SENECA - Lettere a Lucilio libro I testo latino e traduzione

L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM LETTERE A LUCILIO DI SENECA
Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione
LIBER PRIMUS - LIBRO PRIMO

LIBRO I - I. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Lettera prima 1-3

[1] Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva.

Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. [2] Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet.

Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. [3] Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult.

Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.

1. Fa' così, mio Lucilio: rivendicati a te stesso, e raccogli e preserva il tempo che fino ad ora o (ti) veniva portato via o sottratto o sfuggiva.Convinciti che ciò è così come scrivo: alcuni momenti ci sono sottratti, alcuni portati via, alcuni scorrono.

Tuttavia la perdita che avviene per trascuratezza è vergognosissima. La maggior parte della vita sfuggirà a noi che agiamo male, la massima a coloro che non fanno nulla, l'intera vita a coloro che fanno altro. Chi mi indicherai, che ponga qualche prezzo al tempo, che apprezzi il giorno, che comprenda che muore ogni giorno?

In ciò infatti sbagliamo, per il fatto che stiamo in guardia alla morte: la maggior parte di essa è già trascorsa; la morte tiene qualsiasi cosa del tempo che è del passato. Dunque, mio Lucilio, fa' ciò che già dici cioè agire ogni giorno: prenditi a cuore (abbraccia) tutte le ore. Accadrà così che sia sospeso di meno dal domani, se avrai posto mano all'odierno (al tempo odierno). Mentre si rimanderà, la vita trascorre. Tutte le cose, Lucilio, sono altrui, soltanto il tempo è nostro: la natura ci ha posto in possesso di quest'unica cosa fugace e sdrucciolevole, di cui chiunque lo vuole è privo.

(by Maria D.)

Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.

Lettera prima I 4-5

4. Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae.

Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. [5] Quid ergo est? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, 'sera parsimonia in fundo est'; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet.

Vale. 4 Ti chiederai forse come mi comporti io che ti do questi consigli. Te lo dirò francamente: tengo il conto delle mie spese da persona prodiga, ma attenta. Non posso dire che non perdo niente, ma posso dire che cosa perdo e perché e come. Sono in grado di riferirti le ragioni della mia povertà. Purtroppo mi accade come alla maggior parte di quegli uomini caduti in miseria non per colpa loro: tutti sono pronti a scusarli, nessuno a dar loro una mano. 5 E allora?

Una persona alla quale basta quel poco che le rimane, non la stimo povera; ma è meglio che tu conservi tutti i tuoi averi e comincerai a tempo utile. Perché, come dice un vecchio adagio: "È troppo tardi essere sobri quando ormai si è al fondo." Al fondo non resta solo il meno, ma il peggio. Stammi bene.

Lettera seconda Libro I - 1 - 6

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM [1] Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris.

Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari. [2] Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis immorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt. [3] Non prodest cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem impedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit.

Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas. [4] 'Sed modo' inquis 'hunc librum evolvere volo, modo illum.' Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversus paupertatem, aliquid adversus mortem auxili compara, nec minus adversus ceteras pestes; et cum multa percurreris, unum excerpe quod illo die concoquas. [5] Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid apprehendo.

Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum - soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator -: 'honesta' inquit 'res est laeta paupertas'. [6] Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est. Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non acquisita sed acquirenda computat? Quis sit divitiarum modus quaeris? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. Vale.

2 1 Da quanto mi scrivi e da quanto sento, nutro per te buone speranze: non corri qua e là e non ti agiti in continui spostamenti.

Questa agitazione indica un'infermità interiore: per me, invece, primo segno di un animo equilibrato è la capacità di starsene tranquilli in un posto e in compagnia di se stessi. 2 Bada poi che il fatto di leggere una massa di autori e libri di ogni genere non sia un po' segno di incostanza e di volubilità. Devi insistere su certi scrittori e nutrirti di loro, se vuoi ricavarne un profitto spirituale duraturo. Chi è dappertutto, non è da nessuna parte. Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico. Lo stesso capita inevitabilmente a chi non si dedica a fondo a nessun autore, ma sfoglia tutto in fretta e alla svelta. 3 Non giova né si assimila il cibo vomitato subito dopo il pasto. Niente ostacola tanto la guarigione quanto il frequente cambiare medicina; non si cicatrizza una ferita curata in modo sempre diverso.

Una pianta, se viene spostata spesso, non si irrobustisce; niente è così efficace da poter giovare in poco tempo. Troppi libri sono dispersivi: dal momento che non puoi leggere tutti i volumi che potresti avere, basta possederne quanti puoi leggerne. 4 "Ma," ribatti, "a me piace sfogliare un po' questo libro, un po' quest'altro." È proprio di uno stomaco viziato assaggiare molte cose: la varietà di cibi non nutre, intossica. Leggi sempre, perciò autori di valore riconosciuto e se di tanto in tanto ti viene in mente di passare ad altri, ritorna poi ai primi. Procurati ogni giorno un aiuto contro la povertà, contro la morte e, anche, contro le altre calamità; e quando avrai fatto passare tante cose, estrai un concetto da assimilare in quel giorno. 5 Anch'io mi regolo così; dal molto che leggo ricavo qualche cosa. Il frutto di oggi l'ho tratto da Epicuro (è mia abitudine penetrare nell'accampamento nemico, ma non da disertore, se mai da esploratore); dichiara Epicuro: "È nobile cosa la povertà accettata con gioia." 6 Ma se è accettata con gioia, non è povertà.

Povero non è chi ha poco, ma chi vuole di più. Cosa importa quanto c'è nel forziere o nei granaî, quanti sono i capi di bestiame o i redditi da usura, se ha gli occhi sulla roba altrui e fa il conto non di quanto ha, ma di quanto vorrebbe procurarsi? Mi domandi quale sia la giusta misura della ricchezza? Primo avere il necessario, secondo quanto basta. Stammi bene.

Lettera terza 1-6  LETTERA III 1-6

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM [1] Epistulas ad me perferendas tradidisti, ut scribis, amico tuo; deinde admones me ne omnia cum eo ad te pertinentia communicem, quia non soleas ne ipse quidem id facere: ita eadem epistula illum et dixisti amicum et negasti.

Itaque si proprio illo verbo quasi publico usus es et sic illum amicum vocasti quomodo omnes candidatos 'bonos viros' dicimus, quomodo obvios, si nomen non succurrit, 'dominos' salutamus, hac abierit. [2] Sed si aliquem amicum existimas cui non tantundem credis quantum tibi, vehementer erras et non satis nosti vim verae amicitiae. Tu vero omnia cum amico delibera, sed de ipso prius: post amicitiam credendum est, ante amicitiam iudicandum. Isti vero praepostero officia permiscent qui, contra praecepta Theophrasti, cum amaverunt iudicant, et non amant cum iudicaverunt. Diu cogita an tibi in amicitiam aliquis recipiendus sit. Cum placuerit fieri, toto illum pectore admitte; tam audaciter cum illo loquere quam tecum.

[3] Tu quidem ita vive ut nihil tibi committas nisi quod committere etiam inimico tuo possis; sed quia interveniunt quaedam quae consuetudo fecit arcana, cum amico omnes curas, omnes cogitationes tuas misce. Fidelem si putaveris, facies; nam quidam fallere docuerunt dum timent falli, et illi ius peccandi suspicando fecerunt. Quid est quare ego ulla verba coram amico meo retraham? quid est quare me coram illo non putem solum? [4] Quidam quae tantum amicis committenda sunt obviis narrant, et in quaslibet aures quidquid illos urit exonerant; quidam rursus etiam carissimorum conscientiam reformidant et, si possent, ne sibi quidem credituri interius premunt omne secretum. Neutrum faciendum est; utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli, sed alterum honestius dixerim vitium, alterum tutius.

[5] Sic utrosque reprehendas, et eos qui semper inquieti sunt, et eos qui semper quiescunt. Nam illa tumultu gaudens non est industria sed exagitatae mentis concursatio, et haec non est quies quae motum omnem molestiam iudicat, sed dissolutio et languor. [6] Itaque hoc quod apud Pomponium legi animo mandabitur: 'quidam adeo in latebras refugerunt ut putent in turbido esse quidquid in luce est'. Inter se ista miscenda sunt: et quiescenti agendum et agenti quiescendum est. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem. Vale.

3 1 Mi scrivi che hai dato a un tuo amico delle lettere da consegnarmi; mi inviti poi a non discutere con lui di tutto quello che ti riguarda, poiché tu stesso non ne hai l'abitudine.

Così nella stessa lettera affermi e poi neghi che quello è tuo amico. Se usi una parola specifica in senso generico e lo chiami amico come noi chiamiamo "onorevoli" tutti quelli che aspirano a una carica pubblica, oppure salutiamo con un "caro" chi incontriamo, se il nome non ci viene in mente, lasciamo perdere. 2 Ma se consideri amico uno e non ti fidi di lui come di te stesso, sbagli di grosso e non conosci abbastanza il valore della vera amicizia. Con un amico decidi tranquillamente di tutto, ma prima decidi se è un amico: una volta che hai fatto amicizia, ti devi fidare; prima, però, devi decidere se è vera amicizia. Confondono i doveri dell'amicizia sovvertendone l'ordine le persone che, contrariamente agli insegnamenti di Teofrasto, dopo aver concesso il loro affetto, cominciano a giudicare e, avendo giudicato, non mantengono l'affetto. Rifletti a lungo se è il caso di accogliere qualcuno come amico, ma, una volta deciso, accoglilo con tutto il cuore e parla con lui apertamente come con te stesso.

3 Vivi in modo da non aver segreti nemmeno per i tuoi nemici. Poiché, però ci sono cose che è abitudine tener nascoste, dividi con l'amico ogni tua preoccupazione, ogni tuo pensiero. Se lo giudichi fidato, lo renderai anche tale. Chi ha paura di essere ingannato insegna a ingannare e i suoi sospetti autorizzano ad agire disonestamente. Perché di fronte a un amico dovrei pesare le parole? Perché davanti a lui non dovrei sentirmi come se fossi solo? 4 C'è gente che racconta al primo venuto fatti che si dovrebbero confidare solo agli amici e scarica nelle orecchie di uno qualunque i propri tormenti. Altri, invece, temono persino che le persone più care vengano a sapere le cose e nascondono sempre più dentro ogni segreto, per non confidarlo, se potessero, neppure a se stessi. Sono due comportamenti da evitare perché è un errore sia credere a tutti, sia non credere a nessuno, ma direi che il primo è un difetto più onesto, il secondo più sicuro.

5 Allo stesso modo meritano di essere biasimati sia gli eterni irrequieti, sia gli eterni flemmatici. Non è operosità godere dello scompiglio, ma lo smaniare di una mente esagitata, come non è quiete giudicare fastidiosa ogni attività, bensì fiacchezza e indolenza. 6 Ricordala bene, perciò questa frase che ho letto in Pomponio: "C'è chi si tiene così ben nascosto che gli sembra tempesta tutto ciò che succede sotto il sole." Bisogna saper conciliare queste due opposte tendenze: chi è flemmatico deve agire e deve calmarsi chi è sempre in attività. Consigliati con la natura: ti dirà che ha creato il giorno e la notte. Stammi bene.

Lettera IV 1-9 . Lettera quarta 1-9 LIBRO I - IV.

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM [1] Persevera ut coepisti et quantum potes propera, quo diutius frui emendato animo et composito possis.

Frueris quidem etiam dum emendas, etiam dum componis: alia tamen illa voluptas est quae percipitur ex contemplatione mentis ab omni labe purae et splendidae. [2] Tenes utique memoria quantum senseris gaudium cum praetexta posita sumpsisti virilem togam et in forum deductus es: maius expecta cum puerilem animum deposueris et te in viros philosophia transscripserit. Adhuc enim non pueritia sed, quod est gravius, puerilitas remanet; et hoc quidem peior est, quod auctoritatem habemus senum, vitia puerorum, nec puerorum tantum sed infantum: illi levia, hi falsa formidant, nos utraque. [3] Profice modo: intelleges quaedam ideo minus timenda quia multum metus afferunt. Nullum malum magnum quod extremum est. Mors ad te venit: timenda erat si tecum esse posset: necesse est aut non perveniat aut transeat. [4] 'Difficile est' inquis 'animum perducere ad contemptionem animae.' Non vides quam ex frivolis causis contemnatur? Alius ante amicae fores laqueo pependit, alius se praecipitavit e tecto ne dominum stomachantem diutius audiret, alius ne reduceretur e fuga ferrum adegit in viscera: non putas virtutem hoc effecturam quod efficit nimia formido?

Nulli potest secura vita contingere qui de producenda nimis cogitat, qui inter magna bona multos consules numerat. [5] Hoc cotidie meditare, ut possis aequo animo vitam relinquere, quam multi sic complectuntur et tenent quomodo qui aqua torrente rapiuntur spinas et aspera. Plerique inter mortis metum et vitae tormenta miseri fluctuantur et vivere nolunt, mori nesciunt. [6] Fac itaque tibi iucundam vitam omnem pro illa sollicitudinem deponendo. Nullum bonum adiuvat habentem nisi ad cuius amissionem praeparatus est animus; nullius autem rei facilior amissio est quam quae desiderari amissa non potest. Ergo adversus haec quae incidere possunt etiam potentissimis adhortare te et indura. [7] De Pompei capite pupillus et spado tulere sententiam, de Crasso crudelis et insolens Parthus; Gaius Caesar iussit Lepidum Dextro tribuno praebere cervicem, ipse Chaereae praestitit; neminem eo fortuna provexit ut non tantum illi minaretur quantum permiserat. Noli huic tranquillitati confidere: momento mare evertitur; eodem die ubi luserunt navigia sorbentur.

[8] Cogita posse et latronem et hostem admovere iugulo tuo gladium; ut potestas maior absit, nemo non servus habet in te vitae necisque arbitrium. Ita dico: quisquis vitam suam contempsit tuae dominus est. Recognosce exempla eorum qui domesticis insidiis perierunt, aut aperta vi aut dolo: intelleges non pauciores servorum ira cecidisse quam regum. Quid ad te itaque quam potens sit quem times, cum id propter quod times nemo non possit? [9] At si forte in manus hostium incideris, victor te duci iubebit - eo nempe quo duceris. Quid te ipse decipis et hoc nunc primum quod olim patiebaris intellegis? Ita dico: ex quo natus es, duceris. Haec et eiusmodi versanda in animo sunt si volumus ultimam illam horam placidi exspectare cuius metus omnes alias inquietas facit.

4 1 Persevera come hai cominciato e affrettati quanto sei in grado: potrai così godere più a lungo di un animo puro e sereno. Anzi ne godi già mentre lo correggi, mentre lo acquieti: ma ben altro piacere è quello che si riceve dalla contemplazione di un'anima immacolata e limpida. 2 Certo ricordi la gioia provata quando sostituisti la veste da fanciullo con la toga virile e fosti condotto nel foro: ebbene, aspettane una maggiore quando avrai deposto l'animo infantile e la filosofia ti avrà registrato fra gli uomini. Poiché la tua non è puerizia, bensì, cosa più grave, puerilità, e, quel che è peggio, noi abbiamo l'autorità degli anziani e i difetti dei bambini, anzi non dei bambini, ma dei neonati; i bambini hanno paura di sciocchezze, i neonati di false immagini, noi di tutte e due. 3 Cerca di progredire: capirai che certe cose proprio per questo sono meno da temere, perché fanno molta paura. Nessun male è grande se è l'ultimo. La morte ti viene incontro: la dovresti temere se potesse rimanere con te: ma necessariamente o non è ancora arrivata o passa oltre. 4 "È difficile", ribatti, "indurre lo spirito a disprezzare la vita." Ma non ti accorgi per quali insulsi motivi essa viene disprezzata? Uno si impicca davanti alla porta dell'amica, un altro si butta giù dal tetto per non sentire più le sfuriate del padrone, l'evaso si ficca un pugnale in corpo per sfuggire alla cattura: non pensi che si possa compiere per coraggio un'azione che si compie per eccessiva paura? Non può vivere una vita serena chi si preoccupa troppo di prolungarla e annovera fra i grandi beni i molti anni vissuti. 5 Tu, invece, preparati ogni giorno a lasciare serenamente questa vita a cui tanti si avvinghiano e si aggrappano, come chi è trascinato via dalla corrente si aggrappa ai rovi e alle rocce. I più ondeggiano infelici tra il timore della morte e le angosce della vita: non vogliono vivere, né sanno morire. 6 Abbandona ogni preoccupazione per la tua esistenza e te la renderai piacevole. Possedere un bene non serve a niente se non si è pronti a perderlo. E i beni la cui perdita è più facilmente tollerabile sono quelli che, perduti, non possono essere oggetto di rimpianto. Fatti, dunque, animo e coràzzati contro i casi che possono capitare anche ai più potenti. 7 Della vita di Pompeo decisero un ragazzino e un eunuco, di quella di Crasso un Parto crudele e barbaro. Gaio Cesare impose a Lepido di porgere il collo al tribuno Destro, ma poi lui stesso porse il suo a Cherea. La sorte non ha innalzato nessuno tanto da non ritorcere contro di lui quanto gli aveva concesso di fare. Non fidarti della momentanea bonaccia: fa presto il mare ad agitarsi; nello stesso giorno le barche affondano là dove si erano spinte per diporto. 8 Pensa che tanto un bandito che un nemico possono puntarti un pugnale alla gola; in assenza di un'autorità più grande ogni servo ha potere di vita o di morte su di te. Voglio dire: chiunque disprezzi la propria vita, è padrone della tua. Ricorda gli esempi di uomini uccisi dai propri schiavi, o con aperta violenza o con l'inganno: ti renderai conto che il furore dei servi non ha causato meno stragi dell'ira dei re. Che ti importa, dunque, quanto sia potente l'uomo che temi, quando il male che temi te lo può fare chiunque? 9 Metti il caso che tu cada in mano ai nemici, il vincitore comanderà di condurti proprio là dove stai andando. Perché inganni te stesso e ti rendi conto solo in quel momento di una cosa che subivi da tempo? Ascoltami: verso la morte sei spinto dal momento della nascita. Su questo e su pensieri del genere dobbiamo meditare, se vogliamo attendere serenamente quell'ultima ora che ci spaventa e ci rende inquiete tutte le altre.

{mospagebreak title=Lettera III 10-11} Lettera terza 10-11 [10] Sed ut finem epistulae imponam, accipe quod mihi hodierno die placuit - et hoc quoque ex alienis hortulis sumptum est: 'magnae divitiae sunt lege naturae composita paupertas'. Lex autem illa naturae scis quos nobis terminos statuat? Non esurire, non sitire, non algere. Ut famem sitimque depellas non est necesse superbis assidere liminibus nec supercilium grave et contumeliosam etiam humanitatem pati, non est necesse maria temptare nec sequi castra: parabile est quod natura desiderat et appositum. [11] Ad supervacua sudatur; illa sunt quae togam conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt: ad manum est quod sat est. Cui cum paupertate bene convenit dives est. Vale. 10 Ma, per mettere fine alla mia lettera, senti il pensiero che ho scelto oggi - anche questo l'ho preso dal giardino di un altro. "È una grande ricchezza la povertà regolata dalla legge di natura." Li conosci i confini che ci ha fissato la legge di natura? Non patire la fame, né la sete, né il freddo. Per scacciare la fame e la sete non occorre sedere presso la soglia di superbi padroni, né sopportare una fastidiosa arroganza e una cortesia affettata e perciò offensiva, non è necessario affrontare i pericoli della navigazione o partire per la guerra. Quanto esige la natura è facile a procurarsi e a portata di mano. 11 E, invece, ci affanniamo per il superfluo; ecco che cosa logora la toga, cosa ci costringe a invecchiare sotto una tenda e cosa ci spinge in terre straniere, mentre quel che ci basta è a portata di mano. Chi si adatta bene alla povertà è ricco. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera V 1-6} Lettera quinta 1-6 SENECA LUCILIO SUO SALUTEM [1] Quod pertinaciter studes et omnibus omissis hoc unum agis, ut te meliorem cotidie facias, et probo et gaudeo, nec tantum hortor ut perseveres sed etiam rogo. Illud autem te admoneo, ne eorum more qui non proficere sed conspici cupiunt facias aliqua quae in habitu tuo aut genere vitae notabilia sint; [2] asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evita. Satis ipsum nomen philosophiae, etiam si modeste tractetur, invidiosum est: quid si nos hominum consuetudini coeperimus excerpere? Intus omnia dissimilia sint, frons populo nostra conveniat. [3] Non splendeat toga, ne sordeat quidem; non habeamus argentum in quod solidi auri caelatura descenderit, sed non putemus frugalitatis indicium auro argentoque caruisse. Id agamus ut meliorem vitam sequamur quam vulgus, non ut contrariam: alioquin quos emendari volumus fugamus a nobis et avertimus; illud quoque efficimus, ut nihil imitari velint nostri, dum timent ne imitanda sint omnia. [4] Hoc primum philosophia promittit, sensum communem, humanitatem et congregationem; a qua professione dissimilitudo nos separabit. Videamus ne ista per quae admirationem parare volumus ridicula et odiosa sint. Nempe propositum nostrum est secundum naturam vivere: hoc contra naturam est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem appetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis. [5] Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriae est, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest autem esse non incompta frugalitas. Hic mihi modus placet: temperetur vita inter bonos mores et publicos; suspiciant omnes vitam nostram sed agnoscant. [6] 'Quid ergo? eadem faciemus quae ceteri? nihil inter nos et illos intererit?' Plurimum: dissimiles esse nos vulgo sciat qui inspexerit propius; qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram. Magnus ille est qui fictilibus sic utitur quemadmodum argento, nec ille minor est qui sic argento utitur quemadmodum fictilibus; infirmi animi est pati non posse divitias. Tu ti applichi con costanza e hai lasciato da parte tutto il resto per renderti ogni giorno migliore: approvo e ne sono contento; quindi non solo ti esorto, ma anche ti prego di perseverare. Un unico consiglio: non abbigliarti e non vivere in maniera stravagante, come le persone che non vogliono progredire, ma mettersi in mostra. 2 Evita gli abiti trasandati, i capelli lunghi e la barba incolta, il disprezzo manifesto per i preziosi, il letto sistemato a terra e in generale tutto ciò che per vie traverse corre dietro al desiderio di distinguersi. Il nome stesso di filosofia, pur se la si pratica con discrezione, è già abbastanza odiato. Figurati poi se cominceremo a sottrarci alle abituali regole di comportamento. Bisogna essere nell'intimo completamente diversi dagli altri, ma simili al resto della gente nell'aspetto esteriore. 3 La toga non deve essere sfarzosa, ma nemmeno sordida. Cerchiamo di non avere argento cesellato d'oro massiccio, ma neanche consideriamo segno di frugalità far completamente a meno sia di oro che di argento. Sforziamoci di vivere meglio della massa, non in maniera contraria: altrimenti mettiamo in fuga e allontaniamo da noi quelli che vorremmo correggere, e per giunta facciamo sì che non ci vogliano imitare in niente, per timore di doverci imitare in tutto. 4 Ecco le promesse prime della filosofia: senso comune, umanità e socievolezza: l'essere troppo diversi ci impedirà di attuarle. Badiamo che non sia ridicolo e fastidioso quel comportamento con cui vogliamo suscitare ammirazione. Certo il nostro proposito è vivere secondo natura: ma è contro natura tormentare il proprio corpo, trascurare una normale igiene, ricercare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo poveri, ma addirittura disgustosi e sgradevoli. 5 Come è segno di mollezza cercare alimenti raffinati, così è segno di pazzia evitare quelli comuni che si possono avere a poco prezzo. La filosofia richiede frugalità, non sofferenza, e la frugalità può essere decorosa. Mi sembra buona questa via di mezzo: l'esistenza sia una giusta combinazione tra moralità e morale predominante. Che tutta la gente guardi con ammirazione la nostra vita, ma sia anche in grado di capirla. 6 "E allora, dovremo comportarci come gli altri? Non ci sarà nessuna differenza tra noi e loro?" Sì, e grandissima: chi ci guarda più da vicino, sappia che siamo diversi dalla massa; chi entra in casa nostra ammiri noi, non il nostro mobilio. È grande chi usa vasellami di argilla come se fossero di argento, ma non lo è meno chi usa l'argento come se fosse argilla; solo i deboli non sono in grado di reggere la ricchezza. {mospagebreak title=Lettera V 7-9} Lettera quinta 7-9 [7] Sed ut huius quoque diei lucellum tecum communicem, apud Hecatonem nostrum inveni cupiditatum finem etiam ad timoris remedia proficere. 'Desines' inquit 'timere, si sperare desieris.' Dices, 'quomodo ista tam diversa pariter sunt?' Ita est, mi Lucili: cum videantur dissidere, coniuncta sunt. Quemadmodum eadem catena et custodiam et militem copulat, sic ista quae tam dissimilia sunt pariter incedunt: spem metus sequitur. [8] Nec miror ista sic ire: utrumque pendentis animi est, utrumque futuri exspectatione solliciti. Maxima autem utriusque causa est quod non ad praesentia aptamur sed cogitationes in longinqua praemittimus; itaque providentia, maximum bonum condicionis humanae, in malum versa est. [9] Ferae pericula quae vident fugiunt, cum effugere, securae sunt: nos et venturo torquemur et praeterito. Multa bona nostra nobis nocent; timoris enim tormentum memoria reducit, providentia anticipat; nemo tantum praesentibus miser est. Vale. 7 Ma voglio dividere con te anche il piccolo guadagno di oggi: ho letto nel nostro Ecatone che non avere più accesi desideri serve anche come rimedio alla paura. "Non avrai più paura se smetterai di sperare." "Ma," potresti obiettare, "come fanno a stare insieme sentimenti tanto diversi?" Eppure è così, Lucilio mio: sembrano in contraddizione e invece sono collegati. Come le stesse manette legano il detenuto e la guardia, così elementi tanto differenti procedono di pari passo: la paura segue la speranza. 8 E non mi meraviglio che le cose vadano così: speranza e timore sono contrassegni di un animo inquieto e preoccupato del futuro. La loro causa prima è che noi non ci adattiamo al presente, ma ci spingiamo lontano con il pensiero; per questo la capacità di fare previsioni, che pure è una delle qualità migliori dell'uomo, si risolve in un male. 9 Le belve evitano i pericoli che vedono e, una volta schivatili, si sentono al sicuro: noi ci tormentiamo e per il futuro e per il passato. Molte nostre prerogative ci nuocciono; la memoria rinnova l'angoscia della paura, il prevedere il futuro ce l'anticipa; nessuno è infelice solo per il presente. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera VI 1-3} LIBRO I - VI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Lettera sesta 1-3 [1] Intellego, Lucili, non emendari me tantum sed transfigurari; nec hoc promitto iam aut spero, nihil in me superesse quod mutandum sit. Quidni multa habeam quae debeant colligi, quae extenuari, quae attolli? Et hoc ipsum argumentum est in melius translati animi, quod vitia sua quae adhuc ignorabat videt; quibusdam aegris gratulatio fit cum ipsi aegros se esse senserunt. [2] Cuperem itaque tecum communicare tam subitam mutationem mei; tunc amicitiae nostrae certiorem fiduciam habere coepissem, illius verae quam non spes, non timor, non utilitatis suae cura divellit, illius cum qua homines moriuntur, pro qua moriuntur. [3] Multos tibi dabo qui non amico sed amicitia caruerint: hoc non potest accidere cum animos in societatem honesta cupiendi par voluntas trahit. Quidni non possit? sciunt enim ipsos omnia habere communia, et quidem magis adversa. 1 Lucilio caro, mi rendo conto che non solo mi sto correggendo, ma addirittura mi trasformo; certo non garantisco, e nemmeno spero, che non ci sia in me più nulla da cambiare. E perché non dovrei avere ancora molti sentimenti da frenare, da attenuare, da elevare? Vedere difetti che fino ad allora ignorava, proprio questa è la prova di un animo che ha fatto progressi; con certi malati ci si rallegra quando prendono coscienza del loro male. 2 Ci terrei, dunque, a farti conoscere questo mio improvviso cambiamento; allora comincerei ad avere una più salda fiducia nella nostra amicizia, quella vera che non la speranza, non il timore, né la ricerca del proprio interesse può spezzare, quell'amicizia che dura fino alla morte, e per la quale si è pronti a morire. 3 Potrei menzionarti molti cui non è mancato l'amico, ma la vera amicizia: questo non può verificarsi quando un'identica volontà di desiderare il bene induce gli uomini a unirsi. Perché no? Perché essi sanno di avere ogni cosa in comune e soprattutto le avversità {mospagebreak title=Lettera VI 4-7} Lettera sesta 4-7 [4] Concipere animo non potes quantum momenti afferri mihi singulos dies videam. 'Mitte' inquis 'et nobis ista quae tam efficacia expertus es.' Ego vero omnia in te cupio transfundere, et in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam; nec me ulla res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. Si cum hac exceptione detur sapientia, ut illam inclusam teneam nec enuntiem, reiciam: nullius boni sine socio iucunda possessio est. [5] Mittam itaque ipsos tibi libros, et ne multum operae impendas dum passim profutura sectaris, imponam notas, ut ad ipsa protinus quae probo et miror accedas. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla. [6] Zenonem Cleanthes non expressisset, si tantummodo audisset: vitae eius interfuit, secreta perspexit, observavit illum, an ex formula sua viveret. Platon et Aristoteles et omnis in diversum itura sapientium turba plus ex moribus quam ex verbis Socratis traxit; Metrodorum et Hermarchum et Polyaenum magnos viros non schola Epicuri sed contubernium fecit. Nec in hoc te accerso tantum, ut proficias, sed ut prosis; plurimum enim alter alteri conferemus. [7] Interim quoniam diurnam tibi mercedulam debeo, quid me hodie apud Hecatonem delectaverit dicam. 'Quaeris' inquit 'quid profecerim? amicus esse mihi coepi.' Multum profecit: numquam erit solus. Scito esse hunc amicum omnibus. Vale. Non puoi immaginare quali progressi io mi accorga di compiere giorno per giorno. 4 Tu mi dici: "Riferisci anche a me questo metodo che hai trovato così efficace." Certo desidero travasare in te tutto il mio sapere e sono lieto di imparare qualcosa appunto per insegnarla. Di nessuna nozione potrei compiacermi, per quanto straordinaria e vantaggiosa, se ne avessi conoscenza per me solo. Se mi fosse concessa la sapienza a condizione di tenerla chiusa in me senza trasmetterla ad altri, rifiuterei: non dà gioia il possesso di nessun bene, se non puoi dividerlo con altri. 5 Ti manderò perciò i miei libri e perché tu non perda tempo a rintracciare qua e là i passi utili, li sottolineerò: così troverai subito quello che condivido e apprezzo. Più che un discorso scritto, però ti sarà utile il poter vivere e conversare insieme; al momento è necessario che tu venga, primo perché gli uomini credono di più ai loro occhi che alle loro orecchie, poi perché attraverso i precetti il cammino è lungo, mentre è breve ed efficace attraverso gli esempi. 6 Cleante non avrebbe potuto esprimere compiutamente la dottrina di Zenone se avesse soltanto ascoltato le sue lezioni: fu partecipe della sua vita, ne penetrò i segreti, osservò se viveva secondo i suoi insegnamenti. Platone, Aristotele e tutta la massa dei filosofi, che poi presero strade diverse, impararono più dalla vita che dalle parole di Socrate. Non la scuola di Epicuro, ma il vivere con lui rese grandi Metrodoro, Ermarco e Polieno. E non ti faccio venire solo perché tu ne tragga giovamento, ma anche perché tu mi sia utile; ci aiuteremo moltissimo a vicenda. 7 Frattanto, poiché ti devo il mio piccolo contributo quotidiano, ti dirò il pensiero che oggi mi è piaciuto in Ecatone. "Tu chiedi quali progressi abbia fatto?" egli scrive, "Ho cominciato ad essere amico di me stesso." Ha fatto un grande progresso: non sarà mai solo. Sappi che tutti possono avere questo amico. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera VII 1-6} LIBRO I - VII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Lettera settima 1-6 [1] Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor imbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. Quod aegris evenit quos longa imbecillitas usque eo affecit ut nusquam sine offensa proferantur, hoc accidit nobis quorum animi ex longo morbo reficiuntur. [2] Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut imprimit aut nescientibus allinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt. [3] Quid me existimas dicere? avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui. Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus exspectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore acquiescant. Contra est: quidquid ante pugnatum est misericordia fuit; nunc omissis nugis mera homicidia sunt. Nihil habent quo tegantur; ad ictum totis corporibus ex positi numquam frustra manum mittunt. [4] Hoc plerique ordinariis paribus et postulaticiis praeferunt. Quidni praeferant? non galea, non scuto repellitur ferrum. Quo munimenta? quo artes? omnia ista mortis morae sunt. Mane leonibus et ursis homines, meridie spectatoribus suis obiciuntur. Interfectores interfecturis iubent obici et victorem in aliam detinent caedem; exitus pugnantium mors est. Ferro et igne res geritur. [5] Haec fiunt dum vacat harena. 'Sed latrocinium fecit aliquis, occidit hominem.' Quid ergo? quia occidit, ille meruit ut hoc pateretur: tu quid meruisti miser ut hoc spectes? 'Occide, verbera, ure! Quare tam timide incurrit in ferrum? quare parum audacter occidit? quare parum libenter moritur? Plagis agatur in vulnera, mutuos ictus nudis et obviis pectoribus excipiant.' Intermissum est spectaculum: 'interim iugulentur homines, ne nihil agatur'. Age, ne hoc quidem intellegitis, mala exempla in eos redundare qui faciunt? Agite dis immortalibus gratias quod eum docetis esse crudelem qui non potest discere. Mi chiedi che cosa secondo me dovresti soprattutto evitare? La folla. Non puoi ncora affidarti a essa tranquillamente. Quanto a me, ti confesserò la mia debolezza: quando rientro non sono mai lo stesso di prima; l'ordine interiore che mi ero dato, in parte si scompone. Qualche difetto che avevo eliminato, ritorna. Capita agli ammalati che una prolungata infermità li indebolisca al punto di non poter uscire senza danno: così è per me, reduce da una lunga malattia spirituale. 2 I rapporti con una grande quantità di persone sono deleterî: c'è sempre qualcuno che ci suggerisce un vizio o ce lo trasmette o ce lo attacca a nostra insaputa. Più è la gente con cui ci mescoliamo, tanto maggiore è il rischio. Ma non c'è niente di più dannoso alla morale che l'assistere oziosi a qualche spettacolo: i vizi si insinuano più facilmente attraverso i piaceri. 3 Capisci che cosa intendo dire? Ritorno più avaro, più ambizioso, più dissoluto, anzi addirittura più crudele e disumano, poiché sono stato in mezzo agli uomini. Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti erano atti di pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto. 4 La gente per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché no? Non hanno elmo né scudo contro la lama. Perché schermi protettivi? Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per un'altra strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i mezzi con cui si procede sono il ferro e il fuoco. 5 E questo avviene mentre l'arena è vuota. "Ma costui ha rubato, ha ammazzato". E allora? Ha ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu, povero diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a questo spettacolo? "Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo." C'è l'intervallo: "Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo." Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono su chi li dà? Ringraziate gli dei perché insegnate a essere crudele a uno che non può imparare. {mospagebreak title=Lettera VII 6-9} Lettera settima 6-9 [6] Subducendus populo est tener animus et parum tenax recti: facile transitur ad plures. Socrati et Catoni et Laelio excutere morem suum dissimilis multitudo potuisset: adeo nemo nostrum, qui cum maxime concinnamus ingenium, ferre impetum vitiorum tam magno comitatu venientium potest. [7] Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives cupiditatem irritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem suam affricuit: quid tu accidere his moribus credis in quos publice factus est impetus? [8] Necesse est aut imiteris aut oderis. Utrumque autem devitandum est: neve similis malis fias, quia multi sunt, neve inimicus multis, quia dissimiles sunt. Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt. [9] Non est quod te gloria publicandi ingenii producat in medium, ut recitare istis velis aut disputare; quod facere te vellem, si haberes isti populo idoneam mercem: nemo est qui intellegere te possit. Aliquis fortasse, unus aut alter incidet, et hic ipse formandus tibi erit instituendusque ad intellectum tui. 'Cui ergo ista didici?' Non est quod timeas ne operam perdideris, si tibi didicisti. Bisogna sottrarre alla folla gli animi deboli e poco saldi nel bene: è molto facile subire l'influsso della maggioranza. Frequentare una massa di gente diversa da loro avrebbe potuto cambiare i costumi persino di Socrate, Catone, Lelio; nessuno di noi, soprattutto quando il nostro carattere è in formazione, può resistere alla pressione di tanti vizi tutti insieme. 7 Un solo esempio di mollezza o di avarizia produce gravi danni: un commensale raffinato a poco a poco ti guasta, ti infiacchisce, un vicino ricco scatena la tua avidità, un compagno malvagio contamina anche un uomo semplice e puro: che cosa pensi che succeda alle nostre convinzioni morali quando vengono attaccate in massa dai vizi? 8 Due sono i casi: o li imiti o li odi. Ma sono da evitare l'uno e l'altro estremo: non devi assimilarti ai malvagi, perché sono molti, né essere nemico di molti, perché sono dissimili. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta le persone che possono renderti migliore e accogli quelli che puoi rendere migliori. Il vantaggio è reciproco perché mentre s'insegna si impara. 9 Non c'è ragione per cui il desiderio di gloria debba spingerti a esibire a tutti il tuo ingegno con declamazioni o discussioni pubbliche; ti consiglierei di agire così, se tu avessi merce adatta alla massa, ma non c'è nessuno in grado di capirti. Capiterà forse qualcuno, uno o due al massimo, e tu dovrai formarlo ed educarlo perché ti possa capire. "Ma allora, per chi ho imparato tutto questo?" Non temere di aver perso il tuo tempo, se hai imparato per te. {mospagebreak title=Lettera VII 10-12} Lettera settima 10-12 [10] Sed ne soli mihi hodie didicerim, communicabo tecum quae occurrunt mihi egregie dicta circa eundem fere sensum tria, ex quibus unum haec epistula in debitum solvet, duo in antecessum accipe. Democritus ait, 'unus mihi pro populo est, et populus pro uno'. [11] Bene et ille, quisquis fuit - ambigitur enim de auctore -, cum quaereretur ab illo quo tanta diligentia artis spectaret ad paucissimos perventurae, 'satis sunt' inquit 'mihi pauci, satis est unus, satis est nullus'. Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum suorum scriberet: 'haec' inquit 'ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus'. [12] Ista, mi Lucili, condenda in animum sunt, ut contemnas voluptatem ex plurium assensione venientem. Multi te laudant: ecquid habes cur placeas tibi, si is es quem intellegant multi ? introrsus bona tua spectent. Vale. 10 Ma per evitare di aver imparato solo per me oggi, ti scriverò tre belle massime che mi è capitato di leggere all'incirca sullo stesso argomento: di queste una salda il mio debito per questa lettera, le altre due prendile come anticipo. Scrive Democrito: "Secondo me, una sola persona vale quanto tutto il popolo e il popolo quanto una sola persona." 11 Dice bene anche quell'altro, chiunque sia stato (è incerto, infatti, di chi si tratti); gli chiedevano perché si applicasse con tanto impegno a una materia che pochissimi avrebbero compreso, rispose: "A me bastano poche persone, anzi anche una sola o addirittura nessuna." Eccellente anche questa terza affermazione, di Epicuro; in una sua lettera a un compagno di studi: "Io parlo non per molti, ma per te;" scrive, "noi siamo l'uno per l'altro un teatro sufficientemente grande." 12 Devi, caro Lucilio, serbare in te queste massime, per disprezzare il piacere che deriva dal consenso generale. Molti ti lodano; ma perché dovresti rallegrarti se sono in tanti a capirti? I tuoi meriti ricerchino l'approvazione della tua coscienza. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera VIII 1-7} LIBRO I - VIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Lettera ottava 1-7 1] 'Tu me' inquis 'vitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum? ubi illa praecepta vestra quae imperant in actu mori?' Quid? ego tibi videor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. Nullus mihi per otium dies exit; partem noctium studiis vindico; non vaco somno sed succumbo, et oculos vigilia fatigatos cadentesque in opere detineo. [2] Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo; salutares admonitiones,velut medicamentorum utilium compositiones, litteris mando, esse illas efficaces in meis ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt. [3] Rectum iter, quod sero cognovi et lassus errando, aliis monstro. Clamo: 'vitate quaecumque vulgo placent, quae casus attribuit; ad omne fortuitum bonum suspiciosi pavidique subsistite: et fera et piscis spe aliqua oblectante decipitur. Munera ista fortunae putatis? insidiae sunt. Quisquis vestrum tutam agere vitam volet, quantum plurimum potest ista viscata beneficia devitet in quibus hoc quoque miserrimi fallimur: habere nos putamus, haeremus. [4] In praecipitia cursus iste deducit; huius eminentis vitae exitus cadere est. Deinde ne resistere quidem licet, cum coepit transversos agere felicitas, aut saltim rectis aut semel ruere: non vertit fortuna sed cernulat et allidit. [5] Hanc ergo sanam ac salubrem formam vitae tenete, ut corpori tantum indulgeatis quantum bonae valetudini satis est. Durius tractandum est ne animo male pareat: cibus famem sedet, potio sitim exstinguat, vestis arceat frigus, domus munimentum sit adversus infesta temporis. Hanc utrum caespes erexerit an varius lapis gentis alienae, nihil interest: scitote tam bene hominem culmo quam auro tegi. Contemnite omnia quae supervacuus labor velut ornamentum ac decus ponit; cogitate nihil praeter animum esse mirabile, cui magno nihil magnum est.' [6] Si haec mecum, si haec cum posteris loquor, non videor tibi plus prodesse quam cum ad vadimonium advocatus descenderem aut tabulis testamenti anulum imprimerem aut in senatu candidato vocem et manum commodarem? Mihi crede, qui nihil agere videntur maiora agunt: humana divinaque simul tractant. {mospagebreak title=Lettera VIII 1-7} Lettera ottava 1-7 8 1 "Mi esorti a evitare la folla," scrivi, "e a starmene per conto mio, pago della mia coscienza? Che fine hanno fatto dunque i precetti della vostra filosofia che impongono di essere attivi fino alla morte?" Ma come? Credi che io ti inviti all'inerzia? Io mi sono appartato e ho sbarrato le porte per essere utile a molta gente. Non trascorro mai la giornata in ozio: parte della notte la dedico allo studio; non mi abbandono al sonno, vi soccombo e costringo al lavoro gli occhi che si chiudono stanchi per la veglia. 2 Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto dagli impegni e prima di tutto dai miei impegni personali: sono al servizio dei posteri. Scrivo cose che possano servire loro; affido alle mie pagine consigli salutari, come se fossero ricette di medicamenti utili; ne ho sperimentata l'efficacia sulle mie ferite che non sono guarite completamente, ma almeno non si sono diffuse. 3 Mostro agli altri la via giusta: io l'ho conosciuta tardi e stanco del lungo errare. Grido: "Evitate tutto ciò che piace al volgo e che viene dal caso; fermatevi sospettosi e pavidi di fronte ad ogni bene fortuito: l'esca alletta fiere e pesci e li inganna. Li credete doni della fortuna? Sono trappole. Chi di voi vuole vivere una vita sicura, eviti il più possibile questi beni vischiosi, che tradiscono, noi, poveri infelici, anche in questo: pensiamo di tenerli in pugno e, invece, ci siamo attaccati. 4 Questa strada ci porta alla rovina; il destino di una persona salita tanto in alto è precipitare. E dopo non si può resistere, quando la prosperità comincia a farci deviare: o si prosegue diritti o si precipita una volta per tutte; la sorte non solo ci travolge, ma ci abbatte e ci cola a picco. 5 Seguite questa sana e salutare regola di vita: concedete al corpo solo quanto basta a mantenerlo in salute. Bisogna trattarlo con una certa durezza perché non disobbedisca alla mente: il cibo deve estinguere la fame, il bere la sete, i vesti devono proteggere dal freddo, la casa difendere dalle intemperie. Non importa se è stata costruita con zolle o con marmo variegato di importazione: sappiate che un tetto di foglie copre bene quanto uno d'oro. Ornamenti e fregi ottenuti grazie a inutili fatiche, disprezzateli tutti; pensate che nulla è straordinario tranne l'anima e per un'anima grande nulla è grande." 6 Dico queste cose a me stesso, le dico ai posteri; e non mi rendo più utile secondo te che se mi presentassi come difensore in giudizio o imprimessi il sigillo ai testamenti o mettessi gesto e voce a servizio di un candidato senatoriale? Credimi, fa di più chi sembra che non faccia niente: si cura nello stesso tempo delle faccende divine e di quelle umane. 7 Ma ormai è tempo di concludere e, come stabilito, devo pagare il mio tributo per questa lettera. {mospagebreak title=Lettera VIII 7-9} Lettera ottava 7-9 [7]Sed iam finis faciendus est et aliquid, ut institui, pro hac epistula dependendum. Id non de meo fiet: adhuc Epicurum compilamus, cuius hanc vocem hodierno die legi: 'philosophiae servias oportet, ut tibi contingat vera libertas'. Non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statim circumagitur; hoc enim ipsum philosophiae servire libertas est. [8] Potest fieri ut me interroges quare ab Epicuro tam multa bene dicta referam potius quam nostrorum: quid est tamen quare tu istas Epicuri voces putes esse, non publicas? Quam multi poetae dicunt quae philosophis aut dicta sunt aut dicenda! Non attingam tragicos nec togatas nostras - habent enim hae quoque aliquid severitatis et sunt inter comoedias ac tragoedias mediae -: quantum disertissimorum versuum inter mimos iacet! quam multa Publilii non excalceatis sed coturnatis dicenda sunt! [9] Unum versum eius, qui ad philosophiam pertinet et ad hanc partem quae modo fuit in manibus, referam, quo negat fortuita in nostro habenda: alienum est omne quidquid optando evenit. 7 Ma ormai è tempo di concludere e, come stabilito, devo pagare il mio tributo per questa lettera. Non è farina del mio sacco: ancora una volta saccheggio Epicuro; oggi ho letto queste sue parole: "Consacrati alla filosofia, se vuoi essere veramente libero." Chi si sottomette e si affida a essa, non deve attendere: è libero subito; infatti questo stesso servire la filosofia è libertà. 8 Probabilmente mi chiederai perché io riporti tante belle frasi di Epicuro, invece che quelle degli Stoici: ma perché ritieni di Epicuro queste massime e non patrimonio comune? Quanti poeti esprimono concetti già formulati o che dovrebbero essere formulati dai filosofi! Non menzionerò i tragici e nemmeno le nostre commedie togate, che per la loro gravità sono una via di mezzo fra tragedia e commedia: quanti versi eloquentissimi ci sono nei mimi! Quante frasi di Publilio dovrebbero essere recitate in una tragedia, non in un mimo. 9 Ti citerò un unico suo verso che riguarda la filosofia e l'argomento or ora discusso. Egli sostiene che non dobbiamo considerare nostri i beni fortuiti: Non ci appartiene quanto accade secondo i nostri desideri. {mospagebreak title=Lettera VIII 10} Lettera ottava 10 [10] Hunc sensum a te dici non paulo melius et adstrictius memini: non est tuum fortuna quod fecit tuum. Illud etiam nunc melius dictum a te non praeteribo: dari bonum quod potuit auferri potest. Hoc non imputo in solutum: de tuo tibi. Vale. 10 Ricordo che anche tu hai espresso lo stesso concetto assai meglio e con maggiore concisione: Non è tuo ciò che la fortuna ha fatto tuo. Ma voglio citare quest'altra tua massima ancora migliore: Un bene che può essere dato, può anche essere tolto. Questo non lo calcolo come pagamento: ti restituisco un bene già tuo. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera IX 1-7} LIBRO I IX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM lLettera nona 1-7 [1] An merito reprehendat in quadam epistula Epicurus eos qui dicunt sapientem se ipso esse contentum et propter hoc amico non indigere, desideras scire. Hoc obicitur Stilboni ab Epicuro et iis quibus summum bonum visum est animus in patiens. [2] In ambiguitatem incidendum est, si exprimere 'apátheian´ uno verbo cito voluerimus et impatientiam dicere; poterit enim contrarium ei quod significare volumus intellegi. Nos eum volumus dicere qui respuat omnis mali sensum: accipietur is qui nullum ferre possit malum. Vide ergo num satius sit aut invulnerabilem animum dicere aut animum extra omnem patientiam positum. [3] Hoc inter nos et illos interest: noster sapiens vincit quidem incommodum omne sed sentit, illorum ne sentit quidem. Illud nobis et illis commune est, sapientem se ipso esse contentum. Sed tamen et amicum habere vult et vicinum et contubernalem, quamvis sibi ipse sufficiat. [4] Vide quam sit se contentus: aliquando sui parte contentus est. Si illi manum aut morbus aut hostis exciderit, si quis oculum vel oculos casus excusserit, reliquiae illi suae satisfacient et erit imminuto corpore et amputato tam laetus quam [in] integro fuit; sed quae sibi desunt non desiderat, non deesse mavult. [5] Ita sapiens se contentus est, non ut velit esse sine amico sed ut possit; et hoc quod dico 'possit' tale est: amissum aequo animo fert. Sine amico quidem numquam erit: in sua potestate habet quam cito reparet. Quomodo si perdiderit Phidias statuam protinus alteram faciet, sic hic faciendarum amicitiarum artifex substituet alium in locum amissi. [6] Quaeris quomodo amicum cito facturus sit? Dicam, si illud mihi tecum convenerit, ut statim tibi solvam quod debeo et quantum ad hanc epistulam paria faciamus. Hecaton ait, 'ego tibi monstrabo amatorium sine medicamento, sine herba, sine ullius veneficae carmine: si vis amari, ama'. Habet autem non tantum usus amicitiae veteris et certae magnam voluptatem sed etiam initium et comparatio novae. [7] Quod interest inter metentem agricolam et serentem, hoc inter eum qui amicum paravit et qui parat. Attalus philosophus dicere solebat iucundius esse amicum facere quam habere, 'quomodo artifici iucundius pingere est quam pinxisse'. Illa in opere suo occupata sollicitudo ingens oblectamentum habet in ipsa occupatione: non aeque delectatur qui ab opere perfecto removit manum. Iam fructu artis suae fruitur: ipsa fruebatur arte cum pingeret. Fructuosior est adulescentia liberorum, sed infantia dulcior. 1 Tu vuoi sapere se Epicuro ha ragione a criticare in una sua lettera quanti dicono che il saggio basta a se stesso e che perciò non ha bisogno di amici. È un rimprovero che Epicuro rivolge a Stilbone e a chi è convinto che il sommo bene sia un animo che non patisce. 2 È inevitabile cadere nell'equivoco se si vuole sbrigativamente tradurre $PðÜèåéá$ con una sola parola e precisamente: impatientia. Può infatti, intendersi il contrario di quello che vogliamo sottolineare. Per noi si tratta dell'uomo che rifiuta la sensazione di qualsiasi male: c'è il rischio di interpretarlo, invece, come uno che non può sopportare nessun male. Vedi, dunque, se non è preferibile parlare o di un animo invulnerabile o di un animo al di là di ogni sofferenza. 3 Questa è la differenza tra noi e loro: il nostro saggio vince ogni avversità, ma l'avverte; il loro neppure l'avverte. In comune abbiamo l'opinione che il saggio è autosufficiente; e tuttavia, egli vuole avere un amico, un vicino di casa, un compagno di vita. 4 E guarda quanto è autosufficiente: certe volte di sé gli basta una sola parte. Se una malattia o un nemico lo hanno privato di una mano, se per sventura ha perso uno o tutt'e due gli occhi, anche così ridotto, sarà soddisfatto, e il corpo sconciato e mutilato gli andrà bene non meno di quando era integro. Ma se non rimpiange ciò che gli è venuto a mancare, questo non significa che preferisce la menomazione. 5 Il saggio è autosufficiente non nel senso che vuole essere senza amici, ma che può stare senza amici; e questo "può" significa che, se perde un amico, sopporta con animo sereno. Ma non sarà mai senza amici: può crearsene altri in breve tempo. Come Fidia, persa una statua, ne avrebbe fatta subito un'altra, così questo artefice di amicizie, perduto un amico, lo sostituirà con un altro. 6 Mi chiedi come si possa stringere presto un'amicizia? Te lo dirò se stabiliamo che io ti paghi subito il mio debito e per questa lettera facciamo pari. Dice Ecatone: "Ti indicherò un filtro amoroso, senza pozioni, senza erbe, senza formule magiche: se vuoi essere amato, ama." Non solo dalle amicizie sicure e di vecchia data si ricava grande piacere, ma anche dal cominciarne e dal procurarsene di nuove. 7 Tra chi ha un amico e chi lo cerca c'è differenza, come tra il contadino che miete e quello che semina. Il filosofo Attalo era solito dire che farsi un amico dà più gioia che averlo, "come al pittore procura più gioia l'atto di dipingere che l'opera finita." L'attendere con zelo a un lavoro dà di per sé un grande piacere: non ne prova, invece, uno uguale chi, finita un'opera, toglie mano. Gode ormai del frutto della sua arte: dipingendo, invece, godeva dell'arte stessa. I figli adolescenti dànno più frutti, ma da piccoli ci dànno una felicità più dolce. {mospagebreak title=Lettera IX 8-12} Lettera nota 81-12 [8] Nunc ad propositum revertamur. Sapiens etiam si contentus est se, tamen habere amicum vult, si nihil aliud, ut exerceat amicitiam, ne tam magna virtus iaceat, non ad hoc quod dicebat Epicurus in hac ipsa epistula, 'ut habeat qui sibi aegro assideat, succurrat in vincula coniecto vel inopi', sed ut habeat aliquem cui ipse aegro assideat, quem ipse circumventum hostili custodia liberet. Qui se spectat et propter hoc ad amicitiam venit male cogitat. Quemadmodum coepit, sic desinet: paravit amicum adversum vincla laturum opem; cum primum crepuerit catena, discedet. [9] Hae sunt amicitiae quas temporarias populus appellat; qui utilitatis causa assumptus est tamdiu placebit quamdiu utilis fuerit. Hac re florentes amicorum turba circumsedet, circa eversos solitudo est, et inde amici fugiunt ubi probantur; hac re ista tot nefaria exempla sunt aliorum metu relinquentium, aliorum metu prodentium. Necesse est initia inter se et exitus congruant: qui amicus esse coepit quia expedit ; placebit aliquod pretium contra amicitiam, si ullum in illa placet praeter ipsam. [10] 'In quid amicum paras?' Ut habeam pro quo mori possim, ut habeam quem in exsilium sequar, cuius me morti et opponam et impendam: ista quam tu describis negotiatio est, non amicitia, quae ad commodum accedit, quae quid consecutura sit spectat. [11] Non dubie habet aliquid simile amicitiae affectus amantium; possis dicere illam esse insanam amicitiam. Numquid ergo quisquam amat lucri causa? numquid ambitionis aut gloriae? Ipse per se amor, omnium aliarum rerum neglegens, animos in cupiditatem formae non sine spe mutuae caritatis accendit. Quid ergo? ex honestiore causa coit turpis affectus? [12] 'Non agitur' inquis 'nunc de hoc, an amicitia propter se ipsam appetenda sit.' Immo vero nihil magis probandum est; nam si propter se ipsam expetenda est, potest ad illam accedere qui se ipso contentus est. 'Quomodo ergo ad illam accedit?' Quomodo ad rem pulcherrimam, non lucro captus nec varietate fortunae perterritus; detrahit amicitiae maiestatem suam qui illam parat ad bonos casus. 8 Ritorniamo ora al nostro tema. Il saggio, anche se è autosufficiente, vuole, però avere un amico, se non altro per esercitare l'amicizia, e perché una virtù così nobile non languisca; non lo fa per il motivo dichiarato da Epicuro nella medesima lettera, e cioè "per avere chi lo assista se ammalato, chi lo soccorra in carcere o in miseria", ma per avere qualcuno da assistere lui stesso, nelle malattie, o da liberare se prigioniero dei nemici. Se uno si preoccupa solo di sé e perciò fa amicizia, sbaglia. L'amicizia finirà, come è cominciata: si è procurato un amico perché lo aiutasse nella prigionia: non appena ci sarà rumore di catene, costui sparirà. 9 Sono le amicizie cosiddette opportunistiche: un'amicizia fatta per interesse sarà gradita finché sarà utile. Così se uno ha successo, lo circonda una folla di amici, mentre rimane solo se cade in disgrazia: gli amici fuggono al momento della prova; per questo ci sono tanti esempi infami di persone che abbandonano l'amico per paura, e di altre che per paura lo tradiscono. L'inizio e la fine fatalmente concordano. Chi è diventato amico per convenienza, per convenienza finirà di esserlo. Se nell'amicizia si ricerca un utile, per ottenerlo si andrà contro l'amicizia stessa. 10 "Perché, dunque, ti fai un amico?" Per avere qualcuno per cui morire, qualcuno da seguire in esilio, da strappare alla morte anche a prezzo della mia vita: quella che tu descrivi non è amicizia, ma traffico, che mira a un profitto e guarda ai possibili vantaggi. 11 L'amore senza dubbio somiglia un po' all'amicizia; lo si potrebbe definire un'amicizia dissennata. Si ama forse per denaro? Per ambizione o per desiderio di gloria? L'amore di per sé trascura tutto il resto e accende negli animi un desiderio di bellezza e la speranza di un mutuo affetto. Ma come? Da una più onesta causa può nascere un sentimento ignobile? 12 "Ma ora non stiamo discutendo," potresti ribattere, "se l'amicizia si debba ricercare per se stessa." E, invece, è questa la prima cosa da dimostrare, poiché, in tal caso, vi si può accostare chi è autosufficiente. "E come, dunque, ci si accosta ad essa?" Come a un sentimento bellissimo, non per lucro, né per timore dell'instabilità della sorte; se uno stringe amicizia per opportunismo le toglie la sua grandezza. {mospagebreak title=Lettera XI 13-22} Lettera nona 12-22 [13] 'Se contentus est sapiens.' Hoc, mi Lucili, plerique perperam interpretantur: sapientem undique submovent et intra cutem suam cogunt. Distinguendum autem est quid et quatenus vox ista promittat: se contentus est sapiens ad beate vivendum, non ad vivendum; ad hoc enim multis illi rebus opus est, ad illud tantum animo sano et erecto et despiciente fortunam. [14] Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est. [15] Ergo quamvis se ipso contentus sit, amicis illi opus est; hos cupit habere quam plurimos, non ut beate vivat; vivet enim etiam sine amicis beate. Summum bonum extrinsecus instrumenta non quaerit; domi colitur, ex se totum est; incipit fortunae esse subiectum si quam partem sui foris quaerit. [16] 'Qualis tamen futura est vita sapientis, si sine amicis relinquatur in custodiam coniectus vel in aliqua gente aliena destitutus vel in navigatione longa retentus aut in desertum litus eiectus?' Qualis est Iovis, cum resoluto mundo et dis in unum confusis paulisper cessante natura acquiescit sibi cogitationibus suis traditus. Tale quiddam sapiens facit: in se reconditur, secum est. [17] Quamdiu quidem illi licet suo arbitrio res suas ordinare, se contentus est et ducit uxorem; se contentus et liberos tollit; se contentus est et tamen non viveret si foret sine homine victurus. Ad amicitiam fert illum nulla utilitas sua, sed naturalis irritatio; nam ut aliarum nobis rerum innata dulcedo est, sic amicitiae. Quomodo solitudinis odium est et appetitio societatis, quomodo hominem homini natura conciliat, sic inest huic quoque rei stimulus qui nos amicitiarum appetentes faciat. [18] Nihilominus cum sit amicorum amantissimus, cum illos sibi comparet, saepe praeferat, omne intra se bonum terminabit et dicet quod Stilbon ille dixit, Stilbon quem Epicuri epistula insequitur. Hic enim capta patria, amissis liberis, amissa uxore, cum ex incendio publico solus et tamen beatus exiret, interroganti Demetrio, cui cognomen ab exitio urbium Poliorcetes fuit, num quid perdidisset, 'omnia' inquit 'bona mea mecum sunt'. [19] Ecce vir fortis ac strenuus! ipsam hostis sui victoriam vicit. 'Nihil' inquit 'perdidi': dubitare illum coegit an vicisset. 'Omnia mea mecum sunt': iustitia, virtus, prudentia, hoc ipsum, nihil bonum putare quod eripi possit. Miramur animalia quaedam quae per medios ignes sine noxa corporum transeunt: quanto hic mirabilior vir qui per ferrum et ruinas et ignes inlaesus et indemnis evasit! Vides quanto facilius sit totam gentem quam unum virum vincere? Haec vox illi communis est cum Stoico: aeque et hic intacta bona per concrematas urbes fert; se enim ipse contentus est; hoc felicitatem suam fine designat. [20] Ne existimes nos solos generosa verba iactare, et ipse Stilbonis obiurgator Epicurus similem illi vocem emisit, quam tu boni consule, etiam si hunc diem iam expunxi. 'Si cui' inquit 'sua non videntur amplissima, licet totius mundi dominus sit, tamen miser est.' Vel si hoc modo tibi melius enuntiari videtur - id enim agendum est ut non verbis serviamus sed sensibus -, 'miser est qui se non beatissimum iudicat, licet imperet mundo'. [21] Ut scias autem hos sensus esse communes, natura scilicet dictante, apud poetam comicum invenies: non est beatus, esse se qui non putat. Quid enim refert qualis status tuus sit, si tibi videtur malus ' [22] 'Quid ergo?' inquis 'si beatum se dixerit ille turpiter dives et ille multorum dominus sed plurium servus, beatus sua sententia fiet?' Non quid dicat sed quid sentiat refert, nec quid uno die sentiat, sed quid assidue. Non est autem quod verearis ne ad indignum res tanta perveniat: nisi sapienti sua non placent; omnis stultitia laborat fastidio sui. Vale. 13 "Il saggio è autosufficiente". I più, caro Lucilio, interpretano male questa espressione: allontanano il saggio da tutto e lo costringono dentro il suo guscio. Bisogna allora chiarire il significato e i limiti di questa frase: il saggio è autosufficiente per vivere felice, non per vivere; a questo scopo gli occorrono, infatti, molti elementi, per vivere felice solo un animo onesto, fiero e noncurante della sorte. 14 Voglio ora indicarti anche la distinzione fatta da Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di niente e, tuttavia, ha bisogno di molte cose: "Lo sciocco, invece, non ha bisogno di niente, perché non sa servirsi di niente, ma sente la mancanza di tutto." Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose indispensabili alle attività di ogni giorno, ma di nessuna sente la mancanza; sentire la mancanza di qualcosa deriva dalla necessità, mentre al saggio niente è necessario. 15 Quindi, per quanto sia autosufficiente, ha bisogno di amici e desidera averne il più possibile, ma non per vivere felice: è felice anche senza amici. Il sommo bene, cioè la felicità, non cerca al di fuori mezzi per realizzarsi; è un bene interiore e nasce tutto da se stesso; diventa schiavo della sorte se ricerca una parte di sé all'esterno. 16 "Quale sarà la vita del saggio se, gettato in carcere o relegato in terra straniera o costretto a una lunga navigazione o sbattuto su una spiaggia deserta, rimane senza amici?" Sarà simile a quella di Giove, quando alla fine del mondo, scomparsi gli dèi in un tutt'uno e cessando per qualche tempo l'ordine naturale delle cose, si riposerà chiuso in sé abbandonandosi ai suoi pensieri. Il saggio fa qualcosa di simile: si ritira in sé, sta solo con se stesso. 17 Finché gli è possibile ordinare le sue faccende a suo piacere, è autosufficiente e prende moglie; è autosufficiente e genera figli; è autosufficiente e tuttavia non potrebbe vivere se dovesse vivere senza nessuno. All'amicizia non lo porta nessun interesse personale, ma una naturale inclinazione; come in altri sentimenti, anche nell'amicizia c'è un'innata attrattiva. Come esiste l'odio per la solitudine e la ricerca di associazione, come la natura lega uomo a uomo, così anche in questo sentimento c'è uno stimolo che ci spinge a ricercare le amicizie. 18 E tuttavia, pur amando molto gli amici, che mette sul suo stesso piano, o che spesso addirittura antepone, il saggio delimiterà in sé ogni bene e ripeterà le parole di quel famoso Stilbone, lo stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Costui, dopo la caduta della sua città, in cui aveva perso moglie e figli, uscì da solo, e tuttavia sereno, dall'incendio generale; gli fu chiesto da Demetrio, che ebbe poi il soprannome di Poliorcete per le città da lui distrutte, se avesse perso qualcosa. "Tutti i miei beni," rispose, "li ho con me." Ecco un uomo forte e valoroso! Egli vinse il nemico vincitore. 19 "Non ho perso nulla," disse: e costrinse il nemico a dubitare della propria vittoria. "Tutti i miei beni li ho con me": senso di giustizia, virtù, saggezza e soprattutto l'intelligenza di non ritenere un bene ciò che può essere tolto. Ci meravigliamo vedendo certi animali che attraversano indenni il fuoco; quanto è più ammirevole quest'uomo che uscì illeso e indenne dalle armi, le rovine, le fiamme! Vedi quanto è più facile vincere tutto un popolo che un solo uomo? Sono parole uguali a quelle del filosofo stoico: anch'egli porta i suoi beni intatti attraverso la città in fiamme: è autosufficiente e in questi confini delimita la sua felicità. 20 Non pensare che solo noi pronunciamo nobili parole; lo stesso Epicuro, censore di Stilbone, proferì una frase simile, e tu prendila per buona, anche se per oggi ho già pagato il mio debito: "Se pure è padrone del mondo intero, è un infelice l'uomo che non giudica ingentissimi i propri beni." Oppure, se in questo modo ti sembra espresso meglio (bisogna badare più al significato che alle parole): "Chi non si ritiene molto felice, anche se è padrone del mondo, è un poveretto." 21 Perché tu sappia poi che questo è un concetto comune, appunto perché dettato dalla natura, leggerai nei versi di un poeta comico: Non è felice chi non pensa di esserlo. Che importa qual è il tuo stato, se a te non sembra buono? 22 "E come?" ribatti "se si definirà felice uno vergognosamente ricco e quell'altro, padrone di molti schiavi, ma schiavo di più persone ancora, diventeranno felici per la loro frase?" Non importa quello che dicono, ma quel che pensano, e non quello che pensano un giorno solo, ma quello che pensano sempre. Non temere, poi, che un bene tanto grande tocchi ad un uomo indegno: solo il saggio è contento delle cose sue; gli sciocchi, invece, sono tormentati dal disgusto di se stessi. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera X 1-4} LIBRO I - X. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Lettera decima 1-4 [1] Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum. Non habeo cum quo te communicatum velim. Et vide quod iudicium meum habeas: audeo te tibi credere. Crates, ut aiunt, huius ipsius Stilbonis auditor, cuius mentionem priore epistula feci, cum vidisset adulescentulum secreto ambulantem, interrogavit quid illic solus faceret. 'Mecum' inquit 'loquor.' Cui Crates 'cave' inquit 'rogo et diligenter attende: cum homine malo loqueris'. [2] Lugentem timentemque custodire solemus, ne solitudine male utatur. Nemo est ex imprudentibus qui relinqui sibi debeat; tunc mala consilia agitant, tunc aut aliis aut ipsis futura pericula struunt, tunc cupiditates improbas ordinant; tunc quidquid aut metu aut pudore celabat animus exponit, tunc audaciam acuit, libidinem irritat, iracundiam instigat. Denique quod unum solitudo habet commodum, nihil ulli committere, non timere indicem, perît stulto: ipse se prodit. Vide itaque quid de te sperem, immo quid spondeam mihi - spes enim incerti boni nomen est -: non invenio cum quo te malim esse quam tecum. [3] Repeto memoria quam magno animo quaedam verba proieceris, quanti roboris plena: gratulatus sum protinus mihi et dixi, 'non a summis labris ista venerunt, habent hae voces fundamentum; iste homo non est unus e populo, ad salutem spectat'. [4] Sic loquere, sic vive; vide ne te ulla res deprimat. Votorum tuorum veterum licet deis gratiam facias, alia de integro suscipe: roga bonam mentem, bonam valetudinem animi, deinde tunc corporis. Quidni tu ista vota saepe facias? Audacter deum roga: nihil illum de alieno rogaturus es. 1 È così, non cambio parere: evita la massa, evita i pochi, evita anche il singolo. Non conosco nessuno con cui vorrei che tu avessi rapporti. Vedi come ti stimo: oso affidarti a te stesso. Cratete, raccontano, discepolo proprio di quello Stilbone che ho nominato nella lettera precedente, vedendo un ragazzo che passeggiava in disparte, gli chiese che cosa facesse lì da solo. "Parlo con me stesso," fu la risposta. E Cratete replicò: "Mi raccomando, fa' molta attenzione, stai parlando con un cattivo individuo." 2 Solitamente teniamo d'occhio chi è in preda al dolore e alla paura perché non faccia cattivo uso della solitudine. Se uno è dissennato non deve essere lasciato a se stesso; ora rimugina cattivi propositi, prepara pericoli a sé o agli altri, seconda turpi passioni; ora manifesta tutti quei sentimenti che nascondeva per timore o per vergogna, acuisce la sua audacia, eccita la libidine, fomenta l'ira. Infine, l'unico vantaggio della solitudine, cioè non confidare niente a nessuno, non temere spie, manca agli sciocchi: si tradiscono da soli. Vedi, dunque, quali speranze nutro su di te; anzi, poiché la speranza indica un bene incerto, vedi che cosa mi riprometto: non c'è nessuno con cui vorrei che tu avessi rapporti piuttosto che con te stesso. 3 Ripenso alle parole magnanime e vigorose da te pronunciate: mi sono subito rallegrato con me stesso e ho detto: "Queste frasi nascono dal cuore, non dalle labbra; costui non è uno dei tanti, mira al bene." 4 Parla così, vivi così: bada che niente possa abbatterti. Sii pure grato agli dèi per avere esaudito i tuoi voti di un tempo, formulane altri nuovi: chiedi l'integrità della mente, la salute dell'anima e poi del corpo. Perché non dovresti formulare spesso questi voti? Prega dio con coraggio: non è tua intenzione chiedergli nulla che appartenga ad altri. {mospagebreak title=Lettera X 5-7} Lettera decima 5-7 [5] Sed ut more meo cum aliquo munusculo epistulam mittam, verum est quod apud Athenodorum inveni: 'tunc scito esse te omnibus cupiditatibus solutum, cum eo perveneris ut nihil deum roges nisi quod rogare possis palam'. Nunc enim quanta dementia est hominum! turpissima vota dis insusurrant; si quis admoverit aurem, conticiscent, et quod scire hominem nolunt deo narrant. Vide ergo ne hoc praecipi salubriter possit: sic vive cum hominibus tamquam deus videat, sic loquere cum deo tamquam homines audiant. Vale. 5 Ma per mandarti come al solito la lettera con un piccolo dono, ecco quello che ho trovato in Atenodoro e che secondo me corrisponde a verità: "Sappi che sarai libero da ogni passione, quando arriverai al punto di chiedere a dio solo ciò che puoi chiedere davanti a tutti." E invece come sono privi di senno gli uomini! Rivolgono sottovoce a dio le preghiere più turpi; se qualcuno li ascolta, tacciono, e quello che non vogliono che gli uomini sappiano lo raccontano a dio. Vedi, dunque, se non è utile questo insegnamento: vivi in mezzo agli uomini come se dio ti vedesse e parla con lui come se gli uomini ti udissero. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera XI 1-7} LIBRO I XI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Lettera undicesima 1-7 [1] Locutus est mecum amicus tuus bonae indolis, in quo quantum esset animi, quantum ingenii, quantum iam etiam profectus, sermo primus ostendit. Dedit nobis gustum, ad quem respondebit; non enim ex praeparato locutus est, sed subito deprehensus. Ubi se colligebat, verecundiam, bonum in adulescente signum, vix potuit excutere; adeo illi ex alto suffusus est rubor. Hic illum, quantum suspicor, etiam cum se confirmaverit et omnibus vitiis exuerit, sapientem quoque sequetur. Nulla enim sapientia naturalia corporis aut animi vitia ponuntur: quidquid infixum et ingenitum est lenitur arte, non vincitur. [2] Quibusdam etiam constantissimis in conspectu populi sudor erumpit non aliter quam fatigatis et aestuantibus solet, quibusdam tremunt genua dicturis, quorundam dentes colliduntur, lingua titubat, labra concurrunt: haec nec disciplina nec usus umquam excutit, sed natura vim suam exercet et illo vitio sui etiam robustissimos admonet. [3] Inter haec esse et ruborem scio, qui gravissimis quoque viris subitus affunditur. Magis quidem in iuvenibus apparet, quibus et plus caloris est et tenera frons; nihilominus et veteranos et senes tangit. Quidam numquam magis quam cum erubuerint timendi sunt, quasi omnem verecundiam effuderint; [4] Sulla tunc erat violentissimus cum faciem eius sanguis invaserat. Nihil erat mollius ore Pompei; numquam non coram pluribus rubuit, utique in contionibus. Fabianum, cum in senatum testis esset inductus, erubuisse memini, et hic illum mire pudor decuit. [5] Non accidit hoc ab infirmitate mentis sed a novitate rei, quae inexercitatos, etiam si non concutit, movet naturali in hoc facilitate corporis pronos; nam ut quidam boni sanguinis sunt, ita quidam incitati et mobilis et cito in os prodeuntis. [6] Haec, ut dixi, nulla sapientia abigit: alioquin haberet rerum naturam sub imperio, si omnia eraderet vitia. Quaecumque attribuit condicio nascendi et corporis temperatura, cum multum se diuque animus composuerit, haerebunt; nihil horum vetari potest, non magis quam accersi. [7] Artifices scaenici, qui imitantur affectus, qui metum et trepidationem exprimunt, qui tristitiam repraesentant, hoc indicio imitantur verecundiam. Deiciunt enim vultum, verba summittunt, figunt in terram oculos et deprimunt: ruborem sibi exprimere non possunt; nec prohibetur hic nec adducitur. Nihil adversus haec sapientia promittit, nihil proficit: sui iuris sunt, iniussa veniunt, iniussa discedunt. 1 Ho avuto un colloquio con il tuo amico, un ragazzo di buona indole e già le sue prime parole mi hanno mostrato la sua grandezza d'animo, la sua intelligenza e i progressi morali compiuti. Mi ha fornito un saggio delle qualità cui terrà fede. Non era preparato a parlare: è stato colto di sorpresa. Mentre si concentrava, solo in parte riuscì a superare quella timidezza che è un buon segno in un giovane e arrossì come dal profondo dell'anima. Questo rossore, immagino, lo seguirà sempre anche quando, confermati i suoi sani principî e spogliatosi di tutti i vizi, sarà ormai diventato un saggio. Nemmeno la saggezza può cancellare i difetti naturali del corpo o dello spirito: la scienza può attenuare, non vincere completamente le tendenze radicate e congenite. 2 Anche certi uomini di carattere fermo sudano copiosamente davanti alla folla, come se fossero stanchi e accaldati; ad alcuni, quando devono parlare, tremano le ginocchia; altri battono i denti, tartagliano e hanno le labbra incollate; né l'esercizio, né l'esperienza possono mai cancellare questi difetti: la natura esercita la sua forza e persino agli uomini più vigorosi ricorda la propria presenza valendosi delle loro debolezze. 3 Tra queste c'è pure il rossore che sale d'improvviso anche al volto degli uomini più importanti. Ma più spesso compare nei giovani che sono più ardenti e hanno il viso delicato; non risparmia, però nemmeno gli anziani e i vecchi. Certuni vanno temuti soprattutto quando arrossiscono, come se avessero perduto ogni pudore, 4 Silla diventava violentissimo quando il sangue gli saliva al viso. Niente era più dolce del volto di Pompeo; arrossiva sempre davanti alla folla, soprattutto se doveva tenere un discorso. Ricordo che Fabiano, chiamato in senato come testimone, arrossì e quel pudore gli si confaceva mirabilmente. 5 Questo non accade per debolezza d'animo, ma per la singolarità di un avvenimento che, se anche non sgomenta chi non è abituato, lo altera se è incline per natura a questo difetto; infatti, mentre alcuni sono di sangue calmo, altri lo hanno irruente, eccitabile e che affluisce rapidamente al volto. 6 Come ho già detto, nemmeno la saggezza può eliminare questi difetti: del resto, se potesse cancellarli tutti, avrebbe il dominio della natura. Tutte le caratteristiche legate alla nascita o alla costituzione fisica, persisteranno in noi, anche se cercheremo a lungo e con tenacia di correggerci; non possiamo sradicarle, come non possiamo procurarcele. 7 Gli attori che rappresentano i sentimenti, che esprimono la paura, la trepidazione, la tristezza, riescono a rendere anche la timidezza: chinano il volto, parlano con voce sommessa, abbassano gli occhi e li tengono fissi a terra. Non possono, però fingere il rossore: è una reazione che non si può frenare, né provocare. Nemmeno la saggezza può in questo caso, garantire un rimedio o giovare in alcun modo: sono fenomeni incontrollabili, vanno e vengono spontaneamente. {mospagebreak title=Lettera XI 8-10} Lettera undicesima 8-10 [8] Iam clausulam epistula poscit. Accipe, et quidem utilem ac salutarem, quam te affigere animo volo: 'aliquis vir bonus nobis diligendus est ac semper ante oculos habendus, ut sic tamquam illo spectante vivamus et omnia tamquam illo vidente faciamus'. [9] Hoc, mi Lucili, Epicurus praecepit; custodem nobis et paedagogum dedit, nec immerito: magna pars peccatorum tollitur, si peccaturis testis assistit. Aliquem habeat animus quem vereatur, cuius auctoritate etiam secretum suum sanctius faciat. O felicem illum qui non praesens tantum sed etiam cogitatus emendat! O felicem qui sic aliquem vereri potest ut ad memoriam quoque eius se componat atque ordinet! Qui sic aliquem vereri potest cito erit verendus. [10] Elige itaque Catonem; si hic tibi videtur nimis rigidus, elige remissioris animi virum Laelium. Elige eum cuius tibi placuit et vita et oratio et ipse animum ante se ferens vultus; illum tibi semper ostende vel custodem vel exemplum. Opus est, inquam, aliquo ad quem mores nostri se ipsi exigant: nisi ad regulam prava non corriges. Vale. 8 Ma è ormai tempo di concludere. Eccoti una massima utile e salutare che voglio tu ti imprima bene nell'animo: "Dobbiamo indirizzare la nostra stima verso un uomo onesto e averlo sempre davanti agli occhi per vivere come se lui ci guardasse, e agire sempre come se ci vedesse." 9 Questo Lucilio mio, è un insegnamento di Epicuro; egli ci ha dato, e a ragione, un custode e un maestro: si evitano molti errori, se è presente un testimone quando si sta per commetterli. È bene provare rispetto e riverenza per una persona che possa rendere più puro ogni nostro segreto sentimento con la sua autorevolezza. Beato chi con la sua presenza fisica, o anche solo spirituale, ci aiuta a emendarci! Beato chi rispetta un uomo al punto di correggersi e migliorarsi anche solo ricordandolo! Se uno può rispettare tanto una persona, presto sarà anch'egli oggetto di rispetto. 10 Scegli, dunque, Catone; e se ti sembra troppo intransigente, scegli Lelio più mite di carattere. Scegli un uomo di cui approvi la vita, le parole e il volto stesso, specchio dell'anima. Tienilo sempre davanti agli occhi come guida e come esempio. È necessario, ti dico, regolare su qualcuno la nostra condotta: non si possono correggere i difetti senza una norma cui fare riferimento. Stammi bene. {mospagebreak title=Lettera XII 1-3} Lettera tredicesima 1-3 XII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM [1] Quocumque me verti, argumenta senectutis meae video. Veneram in suburbanum meum et querebar de impensis aedificii dilabentis. Ait vilicus mihi non esse neglegentiae suae vitium, omnia se facere, sed villam veterem esse. Haec villa inter manus meas crevit: quid mihi futurum est, si tam putria sunt aetatis meae saxa? [2] Iratus illi proximam occasionem stomachandi arripio. 'Apparet' inquam 'has platanos neglegi: nullas habent frondes. Quam nodosi sunt et retorridi rami, quam tristes et squalidi trunci! Hoc non accideret si quis has circumfoderet, si irrigaret.' Iurat per genium meum se omnia facere, in nulla re cessare curam suam, sed illas vetulas esse. Quod intra nos sit, ego illas posueram, ego illarum primum videram folium. [3] Conversus ad ianuam 'quis est iste?' inquam 'iste decrepitus et merito ad ostium admotus? foras enim spectat. Unde istunc nanctus es ? quid te delectavit: alienum mortuum tollere?' At ille 'non cognoscis me?' inquit: 'ego sum Felicio, cui solebas sigillaria afferre; ego sum Philositi vilici filius, deliciolum tuum'. 'Perfecte' inquam 'iste delirat: pupulus, etiam delicium meum factus est? Prorsus potest fieri: dentes illi cum maxime cadunt.' 1 Dovunque mi volti, vedo i segni della mia vecchiaia. Ero andato nella mia villa fuori città e mi lamentavo per le spese necessarie alla casa ormai in rovina. Il fattore mi risponde che non è colpa della sua negligenza; lui fa il possibile, ma l'edificio è vecchio. Questa villa l'ho tirata su io: che sarà di me, se i massi che hanno la mia età sono in un tale disfacimento? 2 Adirato con lui, colgo al volo il primo pretesto per sfogare la mia stizza: "È evidente," dico, "che questi platani sono trascurati: non hanno foglie; i rami sono secchi e nodosi, i tronchi spogli e aridi. Questo non succederebbe se qualcuno ci zappasse intorno, se li innaffiasse." Egli giura sul mio genio protettore che fa tutto il necessario, che non manca di curarli, ma sono alberi ormai piuttosto vecchi. Rimanga fra noi: sono stato io a piantarli, io a vederne le prime foglie. 3 Mi giro verso la porta. "Chi è costui?" esclamo, "questo vecchio decrepito che giustamente sta davanti alla porta e guarda all'esterno? Dove l'hai trovato? Perché mai hai portato qui la salma di uno sconosciuto?" E quello: "Ma come, non mi riconosci? Sono Felicione: mi regalavi sempre le statuette di argilla; sono figlio del fattore Filosito, ti ero tanto caro." "Costui è proprio pazzo," dico, "ora è diventato un ragazzetto, la mia gioia? Certo, può essere: proprio adesso gli cadono i denti." {mospagebreak title=Lettera XII 4-9} Lettera tredicesima 4-9 [4] Debeo hoc suburbano meo, quod mihi senectus mea quocumque adverteram apparuit. Complectamur illam et amemus; plena voluptatis, si illa scias uti. Gratissima sunt poma cum fugiunt; pueritiae maximus in exitu decor est; deditos vino potio extrema delectat, illa quae mergit, quae ebrietati summam manum imponit; [5] quod in se iucundissimum omnis voluptas habet in finem sui differt. Iucundissima est aetas devexa iam, non tamen praeceps, et illam quoque in extrema tegula stantem iudico habere suas voluptates; aut hoc ipsum succedit in locum voluptatium, nullis egere. Quam dulce est cupiditates fatigasse ac reliquisse! [6] 'Molestum est' inquis 'mortem ante oculos habere.' Primum ista tam seni ante oculos debet esse quam iuveni - non enim citamur ex censu -; deinde nemo tam sene est ut improbe unum diem speret. Unus autem dies gradus vitae est. Tota aetas partibus constat et orbes habet circumductos maiores minoribus: est aliquis qui omnis complectatur et cingat - hic pertinet a natali ad diem extremum -; est alter qui annos adulescentiae excludit; est qui totam pueritiam ambitu suo adstringit; est deinde per se annus in se omnia continens tempora, quorum multiplicatione vita componitur; mensis artiore praecingitur circulo; angustissimum habet dies gyrum, sed et hic ab initio ad exitum venit, ab ortu ad occasum. [7] Ideo Heraclitus, cui cognomen fecit orationis obscuritas, 'unus' inquit 'dies par omni est'. Hoc alius aliter excepit. Dixit enim *** parem esse horis, nec mentitur; nam si dies est tempus viginti et quattuor horarum, necesse est omnes inter se dies pares esse, quia nox habet quod dies perdidit. Alius ait parem esse unum diem omnibus similitudine; nihil enim habet longissimi temporis spatium quod non ct in uno die invenias, lucem et noctem, et in alternas mundi vices plura facit ista, non : *** alias contractior, alias productior. [8] Itaque sic ordinandus est dies omnis tamquam cogat agmen et consummet atque expleat vitam. Pacuvius, qui Syriam usu suam fecit, cum vino et illis funebribus epulis sibi parentaverat, sic in cubiculum ferebatur a cena ut inter plausus exoletorum hoc ad symphoniam caneretur: 'bebíôtai, bebíôtai´. [9] Nullo non se die extulit. Hoc quod ille ex mala conscientia faciebat nos ex bona faciamus, et in somnum ituri laeti hilaresque dicamus,vixi et quem dederat cursum fortuna peregi. Crastinum si adiecerit deus, laeti recipiamus. Ille beatissimus est et securus sui possessor qui crastinum sine sollicitudine exspectat; quisquis dixit 'vixi' cotidie ad lucrum surgit. 4 Devo una cosa alla mia villa: dovunque mi sono girato, mi è apparsa evidente la mia vecchiaia. Accogliamola e amiamola: può procurare grandi piaceri, se sappiamo farne buon uso. I frutti di fine stagione sono i più graditi; la fanciullezza è bellissima quando sta per finire; chi è dedito al bere gusta soprattutto l'ultimo bicchiere, quello che stordisce, che dà all'ebbrezza il tocco finale. 5 Di ogni piacere, il meglio è alla fine. È dolcissima l'età avanzata, ma non ancora sull'orlo della tomba, e anche il periodo agli sgoccioli della vita ha, secondo me, i suoi piaceri; o, almeno, a essi subentra il non sentirne più il bisogno. Come è dolce aver estenuato e abbandonato le passioni! 6 "È penoso, però avere la morte davanti agli occhi," ribatti. Innanzi tutto davanti agli occhi devono averla vecchi e giovani: non siamo chiamati in base all'età; inoltre, nessuno è tanto vecchio da non poter sperare in un altro giorno di vita. E un solo giorno è un momento della vita. L'intera esistenza è composta di tante parti e ha dei cerchi più grandi che ne comprendono altri più piccoli; ce n'è uno che li abbraccia e li cinge tutti e va dal giorno della nascita a quello della morte; ce n'è un secondo che isola gli anni dell'adolescenza; c'è quello che comprende nel suo giro tutta la fanciullezza; c'è poi l'anno che racchiude in sé tutti gli attimi la cui somma forma la vita; il mese è compreso in un cerchio più stretto; il giorno ha un corso molto breve, ma anch'esso va da un inizio a una fine, dall'alba al tramonto. 7 Perciò Eraclito, che dal suo linguaggio ebbe il soprannome di "oscuro" dice: "un giorno è uguale ad ogni altro." Questa frase viene interpretata in modi diversi. Secondo ‹alcuni› è uguale per numero di ore, e non sbagliano: se il giorno è di ventiquattro ore, tutti i giorni devono essere uguali tra loro perché le ore perse dal giorno le acquista la notte. Secondo altri un giorno è uguale a tutti, perché tutti si somigliano; anche in un solo giorno si può trovare, infatti, tutto quanto c'è in uno spazio di tempo lunghissimo, luce e notte, e nelle alterne vicende dell'universo ‹la notte›, ora più breve, ora più lunga, questi fenomeni li genera in gran numero, ‹sempre della stessa natura›. 8 Perciò ogni giorno deve essere organizzato come se fosse l'ultimo e concludesse la nostra vita. Pacuvio, che fu governatore della Siria per un lungo periodo e quasi la fece sua, celebrava le proprie esequie con vino e banchetti funebri; finita la cena si faceva portare in camera da letto mentre i suoi amasî lo applaudivano e cantavano accompagnati dalla musica: . E ogni giorno celebrava questi funerali. 9 Quello che Pacuvio faceva per cattiva coscienza, noi facciamolo spinti dalla buona coscienza, e andando a dormire lieti e allegri diciamo: Ho vissuto e ho percorso il cammino che il destino mi ha assegnato. Se dio vorrà concederci ancora un giorno accettiamolo con gioia. È veramente felice e padrone di sé chi aspetta il domani senza preoccupazione; se uno dice: "Ho vissuto," ogni giorno alzarsi al mattino gli appare come un guadagno. {mospagebreak Title=Lettera XII 10-11} Lettera tredicesima 10-11 [10] Sed iam debeo epistulam includere. 'Sic' inquis 'sine ullo ad me peculio veniet?' Noli timere: aliquid secum fert. Quare aliquid dixi? multum. Quid enim hac voce praeclarius quam illi trado ad te perferendam? 'Malum est in necessitate vivere, sed in necessitate vivere necessitas nulla est.' Quidni nulla sit? patent undique ad libertatem viae multae, breves faciles. Agamus deo gratias quod nemo in vita teneri potest: calcare ipsas necessitates licet. [11] 'Epicurus' inquis 'dixit: quid tibi cum alieno?' Quod verum est meum est; perseverabo Epicurum tibi ingerere, ut isti qui in verba iurant nec quid dicatur aestimant, sed a quo, sciant quae optima sunt esse communia. Vale. 10 Devo ormai concludere la lettera. "Così", dici, "mi arriverà senza nessun regalo." Non temere: porta qualcosa con sé. Che dico? Qualcosa? Dovevo dire: molto. Che c'è di più nobile della massima che le affido da riferirti? "Vivere nel bisogno è un male, ma non c'è nessuna necessità di vivere nel bisogno." E perché non c'è? Da ogni parte ci sono molte strade aperte, brevi e facili, verso la libertà. Ringraziamo dio perché nessuno è costretto a rimanere in vita: possiamo calpestare anche le necessità. 11 "Questo lo ha detto Epicuro," ribatti, "che hai a che fare con un estraneo?" Ciò che è vero è anche mio. Continuerò a citarti Epicuro, perché coloro che giurano sulle parole e non tengono conto del loro significato, ma della provenienza, sappiano che le cose migliori sono patrimonio comune. Stammi bene.

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