica assai, e tempo lungo, e spesa non poca, e fortuna splendida; e in casa nostra c’era poco, e ci voleva presto un aiuto: se io imparassi una di queste arti meccaniche, subito avrei dall’arte il necessario per me, non dovendo più all’età mia logorare di quel di casa, e indi a non molto darei anche un sollievo a mio padre recandogli il mio guadagno. Il secondo punto fu, quale fosse la migliore arte, e più facile ad apprendere, e conveniente ad uomo libero, e di più poca spesa ad imparare, e che desse un guadagno sufficiente. Qui, chi ne lodava una, chi un’altra, secondo che ciascuno ne aveva conoscenza o esperienza: quando mio padre, voltosi allo zio (chè v’era presente un mio zio materno tenuto un bravo scultore di Mercurii), disse: Non va che un’altr’arte sia preferita, quando sei tu qui. Prenditi costui (e additò me), e fammene un buon artefice, un marmoraio, uno statuario; ei ci può riuscire, perchè sai come ci ha buona attitudine. Argomentava ei così da certi balocchi di cera ch’io facevo: chè quando io tornavo di scuola, mi mettevo a raschiar cera, e formavo buoi, o cavalli, o anche uomini con un certo garbo, come pareva al babbo. Per quei balocchi ne avevo toccato nerbate dai maestri, e allora n’avevo lode di buona disposizione d’ingegno! Onde si avevano le più belle speranze di me, che in breve imparerei l’arte per quelle figurine ch’io formavo.
Finora v’ho detto cose da ridere e fanciullate: ma ora verrà il buono, che è da udire attentamente. Imperocchè per dirvela con Omero ... Divino a me veniva un sogno Nella dolcezza della notte, e così chiaro che non differiva punto dal vero: e infatti anche dopo tanto tempo, le immagini che mi apparirono, mi stanno ancora innanzi agli occhi; e sento ancora il suono delle parole: tanta era la chiarezza. Due donne, presomi per le mani, mi tiravano ciascuna a sè con sì gran forza e violenza che per poco in quel tira tira non mi fecero in due pezzi: chè ora prevaleva una e mi teneva tutto a sè, ora venivo in potere dell’altra. Si bisticciavano e gridavano: Egli è mio, e me lo vo’ tenere. No, non è tuo, e non devi pigliarti l’altrui. L’una era un donnone, un’artigiana, coi capelli scomposti, le mani callose, la veste succinta, tutta impolverata, com’era lo zio quando scalpellava i marmi; l’altra di assai bell’aspetto, e composta, e ornatamente vestita. Infine lasciarono a me decidere con chi volessi andare. E prima quel duro donnone parlò in questa guisa: