SENECA - Lettere a Lucilio Libro V - Testo latino e traduzione

Lettere a Lucilio Seneca V

L. Annaei Senecae Epistularum Moralium ad Lucilium V

Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione 

L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM
LETTERE A -
LIBER QUINTUS - LIBRO QUINTO

 

XLII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Iam tibi iste persuasit virum se bonum esse? Atqui vir bonus tam cito nec fieri potest nec intellegi. Scis quem nunc virum bonum dicam? hunc secundae notae; nam ille alter fortasse tamquam phoenix semel anno quingentesimo nascitur. Nec est mirum ex intervallo magna generari: mediocria et in turbam nascentia saepe fortuna producit, eximia vero ipsa raritate commendat. [2] Sed iste multum adhuc abest ab eo quod profitetur; et si sciret quid esset vir bonus, nondum esse se crederet, fortasse etiam fieri posse desperaret. 'At male existimat de malis.' Hoc etiam mali faciunt, nec ulla maior poena nequitiaest quam quod sibi ac suis displicet. [3] 'At odit eos qui subita et magna potentia impotenter utuntur.' Idem faciet cum idem potuerit. Multorum quia imbecilla sunt latent vitia, non minus ausura cum illis vires suae placuerint quam illa quae iam felicitas aperuit. Instrumenta illis explicandae nequitiae desunt. [4] Sic tuto serpens etiam pestifera tractatur dum riget frigore: non desunt tunc illi venena sed torpent. Multorum crudelitas et ambitio et luxuria, ut paria pessimis audeat, fortunae favore deficitur. Eadem velle [subaudi si] cognosces: da posse quantum volunt. [5] Meministi, cum quendam affirmares esse in tua potestate, dixisse me volaticum esse ac levem et te non pedem eius tenere sed pinnam? Mentitus sum: pluma tenebatur, quam remisit et fugit. Scis quos postea tibi exhibuerit ludos, quam multa in caput suum casura temptaverit. Non videbat se per aliorum pericula in suum ruere non cogitabat quam onerosa essent quae petebat, etiam si supervacua non essent.
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1 Costui è già riuscito a convincerti di essere un uomo virtuoso? Ma non si può diventare, e nemmeno si può riconoscere tanto presto un uomo virtuoso. E sai che uomo virtuoso intendo ora? Quello di seconda qualità; l'altro perfetto, infatti, nasce forse, come la Fenice, una volta ogni cinquecento anni. E non c'è da stupirsi che le grandi cose siano generate a distanza di anni: la sorte produce spesso mediocrità destinate alla massa, ma alle cose straordinarie dà pregio il fatto stesso di essere rare. 2 Costui è ancora molto lontano dal punto in cui si dichiara di essere arrivato; e se sapesse veramente che cosa è un uomo virtuoso, non si riterrebbe ancora tale, e forse dispererebbe anche di poterlo diventare. "Ma egli giudica male i malvagi." Questo lo fanno i malvagi stessi: la punizione più grande per l'uomo perverso consiste nel dispiacere a sé e ai suoi. 3 "Ma detesta le persone che abusano di un'improvvisa e grande potenza." Quando avrà lo stesso potere, agirà nello stesso modo. I vizi di molta gente rimangono nascosti perché sono deboli; quando avranno forze sufficienti, la loro audacia sarà pari a quella dei vizi che la prosperità ha reso già manifesti. A gente del genere mancano i mezzi per mettere in pratica la loro perversità. 4 Così un serpente, anche se è velenoso, lo si può toccare senza rischi, mentre è insensibile per il freddo: non gli manca il veleno, ma è intorpidito. A molti uomini crudeli, ambiziosi, sfrenati, manca il favore della sorte perché osino comportarsi come gli individui più infami. Hanno i medesimi intenti: da' loro la possibilità di fare quanto vogliono e te ne renderai conto. 5 Ricordi? Quando affermavi che quel tale era in tuo potere, io ti dissi che era volubile, incostante e che tu non lo tenevi per un piede, ma per un'ala. Mi sono sbagliato: lo tenevi per una piuma, te l'ha lasciata in mano ed è fuggito. Sai che brutti scherzi ti ha giocato dopo e quante cattiverie ha tentato, che dovevano poi ricadere su di lui. Non si accorgeva che, danneggiando gli altri, correva verso la propria rovina; non pensava quanto fosse gravoso quello cui aspirava, anche se avesse dato dei frutti.
[6] Hoc itaque in his quae affectamus, ad quae labore magno contendimus, inspicere debemus, aut nihil in illis commodi esse aut plus incommodi: quaedam supervacua sunt, quaedam tanti non sunt. Sed hoc non pervidemus et gratuita nobis videntur quae carissime constant. [7] Ex eo licet stupor noster appareat, quod ea sola putamus emi pro quibus pecuniam solvimus, ea gratuita vocamus pro quibus nos ipsos impendimus. Quae emere nollemus si domus nobis nostra pro illis esset danda, si amoenum aliquod fructuosumve praedium, ad ea paratissimi sumus pervenire cum sollicitudine, cum periculo, cum iactura pudoris et libertatis et temporis; adeo nihil est cuique se vilius. [8] Idem itaque in omnibus consiliis rebusque faciamus quod solemus facere quotiens ad institorem alicuius mercis accessimus: videamus hoc quod concupiscimus quanti deferatur. Saepe maximum pretium est pro quo nullum datur. Multa possum tibi ostendere quae acquisita acceptaque libertatem nobis extorserint; nostri essemus, si ista nostra non essent. [9] Haec ergo tecum ipse versa, non solum ubi de incremento agetur, sed etiam ubi de iactura. 'Hoc periturum est.' Nempe adventicium fuit; tam facile sine isto vives quam vixisti. Si diu illud habuisti, perdis postquam satiatus es; si non diu, perdis antequam assuescas. 'Pecuniam minorem habebis.' Nempe et molestiam. [10] 'Gratiam minorem.' Nempe et invidiam. Circumspice ista quae nos agunt in insaniam, quae cum plurimis lacrimis amittimus: scies non damnum in iis molestum esse, sed opinionem damni. Nemo illa perisse sentit sed cogitat. Qui se habet nihil perdidit: sed quoto cuique habere se contigit? Vale.
6 Perciò nelle mete che ci prefiggiamo e a cui tendiamo con grande sforzo, dobbiamo osservare che non c'è nessun vantaggio o che gli svantaggi sono superiori; alcune sono superflue, altre non meritano tanto impegno. Ma di questo non ci accorgiamo e ci sembrano gratuite cose che, invece, paghiamo a carissimo prezzo. 7 La nostra insensatezza è evidente: secondo noi compriamo unicamente ciò per cui sborsiamo del denaro, e definiamo gratuito quello per cui paghiamo di persona. Cose che non vorremmo acquistare se per averle dovessimo dar in cambio la nostra casa o un podere ridente e fertile, siamo prontissimi a procurarcele a prezzo di preoccupazioni, di rischi, di disonore, perdendo libertà e tempo: a tal punto ciascuno di noi non tiene niente in minor conto di se stesso. 8 Perciò al momento di decidere in ogni circostanza dobbiamo comportarci come quando andiamo da un mercante: chiediamo il prezzo della merce che ci interessa. Spesso una cosa per la quale non si sborsa niente ha un prezzo altissimo. Te ne potrei indicare molte che, una volta acquisite e accettate, ci hanno tolto la libertà; saremmo ancora padroni di noi stessi, se non fossero diventate nostre. 9 Fa', dunque, queste considerazioni, non solo quando è in ballo un guadagno, ma anche una perdita. "Questo andrà perduto." In realtà è un bene venuto dall'esterno, senza di esso vivrai bene come hai vissuto fin'ora. Se ne hai goduto a lungo, lo perdi dopo essertene saziato; se no, lo perdi prima di averci fatto l'abitudine. "Avrai meno denaro", e senz'altro anche meno fastidi. "Meno prestigio", e anche minore invidia. 10 Guarda quei beni che ci portano alla pazzia e sulla cui perdita versiamo un mare di lacrime: ti renderai conto che non è gravosa la loro perdita, ma il ritenerla tale. Per la loro mancanza non si soffre, si crede di soffrire. Chi è padrone di sé non perde niente: ma a quanti capita di essere padroni di sé? Stammi bene.{mospagebreak}
XLIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Quomodo hoc ad me pervenerit quaeris, quis mihi id te cogitare narraverit quod tu nulli narraveras? Is qui scit plurimum, rumor. 'Quid ergo?' inquis 'tantus sum ut possim excitare rumorem?' Non est quod te ad hunc locum respiciens metiaris: ad istum respice in quo moraris. [2] Quidquid inter vicina eminet magnum est illic ubi eminet; nam magnitudo non habet modum certum: comparatio illam aut tollit aut deprimit. Navis quae in flumine magna est in mari parvula est; gubernaculum quod alteri navi magnum alteri exiguum est. [3] Tu nunc in provincia, licet contemnas ipse te, magnus es. Quid agas, quemadmodum cenes, quemadmodum dormias, quaeritur, scitur: eo tibi diligentius vivendum est. Tunc autem felicem esse te iudica cum poteris in publico vivere, cum te parietes tui tegent, non abscondent, quos plerumque circumdatos nobis iudicamus non ut tutius vivamus, sed ut peccemus occultius. [4] Rem dicam ex qua mores aestimes nostros: vix quemquam invenies qui possit aperto ostio vivere. Ianitores conscientia nostra, non superbia opposuit: sic vivimus ut deprendi sit subito aspici. Quid autem prodest recondere se et oculos hominum auresque vitare? [5] Bona conscientia turbam advocat, mala etiam in solitudine anxia atque sollicita est. Si honesta sunt quae facis, omnes sciant; si turpia, quid refert neminem scire cum tu scias? O te miserum si contemnis hunc testem! Vale.
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1 Chiedi come mi sia arrivata questa notizia, chi mi abbia raccontato i tuoi pensieri, che tu non avevi confidato a nessuno? Lo ha fatto chi sa tutto, la voce pubblica. "Come? sono così importante da suscitare le chiacchiere della gente?" Non devi misurarti in base a Roma, ma al luogo in cui risiedi. 2 Tutto quello che si distingue da quanto lo circonda, è grande in quell'ambito; la grandezza non ha una misura determinata: il confronto la innalza o la diminuisce. Un'imbarcazione che sul fiume sembra grande, diventa piccola in mare; un timone, grande per una nave, è piccolo per un'altra. 3 Ora tu in provincia, anche se ti sminuisci, sei grande. La gente vuol sapere, e sa, che cosa fai, come pranzi, come dormi: devi perciò vivere con più cautela. Ritieniti felice solo quando potrai vivere in pubblico, quando le pareti serviranno a ripararti, non a nasconderti; di solito, invece, pensiamo di averle intorno non per una nostra maggiore sicurezza, ma per nascondere meglio i nostri peccati. 4 Ti dirò una cosa dalla quale potrai giudicare la nostra moralità: non ti sarà facile trovare uno in grado di vivere con la porta aperta. I guardiani di fronte alle porte di casa non ce li ha fatti mettere la superbia, ma la nostra cattiva coscienza: viviamo in modo tale che essere visti all'improvviso significa essere colti in fallo. Ma a che serve nascondersi ed evitare gli occhi e le orecchie del prossimo? 5 La buona coscienza chiama a sé la gente, quella cattiva è ansiosa e preoccupata anche in solitudine. Se le tue azioni sono oneste, le sappiano tutti; se vergognose, che importa che nessuno le conosca, se tu le conosci? Povero te, se non tieni conto di questo testimone! Stammi bene.{mospagebreak}
XLIV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Iterum tu mihi te pusillum facis et dicis malignius tecum egisse naturam prius, deinde fortunam, cum possis eximere te vulgo et ad felicitatem hominum maximam emergere. Si quid est aliud in philosophia boni, hoc est, quod stemma non inspicit; omnes, si ad originem primam revocantur, a dis sunt. [2] Eques Romanus es, et ad hunc ordinem tua te perduxit industria; at mehercules multis quattuordecim clausa sunt, non omnes curia admittit, castra quoque quos ad laborem et periculum recipiant fastidiose legunt: bona mens omnibus patet, omnes ad hoc sumus nobiles. Nec reicit quemquam philosophia nec eligit: omnibus lucet. [3] Patricius Socrates non fuit; Cleanthes aquam traxit et rigando horto locavit manus; Platonem non accepit nobilem philosophia sed fecit: quid est quare desperes his te posse fieri parem? Omnes hi maiores tui sunt, si te illis geris dignum; geres autem, si hoc protinus tibi ipse persuaseris, a nullo te nobilitate superari. [4] Omnibus nobis totidem ante nos sunt; nullius non origo ultra memoriam iacet. Platon ait neminem regem non ex servis esse oriundum, neminem non servum ex regibus. Omnia ista longa varietas miscuit et sursum deorsum fortuna versavit. [5] Quis est generosus? ad virtutem bene a natura compositus. Hoc unum intuendum est: alioquin si ad vetera revocas, nemo non inde est ante quod nihil est. A primo mundi ortu usque in hoc tempus perduxit nos ex splendidis sordidisque alternata series. Non facit nobilem atrium plenum fumosis imaginibus; nemo in nostram gloriam vixit nec quod ante nos fuit nostrum est: animus facit nobilem, cui ex quacumque condicione supra fortunam licet surgere. [6] Puta itaque te non equitem Romanum esse sed libertinum: potes hoc consequi, ut solus sis liber inter ingenuos. 'Quomodo?' inquis. Si mala bonaque non populo auctore distineris. Intuendum est non unde veniant, sed quo eant. Si quid est quod vitam beatam potest facere, id bonum est suo iure; depravari enim in malum non potest. [7] Quid est ergo in quo erratur, cum omnes beatam vitam optent? quod instrumenta eius pro ipsa habent et illam dum petunt fugiunt. Nam cum summa vitae beatae sit solida securitas et eius inconcussa fiducia, sollicitudinis colligunt causas et per insidiosum iter vitae non tantum ferunt sarcinas sed trahunt; ita longius ab effectu eius quod petunt semper abscedunt et quo plus operae impenderunt, hoc se magis impediunt et feruntur retro. Quod evenit in labyrintho properantibus: ipsa illos velocitas implicat. Vale.
44 1 Di nuovo ti fai piccolo ai miei occhi e dici che la natura prima e la sorte poi si sono comportate piuttosto male con te, e invece, potresti tirarti fuori dalla massa e innalzarti alla più grande felicità umana. La filosofia ha, tra l'altro, questo di buono: non guarda all'albero genealogico: tutti, se si rifanno alla loro prima origine, discendono dagli dèi. 2 Tu sei un cavaliere romano e a questo ceto ti ha condotto la tua laboriosità; sono molti a non avere diritto alle prime quattordici file e il senato non accoglie tutti; anche nell'àmbito militare gli uomini destinati a imprese faticose e piene di pericoli si scelgono dopo un severo esame: la saggezza, invece, è accessibile a tutti, tutti siamo sufficientemente nobili per raggiungerla. La filosofia non respinge, non sceglie nessuno: splende per tutti. 3 Socrate non era patrizio; Cleante attingeva l'acqua e irrigava lui stesso il giardino; la filosofia non ha accolto Platone già nobile, ma lo ha reso tale: perché disperi di poter diventare pari a loro? Sono tutti tuoi antenati, se ne sarai degno; e lo sarai, se ti convincerai sùbito che nessuno è più nobile di te. 4 Tutti noi abbiamo un ugual numero di avi; la nostra origine va oltre la memoria umana. Platone sostiene che non c'è re che non discenda da schiavi e schiavo che non discenda da re. Vicende alterne nel corso dei secoli hanno sconvolto tutte queste categorie e la fortuna le ha sovvertite. 5 Chi è nobile? Chi dalla natura è stato ben disposto alla virtù. Bisogna guardare solo a questo: altrimenti, se ci rifacciamo ai tempi antichi, tutti provengono da un punto prima del quale non c'è niente. Una serie alterna di splendori e miserie ci ha condotto dalla prima origine del mondo fino ai nostri tempi. Non ci rende nobili un ingresso pieno di ritratti anneriti dal tempo; nessuno è vissuto per nostra gloria e non ci appartiene quello che è stato prima di noi: ci rende nobili l'anima, che da qualunque condizione può ergersi al di sopra della fortuna. 6 Immagina, dunque, di essere non un cavaliere romano, ma un liberto: puoi ottenere di essere il solo uomo libero tra uomini nati liberi. "Come?" mi chiedi. Se distinguerai il male e il bene senza seguire il parere della massa. Bisogna considerare non l'origine, ma il fine delle cose. Se ce n'è qualcuna che può rendere felice la vita, è un bene di per sé; non può infatti, degenerare in un male. 7 Qual è, allora, lo sbaglio che si fa, visto che tutti desiderano la felicità? Gli uomini la confondono con i mezzi per raggiungerla e mentre la ricercano, ne fuggono lontano. Il culmine di una vita felice è una sicura tranquillità e una inalterata fiducia in essa, e invece tutti raccolgono motivi di inquietudine e portano, anzi trascinano, il loro carico attraverso l'insidioso cammino della vita; così si allontanano sempre di più dallo scopo al quale tendono e, più si danno da fare, più si creano impedimenti e retrocedono. Lo stesso accade a chi cerca di avanzare in fretta in un labirinto: la velocità stessa lo ostacola. Stammi bene.{mospagebreak}
XLV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Librorum istic inopiam esse quereris. Non refert quam multos sed quam bonos habeas: lectio certa prodest, varia delectat. Qui quo destinavit pervenire vult unam sequatur viam, non per multas vagetur: non ire istuc sed errare est. [2] 'Vellem' inquis ' magis consilium mihi quam libros dares.' Ego vero quoscumque habeo mittere paratus sum et totum horreum excutere; me quoque isto, si possem, transferrem, et nisi mature te finem officii sperarem impetraturum, hanc senilem expeditionem indixissem mihi nec me Charybdis et Scylla et fabulosum istud fretum deterrere potuissent. Tranassem ista, non solum traiecissem, dummodo te complecti possem et praesens aestimare quantum animo crevisses.
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1 Ti lamenti che lì a Siracusa ci siano pochi libri. Non importa il loro numero, ma il loro valore: una lettura ben determinata è utile, quella condotta su svariate opere può solo divertire. Se uno vuole arrivare a destinazione, deve seguire una sola strada, non vagare qua e là: questo non è avanzare, ma andare errando. 2 "Vorrei,", dici, "che tu mi dessi più libri che consigli." Io sono pronto a mandarti tutti i volumi che ho e a vuotare la biblioteca; anzi, se potessi, mi trasferirei anch'io lì da te e, se non sperassi che otterrai presto di lasciare il tuo incarico, avrei già organizzato questa spedizione senile, e non mi avrebbero potuto spaventare Scilla e Cariddi e codesto mitico mare. Lo avrei attraversato addirittura a nuoto, pur di poterti abbracciare e constatare di persona i tuoi progressi spirituali.
[3] Ceterum quod libros meos tibi mitti desideras, non magis ideo me disertum puto quam formonsum putarem si imaginem meam peteres. Indulgentiae scio istud esse, non iudici; et si modo iudici est, indulgentia tibi imposuit. [4] Sed qualescumque sunt, tu illos sic lege tamquam verum quaeram adhuc, non sciam, et contumaciter quaeram. Non enim me cuiquam emancipavi, nullius nomen fero; multum magnorum virorum iudicio credo, aliquid et meo vindico. Nam illi quoque non inventa sed quaerenda nobis reliquerunt, et invenissent forsitan necessaria nisi et supervacua quaesissent. [5] Multum illis temporis verborum cavillatio eripuit, captiosae disputationes quae acumen irritum exercent. Nectimus nodos et ambiguam significationem verbis illigamus ac deinde dissolvimus: tantum nobis vacat? iam vivere, iam mori scimus? Tota illo mente pergendum est ubi provideri debet ne res nos, non verba decipiant. [6] Quid mihi vocum similitudines distinguis, quibus nemo umquam nisi dum disputat captus est? Res fallunt: illas discerne. Pro bonis mala amplectimur; optamus contra id quod optavimus; pugnant vota nostra cum votis, consilia cum consilis. [7] Adulatio quam similis est amicitiae! Non imitatur tantum illam sed vincit et praeterit; apertis ac propitiis auribus recipitur et in praecordia ima descendit, eo ipso gratiosa quo laedit: doce quemadmodum hanc similitudinem possim dinoscere. Venit ad me pro amico blandus inimicus; vitia nobis sub virtutum nomine obrepunt: temeritas sub titulo fortitudinis latet, moderatio vocatur ignavia, pro cauto timidus accipitur. In his magno periculo erramus: his certas notas imprime. [8] Ceterum qui interrogatur an cornua habeat non est tam stultus ut frontem suam temptet, nec rursus tam ineptus aut hebes ut nesciat tu illi subtilissima collectione persuaseris. Sic ista sine noxa decipiunt quomodo praestigiatorum acetabula et calculi, in quibus me fallacia ipsa delectat. Effice ut quomodo fiat intellegam: perdidi lusum. Idem de istis captionibus dico - quo enim nomine potius sophismata appellem? -: nec ignoranti nocent nec scientem iuvant.
3 Certo non mi giudico più facondo, perché mi chiedi di mandarti i miei libri, di quanto non mi considererei bello se tu mi chiedessi il mio ritratto. So che questa richiesta è dettata da benevolenza, non da un giudizio ponderato; e se pure nasce da un giudizio, te lo ha imposto la tua indulgenza. 4 Ma quali che siano, tu leggili tenendo presente che ancòra cerco la verità: non la posseggo e la cerco ostinatamente. Non mi sono fatto servo di nessuno, non porto il nome di nessuno; ho stima dell'opinione di molti grandi uomini, ma rivendico qualche diritto anche al mio pensiero. Loro stessi ci hanno lasciato verità non ancora scoperte, da ricercare, e avrebbero trovato forse le spiegazioni necessarie, se non avessero ricercato anche quelle superflue. 5 Hanno sottratto loro molto tempo le conversazioni cavillose e le dispute capziose, vano esercizio di acutezza. Intrecciamo nodi e leghiamo alle parole significati ambigui e poi li sciogliamo: abbiamo proprio tanto tempo? Sappiamo ormai vivere, sappiamo morire? Dobbiamo cercare con tutta la nostra intelligenza di non farci ingannare non tanto dalle parole, quanto dalle cose. 6 Perché fare distinzione tra parole simili, da cui nessuno è tratto in inganno, se non in una disputa? È la realtà che ci inganna; qui servono le distinzioni. Noi abbracciamo il male credendolo il bene; formuliamo desideri contrari a quelli precedenti; le nostre preghiere, le nostre decisioni sono in contrasto tra loro. 7 Quanto è simile l'adulazione all'amicizia! Non solo la imita, ma la vince e la supera; trova orecchie ben disposte e pronte a recepirla, e scende nel più profondo dell'anima, resa gradita proprio da ciò che reca danno: insegnami come posso distinguerle nonostante la loro somiglianza. Mi si presenta un nemico pieno di lusinghe spacciandosi per amico; si insinuano in noi i vizi sotto l'apparenza di virtù: la temerità si nasconde sotto le spoglie del valore, l'ignavia si chiama moderazione, il vile viene considerato prudente. Questi errori di giudizio rappresentano per noi un grave pericolo: su queste false apparenze imprimi un marchio sicuro. 8 D'altra parte, se uno si sente chiedere se ha le corna, non è tanto sciocco da toccarsi la fronte, e nemmeno è tanto stupido o ottuso da non saperlo, a meno che tu non lo abbia convinto con qualche sottile argomentazione. Così questi giochetti non sono dannosi, come i bussolotti e le pietruzze dei prestigiatori che divertono proprio per i loro trucchi. Svelami il meccanismo e il divertimento è finito. Lo stesso dico di questi cavilli (e come potrei chiamarli invece che sofismi?): non nuoce ignorarli, non serve conoscerli.
[9] Si utique vis verborum ambiguitates diducere, hoc nos doce, beatum non eum esse quem vulgus appellat, ad quem pecunia magna confluxit, sed illum cui bonum omne in animo est, erectum et excelsum et mirabilia calcantem, qui neminem videt cum quo se commutatum velit, qui hominem ea sola parte aestimat qua homo est, qui natura magistra utitur, ad illius leges componitur, sic vivit quomodo illa praescripsit; cui bona sua nulla vis excutit, qui mala in bonum vertit, certus iudicii, inconcussus, intrepidus; quem aliqua vis movet, nulla perturbat; quem fortuna, cum quod habuit telum nocentissimum vi maxima intorsit, pungit, non vulnerat, et hoc raro; nam cetera eius tela, quibus genus humanum debellatur, grandinis more dissultant, quae incussa tectis sine ullo habitatoris incommodo crepitat ac solvitur. [10] Quid me detines in eo quem tu ipse pseudomenon appellas, de quo tantum librorum compositum est? Ecce tota mihi vita mentitur: hanc coargue, hanc ad verum, si acutus es, redige. Necessaria iudicat quorum magna pars supervacua est; etiam quae non est supervacua nihil in se momenti habet in hoc, ut possit fortunatum beatumque praestare. Non enim statim bonum est, si quid necessarium est: aut proicimus bonum, si hoc nomen pani et polentae damus et ceteris sine quibus vita non ducitur. [11] Quod bonum est utique necessarium est: quod necessarium est non utique bonum est, quoniam quidem necessaria sunt quaedam eademque vilissima. Nemo usque eo dignitatem boni ignorat ut illud ad haec in diem utilia demittat. [12] Quid ergo? non eo potius curam transferes, ut ostendas omnibus magno temporis impendio quaeri supervacua et multos transisse vitam dum vitae instrumenta conquirunt? Recognosce singulos, considera universos: nullius non vita spectat in crastinum. [13] Quid in hoc sit mali quaeris? Infinitum. Non enim vivunt sed victuri sunt: omnia differunt. Etiamsi attenderemus, tamen nos vita praecurreret; nunc vero cunctantes quasi aliena transcurrit et ultimo die finitur, omni perit. Sed ne epistulae modum excedam, quae non debet sinistram manum legentis implere, in alium diem hanc litem cum dialecticis differam nimium subtilibus et hoc solum curantibus, non et hoc. Vale.
9 Se vuoi sciogliere del tutto l'ambiguità delle parole, insegnaci che non è felice l'uomo definito tale dalla massa, e che dispone di molto denaro, ma quello che possiede ogni suo bene nell'intimo e si erge fiero e nobile calpestando ciò che desta l'ammirazione degli altri; che non trova nessuno con cui vorrebbe cambiarsi; che stima un uomo per quella sola parte per cui è uomo; che si avvale del magistero della natura, si uniforma alle sue leggi e vive secondo le sue regole; l'uomo al quale nessuna forza può strappare i propri beni, che volge il male in bene, sicuro nei giudizi, costante, intrepido; che una qualche forza può scuotere, nessuna può turbare; che la sorte, quando gli scaglia contro la sua arma più micidiale con la massima violenza, riesce a pungere, e raramente, ma non a ferire; le altre armi, con cui la fortuna prostra il genere umano, rimbalzano come la grandine, che battendo sui tetti senza causare danni agli inquilini, crepita e si scioglie. 10 Ma perché mi trattieni su un tema che tu stesso definisci capzioso, e che è argomento di tanti libri? Ecco, per me tutta la vita è un inganno: mostrane le menzogne, riconducila alla verità, se hai acume. Essa giudica necessari beni per la maggior parte superflui; ma anche quelli che non sono superflui non hanno il potere di renderci fortunati e felici. Ciò che è necessario non per questo è senz'altro un bene: oppure sviliamo il concetto di bene se diamo questo nome al pane, alla polenta e alle altre cose senza le quali non si tira avanti. 11 Ciò che è un bene è senz'altro necessario: ciò che è necessario non è senz'altro un bene, perché sono necessarie anche cose di scarsissimo valore. Nessuno ignora a tal punto la dignità del bene da abbassarlo al livello di queste cose utili all'uso quotidiano. 12 E allora? rivolgi piuttosto le tue cure a mostrare a tutti che si ricercano con grande dispendio di tempo beni superflui e che molti hanno trascorso la vita cercando i mezzi per viverla. Esamina gli uomini singolarmente, considerali tutti insieme: ognuno vive guardando al domani. 13 Chiedi che male c'è in questo atteggiamento? Un male grandissimo. Non vivono, ma sono in attesa di vivere: rimandano ogni cosa. Anche se badassimo a tutto, la vita ci precederebbe sempre; mentre noi indugiamo, passa oltre come se appartenesse ad altri e benché finisca con l'ultimo giorno, va scomparendo giorno per giorno. Ma per non superare la giusta misura di una lettera, che non deve riempire la mano sinistra di chi la legge, rimanderò a un altro momento questa disputa con i dialettici troppo sottili che badano solo alle minuzie e a niente altro. Stammi bene.
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XLVI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Librum tuum quem mihi promiseras accepi et tamquam lecturus ex commodo adaperui ac tantum degustare volui; deinde blanditus est ipse ut procederem longius. Qui quam disertus fuerit ex hoc intellegas licet: levis mihi visus est, cum esset nec mei nec tui corporis, sed qui primo aspectu aut Titi Livii aut Epicuri posset videri. Tanta autem dulcedine me tenuit et traxit ut illum sine ulla dilatione perlegerim. Sol me invitabat, fames admonebat, nubes minabantur; tamen exhausi totum. [2] Non tantum delectatus sed gavisus sum. Quid ingenii iste habuit, quid animi! Dicerem 'quid impetus!', si interquievisset, si intervallo surrexisset; nunc non fuit impetus sed tenor. Compositio virilis et sancta; nihilominus interveniebat dulce illud et loco lene. Grandis, erectus es: hoc te volo tenere, sic ire. Fecit aliquid et materia; ideo eligenda est fertilis, quae capiat ingenium, quae incitet. [3] libro plura scribam cum illum retractavero; nunc parum mihi sedet iudicium, tamquam audierim illa, non legerim. Sine me et inquirere. Non est quod verearis: verum audies. O te hominem felicem, quod nihil habes propter quod quisquam tibi tam longe mentiatur! nisi quod iam etiam ubi causa sublata est mentimur consuetudinis causa. Vale.
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1 Ho ricevuto quel tuo libro che mi avevi promesso; l'ho aperto deciso a leggerlo con comodo e con l'intenzione di prenderne solo un assaggio; ma poi mi ha invitato ad andare avanti. È scritto bene e puoi capirlo da questo: mi è parso gradevole, pur non essendo della mia o della tua statura, ma tale da sembrare a una prima occhiata o di Tito Livio o di Epicuro. Mi ha attratto e mi ha assorbito tanto che l'ho letto tutto d'un fiato fino alla fine. Il sole mi invitava, la fame si faceva sentire, le nuvole comparivano minacciose; ma io l'ho divorato tutto. 2 E non ho provato solo diletto, ma addirittura godimento. Ne ha avuto ingegno l'autore, e anche spirito! Direi, "che impeto!" , se avesse fatto qualche pausa, se si fosse innalzato a intervalli; ma non ha proceduto per slanci, bensì con andatura costante: un disegno virile e venerando; nondimeno compariva a tratti un tono dolce e pacato. Sei grande e fiero: voglio che tu continui ad avanzare per questa strada. Anche l'argomento ha avuto il suo peso; perciò bisogna sceglierlo fertile, che occupi la mente, che la sproni. 3 Scriverò ancora sul libro quando lo riprenderò in mano; ora mi sono formato un giudizio incompleto, come se avessi ascoltato e non letto quei concetti. Lascia che lo esamini più a fondo. Non temere, udrai la verità. Beato te: non dài motivo perché qualcuno ti menta da una tale distanza! Per quanto, ormai, si menta per abitudine anche senza ragione. Stammi bene.{mospagebreak}
XLVII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt ' Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. [3] At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. [5] Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus. Alia interim crudelia, inhumana praetereo, quod ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis abutimur. [quod] Cum ad cenandum discubuimus, alius sputa deterget, alius reliquias temulentorum subditus colligit. [6] Alius pretiosas aves scindit; per pectus et clunes certis ductibus circumferens eruditam manum frusta excutit, infelix, qui huic uni rei vivit, ut altilia decenter secet, nisi quod miserior est qui hoc voluptatis causa docet quam qui necessitatis discit. [7] Alius vini minister in muliebrem modum ornatus cum aetate luctatur: non potest effugere pueritiam, retrahitur, iamque militari habitu glaber retritis pilis aut penitus evulsis tota nocte pervigilat, quam inter ebrietatem domini ac libidinem dividit et in cubiculo vir, in convivio puer est. [8] Alius, cui convivarum censura permissa est, perstat infelix et exspectat quos adulatio et intemperantia aut gulae aut linguae revocet in crastinum. Adice obsonatores quibus dominici palati notitia subtilis est, qui sciunt cuius illum rei sapor excitet, cuius delectet aspectus, cuius novitate nauseabundus erigi possit, quid iam ipsa satietate fastidiat, quid illo die esuriat. Cum his cenare non sustinet et maiestatis suae deminutionem putat ad eandem mensam cum servo suo accedere. Di melius! quot ex istis dominos habet! [9] Stare ante limen Callisti domi num suum vidi et eum qui illi impegerat titulum, qui inter reicula manicipia produxerat, aliis intrantibus excludi. Rettulit illi gratiam servus ille in primam decuriam coniectus, in qua vocem praeco experitur: et ipse illum invicem apologavit, et ipse non iudicavit domo sua dignum. Dominus Callistum vendidit: sed domino quam multa Callistus!
47 1 Ho sentito con piacere da persone provenienti da Siracusa che tratti familiarmente i tuoi servi: questo comportamento si confà alla tua saggezza e alla tua istruzione. "Sono schiavi." No, sono uomini. "Sono schiavi". No, vivono nella tua stessa casa. "Sono schiavi". No, umili amici. "Sono schiavi." No, compagni di schiavitù, se pensi che la sorte ha uguale potere su noi e su loro. 2 Perciò rido di chi giudica disonorevole cenare in compagnia del proprio schiavo; e per quale motivo, poi, se non perché è una consuetudine dettata dalla piú grande superbia che intorno al padrone, mentre mangia, ci sia una turba di servi in piedi? Egli mangia oltre la capacità del suo stomaco e con grande avidità riempie il ventre rigonfio ormai disavvezzo alle sue funzioni: è più affaticato a vomitare il cibo che a ingerirlo. 3 Ma a quegli schiavi infelici non è permesso neppure muovere le labbra per parlare: ogni bisbiglio è represso col bastone e non sfuggono alle percosse neppure i rumori casuali, la tosse, gli starnuti, il singhiozzo: interrompere il silenzio con una parola si sconta a caro prezzo; devono stare tutta la notte in piedi digiuni e zitti. 4 Così accade che costoro, che non possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura. 5 Inoltre, viene spesso ripetuto quel proverbio frutto della medesima arroganza: "Tanti nemici, quanti schiavi": loro non ci sono nemici, ce li rendiamo tali noi. Tralascio per ora maltrattamenti crudeli e disumani: abusiamo di loro quasi non fossero uomini, ma bestie. Quando ci mettiamo a tavola, uno deterge gli sputi, un altro, stando sotto il divano, raccoglie gli avanzi dei convitati ubriachi. 6 Uno scalca volatili costosi; muovendo la mano esperta con tratti sicuri attraverso il petto e le cosce, ne stacca piccoli pezzi; poveraccio: vive solo per trinciare il pollame come si conviene; ma è più sventurato chi insegna tutto questo per suo piacere di chi impara per necessità. 7 Un altro, addetto al vino, vestito da donna, lotta con l'età: non può uscire dalla fanciullezza, vi è trattenuto e, pur essendo ormai abile al servizio militare, glabro, con i peli rasati o estirpati alla radice, veglia tutta la notte, dividendola tra l'ubriachezza e la libidine del padrone, e fa da uomo in camera da letto e da servo durante il pranzo. 8 Un altro che ha il còmpito di giudicare i convitati, se ne sta in piedi, sventurato, e guarda quali persone dovranno essere chiamate il giorno dopo perché hanno saputo adulare e sono stati intemperanti nel mangiare o nei discorsi. Ci sono poi quelli che si occupano delle provviste: conoscono esattamente i gusti del padrone e sanno di quale vivanda lo stuzzichi il sapore, di quale gli piaccia l'aspetto, quale piatto insolito possa sollevarlo dalla nausea, quale gli ripugni quando è sazio, cosa desideri mangiare quel giorno. Il padrone, però non sopporta di mangiare con costoro e ritiene una diminuzione della sua dignità sedersi alla stessa tavola con un suo servo. Ma buon dio! quanti padroni ha tra costoro. 9 Ho visto stare davanti alla porta di Callisto il suo ex padrone e mentre gli altri entravano, veniva lasciato fuori proprio lui che gli aveva messo addosso un cartello di vendita e lo aveva presentato tra gli schiavi di scarto. Così quel servo che era stato messo tra i primi dieci in cui il banditore prova la voce, gli rese la pariglia: lo respinse a sua volta e non lo giudicò degno della sua casa. Il padrone vendette Callisto: ma Callisto come ha ripagato il suo padrone!


[10] Vis tu cogitare istum quem servum tuum vocas ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit: alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit. Contemne nunc eius fortunae hominem in quam transire dum contemnis potes.
10 Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l'uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu.
[11] Nolo in ingentem me locum immittere et de usu servorum disputare, in quos superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi sumus. Haec tamen praecepti mei summa est: sic cum inferiore vivas quemadmodum tecum superiorem velis vivere. Quotiens in mentem venerit quantum tibi in servum liceat, veniat in mentem tantundem in te domino tuo licere. [12] 'At ego' inquis 'nullum habeo dominum.' Bona aetas est: forsitan habebis. Nescis qua aetate Hecuba servire coeperit, qua Croesus, qua Darei mater, qua Platon, qua Diogenes? [13] Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum. 11 Non voglio cacciarmi in un argomento tanto impegnativo e discutere sul trattamento degli schiavi: verso di loro siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere. 12 "Ma io", ribatti, "non ho padrone." Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene? 13 Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui.
Hoc loco acclamabit mihi tota manus delicatorum 'nihil hac re humilius, nihil turpius'. Hos ego eosdem deprehendam alienorum servorum osculantes manum. [14] Ne illud quidem videtis, quam omnem invidiam maiores nostri dominis, omnem contumeliam servis detraxerint? Dominum patrem familiae appellaverunt, servos - quod etiam in mimis adhuc durat - familiares; instituerunt diem festum, non quo solo cum servis domini vescerentur, sed quo utique; honores illis in domo gerere, ius dicere permiserunt et domum pusillam rem publicam esse iudicaverunt. [15] 'Quid ergo? omnes servos admovebo mensae meae?' Non magis quam omnes liberos. Erras si existimas me quosdam quasi sordidioris operae reiecturum, ut puta illum mulionem et illum bubulcum. Non ministeriis illos aestimabo sed moribus: sibi quisque dat mores, ministeria casus assignat. Quidam cenent tecum quia digni sunt, quidam ut sint; si quid enim in illis ex sordida conversatione servile est, honestiorum convictus excutiet. [16] Non est, mi Lucili, quod amicum tantum in foro et in curia quaeras: si diligenter attenderis, et domi invenies. Saepe bona materia cessat sine artifice: tempta et experire. Quemadmodum stultus est qui equum empturus non ipsum inspicit sed stratum eius ac frenos, sic stultissimus est qui hominem aut ex veste aut ex condicione, quae vestis modo nobis circumdata est, aestimat. [17] 'Servus est.' Sed fortasse liber animo. 'Servus est.' Hoc illi nocebit? Ostende quis non sit: alius libidini servit, alius avaritiae, alius ambitioni, , omnes timori. Dabo consularem aniculae servientem, dabo ancillulae divitem, ostendam nobilissimos iuvenes mancipia pantomimorum: nulla servitus turpior est quam voluntaria. Quare non est quod fastidiosi isti te deterreant quominus servis tuis hilarem te praestes et non superbe superiorem: colant potius te quam timeant.
A questo punto tutta la schiera dei raffinati mi griderà: "Non c'è niente di più umiliante, niente di più vergognoso." Io, però potrei sorprendere proprio loro a baciare la mano di servi altrui. 14 E neppure vi rendete conto di come i nostri antenati abbiano voluto eliminare ogni motivo di astio verso i padroni e di oltraggio verso gli schiavi? Chiamarono padre di famiglia il padrone e domestici gli schiavi, appellativo che è rimasto nei mimi; stabilirono un giorno festivo, non perché i padroni mangiassero con i servi solo in quello, ma almeno in quello; concessero loro di occupare posti di responsabilità nell'ambito familiare, di amministrare la giustizia, e considerarono la casa un piccolo stato. 15 "E dunque? Inviterò alla mia tavola tutti gli schiavi?" Non più che tutti gli uomini liberi. Sbagli se pensi che respingerò qualcuno perché esercita un lavoro troppo umile, per esempio quel mulattiere o quel bifolco. Non li giudicherò in base al loro mestiere, ma in base alla loro condotta; della propria condotta ciascuno è responsabile, il mestiere, invece, lo assegna il caso. Alcuni siedano a mensa con te, perché ne sono degni, altri perché lo diventino; se c'è in loro qualche tratto servile derivante dal rapporto con gente umile, la dimestichezza con uomini più nobili lo eliminerà. 16 Non devi, caro Lucilio, cercare gli amici solo nel foro o nel senato: se farai attenzione, li troverai anche in casa. Spesso un buon materiale rimane inservibile senza un abile artefice: prova a farne esperienza. Se uno al momento di comprare un cavallo non lo esamina, ma guarda la sella e le briglie, è stupido; così è ancora più stupido chi giudica un uomo dall'abbigliamento e dalla condizione sociale, che ci sta addosso come un vestito. 17 "È uno schiavo." Ma forse è libero nell'animo. "È uno schiavo." E questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è: c'è chi è schiavo della lussuria, chi dell'avidità, chi dell'ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console servo di una vecchietta, un ricco signore servo di un'ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi: nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria. Perciò codesti schizzinosi non ti devono distogliere dall'essere cordiale con i tuoi servi senza sentirti superbamente superiore: più che temerti, ti rispettino.
[18] Dicet aliquis nunc me vocare ad pilleum servos et dominos de fastigio suo deicere, quod dixi, 'colant potius dominum quam timeant'. 'Ita' inquit 'prorsus? colant tamquam clientes, tamquam salutatores?' Hoc qui dixerit obliviscetur id dominis parum non esse quod deo sat est. Qui colitur, et amatur: non potest amor cum timore misceri. [19] Rectissime ergo facere te iudico quod timeri a servis tuis non vis, quod verborum castigatione uteris: verberibus muta admonentur. Non quidquid nos offendit et laedit; sed ad rabiem cogunt pervenire deliciae, ut quidquid non ex voluntate respondit iram evocet. [20] Regum nobis induimus animos; nam illi quoque obliti et suarum virium et imbecillitas alienae sic excandescunt, sic saeviunt, quasi iniuriam acceperint, a cuius rei periculo illos fortunae suae magnitudo tutissimos praestat. Nec hoc ignorant, sed occasionem nocendi captant querendo; acceperunt iniuriam ut facerent.
18 Qualcuno ora dirà che io incito gli schiavi alla rivolta e che voglio abbattere l'autorità dei padroni, perché ho detto "il padrone lo rispettino più che temerlo". "Proprio così?" chiederanno. "Lo rispettino come i clienti, come le persone che fanno la visita di omaggio?" Chi dice questo, dimentica che non è poco per i padroni quella reverenza che basta a un dio. Se uno è rispettato, è anche amato: l'amore non può mescolarsi al timore. 19 Secondo me, perciò tu fai benissimo a non volere che i tuoi servi ti temano e a correggerli solo con le parole: con la frusta si puniscono le bestie. Non tutto ciò che ci colpisce, ci danneggia; ma l'abitudine al piacere induce all'ira: tutto quello che non è come desideriamo, provoca la nostra collera. 20 Ci comportiamo come i sovrani: anche loro, dimentichi delle proprie forze e della debolezza altrui, danno in escandescenze e infieriscono, come se fossero stati offesi, mentre l'eccezionalità della loro sorte li mette completamente al sicuro dal pericolo di una simile evenienza. Lo sanno bene, ma, lamentandosi, cercano l'occasione per fare del male; dicono di essere stati oltraggiati per poter oltraggiare. [21] Diutius te morari nolo; non est enim tibi exhortatione opus. Hoc habent inter cetera boni mores: placent sibi, permanent. Levis est malitia, saepe mutatur, non in melius sed in aliud. Vale. 21 Non voglio trattenerti più a lungo; non hai bisogno di esortazioni. La rettitudine ha, tra gli altri, questo vantaggio: piace a se stessa ed è salda. La malvagità è incostante e cambia spesso, e non in meglio, ma in direzione diversa. Stammi bene. {mospagebreak}
XLVIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Ad epistulam quam mihi ex itinere misisti, tam longam quam ipsum iter fuit, postea rescribam; seducere me debeo et quid suadeam circumspicere. Nam tu quoque, qui consulis, diu an consuleres cogitasti: quanto magis hoc mihi faciendum est, cum longiore mora opus sit ut solvas quaestionem quam ut proponas? utique cum aliud tibi expediat, aliud mihi. [2] Iterum ego tamquam Epicureus loquor? mihi vero idem expedit quod tibi: aut non sum amicus, nisi quidquid agitur ad te pertinens meum est. Consortium rerum omnium inter nos facit amicitia; nec secundi quicquam singulis est nec adversi; in commune vivitur. Nec potest quisquam beate degere qui se tantum intuetur, qui omnia ad utilitates suas convertit: alteri vivas oportet, si vis tibi vivere. [3] Haec societas diligenter et sancte observata, quae nos homines hominibus miscet et iudicat aliquod esse commune ius generis humani, plurimum ad illam quoque de qua loquebar interiorem societatem amicitiae colendam proficit; omnia enim cum amico communia habebit qui multa cum homine.
Durante il tuo viaggio mi hai mandato una lettera lunga quanto il viaggio stesso: a questa risponderò in seguito; debbo starmene in disparte e meditare sui consigli da darti. Tu stesso che chiedi il mio parere, hai pensato a lungo se farlo: tanto più devo riflettere io: per risolvere i problemi è necessario un tempo maggiore che per proporli, specialmente se a te preme una cosa e a me un'altra. 2 Parlo di nuovo come un epicureo? In realtà a me preme la stessa cosa che a te: oppure non sarei un amico se tutto ciò che riguarda te non riguardasse pure me. L'amicizia mette tutto in comune tra noi; non c'è circostanza propizia o avversa che tocchi uno solo di noi; viviamo dividendo ogni cosa. Nessuno può vivere felice se bada solo a se stesso, se volge tutto al proprio utile: devi vivere per il prossimo, se vuoi vivere per te. 3 Questo vincolo, scrupolosamente e coscienziosamente rispettato, che unisce gli uomini tra loro e dimostra che esiste una legge comune per il genere umano, serve moltissimo anche per coltivare quella società interiore di cui parlavo: l'amicizia; se uno ha molto in comune con il prossimo, avrà tutto in comune con l'amico.
[4] Hoc, Lucili virorum optime, mihi ab istis subtilibus praecipi malo, quid amico praestare debeam, quid homini, quam quot modis 'amicus' dicatur, et 'homo' quam multa significet. In diversum ecce sapientia et stultitia discedunt! cui accedo? in utram ire partem iubes? Illi homo pro amico est, huic amicus non est pro homine; ille amicum sibi parat, hic se amico: tu mihi verba distorques et syllabas digeris. [5] Scilicet nisi interrogationes vaferrimas struxero et conclusione falsa a vero nascens mendacium adstrinxero, non potero a fugiendis petenda secernere. Pudet me: in re tam seria senes ludimus. [Vale. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM.]
Preferirei, mio ottimo Lucilio, che questi sottili argomentatori mi insegnassero che doveri ho verso un amico e verso gli uomini, piuttosto che in quanti modi si possa dire "amico" e quanti significati abbia la parola "uomo". Ecco, la saggezza e la stoltezza vanno in direzioni opposte! A quale devo accostarmi? Da quale parte mi consigli di andare? Per il saggio, uomo significa amico, per lo stolto, amico non significa neppure uomo; l'uno si procura un amico, l'altro si offre all'amico: loro mi storpiano le parole e le dividono in sillabe. 5 Naturalmente se non avrò preparato argomentazioni sottilissime e non avrò fatto nascere, con una falsa conclusione, una menzogna dalla verità, non potrò distinguere le cose da ricercare da quelle da fuggire! Mi vergogno: siamo vecchi e scherziamo su una questione tanto seria.
[6] 'Mus syllaba est; mus autem caseum rodit; syllaba ergo caseum rodit.' Puta nunc me istuc non posse solvere: quod mihi ex ista inscientia periculum imminet? quod incommodum? Sine dubio verendum est ne quando in muscipulo syllabas capiam, aut ne quando, si neglegentior fuero, caseum liber comedat. Nisi forte illa acutior est collectio: 'mus syllaba est; syllaba autem caseum non rodit; mus ergo caseum non rodit'. [7] O pueriles ineptias! in hoc supercilia subduximus? in hoc barbam demisimus? hoc est quod tristes docemus et pallidi? Vis scire quid philosophia promittat generi humano? consilium. Alium mors vocat, alium paupertas urit, alium divitiae vel alienae torquent vel suae; ille malam fortunam horret, hic se felicitati suae subducere cupit; hunc homines male habent, illum dii. Quid mihi lusoria ista componis? non est iocandi locus: ad miseros advocatus es. Opem laturum te naufragis, captis, aegris, egentibus, intentae securi subiectum praestantibus caput pollicitus es: quo diverteris? quid agis? Hic cum quo ludis timet: succurre, quidquid ‰laqueti respondentium poenis‰. Omnes undique ad te manus tendunt, perditae vitae perituraeque auxilium aliquod implorant, in te spes opesque sunt; rogant ut ex tanta illos volutatione extrahas, ut disiectis et errantibus clarum veritatis lumen ostendas. [9] Dic quid natura necessarium fecerit, quid supervacuum, quam faciles posuerit, quam iucunda sit vita, quam expedita illas sequentibus, quam acerba et implicita eorum qui opinioni plus quam naturae crediderunt *** si prius docueris quam partem eorum levatura sint. Quid istorum cupiditates demit? quid temperat? Utinam tantum non prodessent! nocent. Hoc tibi cum voles manifestissimum faciam, comminui et debilitari generosam indolem in istas argutias coniectam. [10] Pudet dicere contra fortunam militaturis quae porrigant tela, quemadmodum illos subornent. Hac ad summum bonum itur? per istud philosophiae 'sive nive' et turpes infamesque etiam ad album sedentibus exceptiones? Quid enim aliud agitis, cum eum quem interrogatis scientes in fraudem inducitis, quam ut formula cecidisse videatur? Sed quemadmodum illos praetor, sic hos philosophia in integrum restituit. [11] Quid disceditis ab ingentibus promissis et grandia locuti, effecturos vos ut non magis auri fulgor quam gladii praestringat oculos meos, ut ingenti constantia et quod omnes optant et quod omnes timent calcem, ad grammaticorum elementa descenditis? Quid dicitis? Sic itur ad astra Hoc enim est quod mihi philosophia promittit, ut parem deo faciat; ad hoc invitatus sum, ad hoc veni: fidem praesta.
6 "Mus è una sillaba; mus rode il formaggio, dunque una sillaba rode il formaggio." Mettiamo che io non sia in grado di sciogliere questo nodo: quale pericolo incombe su di me per questa ignoranza? Quale danno? Senza dubbio c'è da temere che io un giorno o l'altro prenda in trappola le sillabe, oppure che, se sarò troppo distratto, un libro mangi il formaggio. Ma c'è un sillogismo ancora più sottile: "Mus è una sillaba; la sillaba non mangia il formaggio; mus, dunque, non mangia il formaggio." 7 Che sciocchezze puerili! Per questo abbiamo corrugato le sopracciglia? Per questo abbiamo fatto crescere la barba? È questo che insegniamo tutti seri e pallidi? Vuoi sapere che cosa promette la filosofia al genere umano? Avvedutezza. Uno lo chiama la morte, un altro lo angustia la povertà, un terzo lo tormenta la ricchezza sua o di altri; quello ha orrore della mala sorte, questo desidera sottrarsi alla sua prosperità; a Tizio fanno del male gli uomini, a Caio gli dèi. 8 Perché architetti questi giochi? Non è il momento di scherzare: tu sei chiamato ad aiutare degli infelici. Hai promesso di soccorrere naufraghi, prigionieri, malati, bisognosi, gente che deve sottoporre il capo alla scure del carnefice. Dove ti volgi? Che fai? Quest'uomo, con cui scherzi, ha paura: aiutalo, [...]. Tutti da ogni parte ti tendono le mani, implorano un aiuto per la loro vita fallita o destinata al fallimento, ripongono in te ogni speranza di soccorso; chiedono che tu li liberi da una tale inquietudine, che mostri loro, reietti e smarriti, il fulgido lume della verità. 9 Insegna loro che cosa la natura ha generato di necessario, che cosa di superfluo, che norme semplici ha dato, quanto è bella la vita e quanto è facile per chi vi obbedisce, quanto è dura e complicata per quegli uomini che hanno creduto più ai pregiudizi che alla natura ***; ma prima dovrai insegnare quale parte dei loro mali potrà essere alleviata. Quale di questi cavilli può estinguere le passioni? Quale moderarle? Magari si limitassero a non giovare! Nuocciono addirittura. Quando vorrai, ti dimostrerò molto chiaramente che anche uno spirito magnanimo diventa debole e fiacco se si perde in codeste sottigliezze. 10 Mi vergogno di dire che armi costoro porgano a chi si prepara a combattere contro la sorte e come lo preparino. È questa la via che porta al sommo bene? Attraverso questi "sia che, sia che non" della filosofia e attraverso obiezioni vergognose e infamanti anche per dei legulei? Che altro fate, quando di proposito traete in inganno l'interrogato, se non fargli credere che ha perso la causa per una formula? Ma come il pretore reintegra nel proprio diritto la parte lesa, così fa la filosofia. 11 Perché non mantenete le vostre straordinarie promesse? Avete fatto solenni affermazioni, che per merito vostro lo splendore dell'oro non mi avrebbe abbagliato gli occhi più di quello della spada, che avrei calpestato con grande fermezza tutto quello che gli uomini desiderano o temono; e ora vi abbassate ai princìpî elementari dei grammatici? Che dite? così si sale alle stelle? La filosofia promette di rendermi simile alla divinità; sono stato chiamato per questo, per questo sono venuto: mantieni le tue promesse.
[12] Quantum potes ergo, mi Lucili, reduc te ab istis exceptionibus et praescriptionibus philosophorum: aperta decent et simplicia bonitatem. Etiam si multum superesset aetatis, parce dispensandum erat ut sufficeret necessariis: nunc quae dementia est supervacua discere in tanta temporis egestate! Vale.
12 Stai lontano, Lucilio mio, più che puoi, da queste obiezioni e sottigliezze dei filosofi: all'onestà si addice un linguaggio chiaro e semplice. Anche se avessimo ancòra molto tempo da vivere, bisognerebbe amministrarlo con parsimonia, perché basti per ciò che è necessario: e allora, non è da pazzi imparare nozioni superflue quando abbiamo così poco tempo? Stammi bene.{mospagebreak}
XLIX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Est quidem, mi Lucili, supinus et neglegens qui in amici memoriam ab aliqua regione admonitus reducitur; tamen repositum in animo nostro desiderium loca interdum familiaria evocant, nec exstinctam memoriam reddunt sed quiescentem irritant, sicut dolorem lugentium, etiam si mitigatus est tempore, aut servulus familiaris amisso aut vestis aut domus renovat. Ecce Campania et maxime Neapolis ac Pompeiorum tuorum conspectus incredibile est quam recens desiderium tui fecerint: totus mihi in oculis es. Cum maxime a te discedo; video lacrimas combibentem et affectibus tuis inter ipsam coercitionem exeuntibus non satis resistentem. Mio caro, è davvero una persona apatica e trascurata chi si ricorda di un amico quando glielo richiama alla mente la vista di un qualche luogo; certe volte, però posti familiari evocano in noi una nostalgia che era latente dentro di noi; non è che riaccendano un ricordo ormai spento, ma lo scuotono dal torpore; allo stesso modo che uno schiavo caro alla persona scomparsa, o un suo vestito, o la casa, riacutizzano il dolore di chi piange, anche se ormai è stato mitigato dal tempo. Ecco, è incredibile come la Campania, e soprattutto Napoli, e la vista della tua Pompei abbiano reso cocente la nostalgia di te: ti ho tutto davanti agli occhi. È il momento del distacco: ti vedo mentre inghiotti le lacrime e non riesci a resistere al dirompere dell'affetto nonostante cerchi di frenarti.
[2] Modo amisisse te videor; quid enim non 'modo' est, si recorderis? Modo apud Sotionem philosophum puer sedi, modo causas agere coepi, modo desii velle agere, modo desii posse. Infinita est velocitas temporis, quae magis apparet respicientibus. Nam ad praesentia intentos fallit; adeo praecipitis fugae transitus lenis est. [3] Causam huius rei quaeris? quidquid temporis transit eodem loco est; pariter aspicitur, una iacet; omnia in idem profundum cadunt. Et alioqui non possunt longa intervalla esse in ea re quae tota brevis est. Punctum est quod vivimus et adhuc puncto minus; sed et hoc minimum specie quadam longioris spatii natura derisit: aliud ex hoc infantiam fecit, aliud pueritiam, aliud adulescentiam, aliud inclinationem quandam ab adulescentia ad senectutem, aliud ipsam senectutem. In quam angusto quodam quot gradus posuit! [4] Modo te prosecutus sum; et tamen hoc 'modo' aetatis nostrae bona portio est, cuius brevitatem aliquando defecturam cogitemus. Non solebat mihi tam velox tempus videri: nunc incredibilis cursus apparet, sive quia admoveri lineas sentio, sive quia attendere coepi et computare damnum meum.
2 Mi sembra di averti lasciato poco fa; che cosa non è accaduto "poco fa" se lo si rivive nella memoria? Poco fa sedevo fanciullo alla scuola del filosofo Sozione, poco fa cominciavo a discutere le cause, poco fa decidevo di non discuterle più, poco fa cominciavo a non poterlo più fare. Il tempo scorre velocissimo e ce ne accorgiamo soprattutto quando guardiamo indietro: mentre siamo intenti al presente, passa inosservato, tanto vola via leggero nella sua fuga precipitosa. 3 Ne chiedi il motivo? Tutto il tempo trascorso si trova in uno stesso luogo; lo vediamo simultaneamente, sta tutto insieme; ogni cosa precipita nello stesso baratro. E, del resto, non possono esserci lunghi intervalli in una cosa che nel complesso è breve. La nostra vita è un attimo, anzi, meno di un attimo; ma la natura ci ha schernito dando un'apparenza di durata a questo spazio di tempo minimo: di una parte ne ha fatto l'infanzia, di un'altra la fanciullezza, poi l'adolescenza, il declino dall'adolescenza alla vecchiaia e la vecchiaia stessa. Quanti gradini ha collocato in una scala così corta! 4 Poco fa ti ho salutato; e tuttavia questo "poco fa" è una buona parte della nostra esistenza, e la sua breve durata, pensiamoci, un giorno finirà. Non mi sembrava in passato che il tempo scorresse tanto veloce; ora la sua celerità mi appare incredibile, sia perché sento che si avvicina la meta, sia perché ho cominciato a osservare e a fare il conto delle mie perdite.
Eo magis itaque indignor aliquos ex hoc tempore quod sufficere ne ad necessaria quidem potest, [5] etiam si custoditum diligentissime fuerit, in supervacua maiorem partem erogare. Negat Cicero, si duplicetur sibi aetas, habiturum se tempus quo legat lyricos: eodem loco dialecticos: tristius inepti sunt. Illi ex professo lasciviunt, hi agere ipsos aliquid existimant. [6] Nec ego nego prospicienda ista, sed prospicienda tantum et a limine salutanda, in hoc unum, ne verba nobis dentur et aliquid esse in illis magni ac secreti boni iudicemus. Quid te torques et maceras in ea quaestione quam subtilius est contempsisse quam solvere? Securi est et ex commodo migrantis minuta conquirere: cum hostis instat a tergo et movere se iussus est miles, necessitas excutit quidquid pax otiosa collegerat. [7] Non vacat mihi verba dubie cadentia consectari et vafritiam in illis meam experiri.
Aspice qui coeant populi, quae moenia clusis ferrum acuant portis. Magno mihi animo strepitus iste belli circumsonantis exaudiendus est.
5 Perciò mi sdegno tanto più con coloro che spendono in occupazioni inutili la maggior parte di questo tempo insufficiente già per le attività necessarie, anche se vi si bada con la massima cura. Cicerone afferma che se pure gli venisse raddoppiata la vita, non avrebbe il tempo di leggere i lirici; nello stesso conto tengo i dialettici: ma essi sono più tristemente inutili. Quelli vaneggiano e lo riconoscono, questi ritengono di fare qualcosa di buono. 6 Non dico che non si debba dare un'occhiata a queste futilità, ma solo un'occhiata e un saluto dalla soglia, badando che non ci raggirino e ci facciano credere che in esse ci sia un grande bene nascosto. Perché ti tormenti e ti maceri su un problema che è cosa più intelligente disprezzare che risolvere? Se uno si sposta tranquillo e con tutta calma, può anche raccogliere le cose di poco conto: ma quando il nemico incalza alle spalle e il soldato ha ricevuto l'ordine di muoversi, bisogna gettar via quanto si è accumulato nella quiete della pace. 7 Non ho tempo di seguire le loro frasi ambigue e di mettervi alla prova il mio acume. Guarda quali popoli si radunano, quali città, chiuse le porte, affilano le armi. Devo ascoltare con grande coraggio questo strepito di guerra che risuona intorno a me
[8] Demens omnibus merito viderer, si cum saxa in munimentum murorum senes feminaeque congererent, cum iuventus intra portas armata signum eruptionis exspectaret aut posceret, cum hostilia in portis tela vibrarent et ipsum solum suffossionibus et cuniculis tremeret, sederem otiosus et eiusmodi quaestiunculas ponens: 'quod non perdidisti habes; cornua autem non perdidisti; cornua ergo habes' aliaque ad exemplum huius acutae delirationis concinnata. [9] Atqui aeque licet tibi demens videar si istis impendero operam: et nunc obsideor. Tunc tamen periculum mihi obsesso externum immineret, murus me ab hoste secerneret: nunc mortifera mecum sunt. Non vaco ad istas ineptias; ingens negotium in manibus est. Quid agam? mors me sequitur, fugit vita. [10] Adversus haec me doce aliquid; effice ut ego mortem non fugiam, vita me non effugiat. Exhortare adversus difficilia, [de aequanimitate] adversus inevitabilia; angustias temporis mei laxa. Doce non esse positum bonum vitae in spatio eius sed in usu posse fieri, immo saepissime fieri, ut qui diu vixit parum vixerit. Dic mihi dormituro 'potes non expergisci'; dic experrecto 'potes non dormire amplius'. Dic exeunti 'potes non reverti'; dic redeunti 'potes non exire'. [11] Erras si in navigatione tantum existimas minimum esse quo morte vita diducitur: in omni loco aeque tenue intervallum est. Non ubique se mors tam prope ostendit: ubique tam prope est. Has tenebras discute, et facilius ea trades ad quae praeparatus sum. Dociles natura nos edidit, et rationem dedit imperfectam, sed quae perfici posset. [12] De iustitia mihi, de pietate disputa, de frugalitate, de pudicitia utraque, et illa cui alieni corporis abstinentia est, et hac cui sui cura. Si me nolueris per devia ducere, facilius ad id quo tendo perveniam; nam, ut ait ille tragicus, 'veritatis simplex oratio est', ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus. Vale.
8 Giustamente sembrerei a tutti un pazzo se, mentre le donne e i vecchi ammassano pietre per fortificare le mura, mentre i giovani in armi aspettano o chiedono vicino alle porte il segnale della sortita, mentre i giavellotti nemici vibrano conficcandosi nelle porte e il suolo stesso trema per le trincee e le gallerie, sedessi in ozio ponendomi sciocche questioni di questo tipo: "Hai quello che non hai perduto; non hai perduto le corna, quindi hai le corna" e altre, formate sull'esempio di questo acuto delirio. 9 Ebbene, ugualmente potrei sembrarti un pazzo se adesso impiegassi le mie energie in codeste questioni: anche ora sono assediato. Tuttavia nell'assedio di una città mi sovrasterebbe un pericolo esterno, un muro mi separerebbe dal nemico: ora, invece, i pericoli mortali sono dentro di me. Non ho tempo per queste sciocchezze; ho tra le mani una faccenda importante. Che devo fare? La morte mi incalza, la vita fugge. 10 Insegnami come affrontare questa situazione; fa' che io non fugga la morte, che la vita non fugga me. Incoraggiami contro le difficoltà, contro i mali inevitabili; prolunga il poco tempo che ho. Insegnami che il valore della vita non consiste nella sua durata, ma nell'uso che se ne fa; che può accadere, anzi accade spessissimo, che chi è vissuto a lungo è vissuto poco. Dimmi, quando sto per addormentarmi: "Potresti non svegliarti più"; e quando mi sono svegliato: "Potresti non addormentarti più". Dimmi quando esco: "Può accadere che tu non torni"; e quando ritorno: "Può accadere che tu non esca più." 11 Sbagli a ritenere che soltanto in mare è minima la distanza che separa la vita dalla morte: è ugualmente breve in ogni posto. La morte non si mostra dovunque tanto vicina: ma dovunque è tanto vicina. Dissipa queste tenebre e più facilmente mi darai quegli insegnamenti cui sono preparato. La natura ci ha creato duttili e ci ha dato una ragione imperfetta, ma suscettibile di perfezionamento. 12 Discuti con me della giustizia, della pietà, della sobrietà, delle due forme di pudore, sia di quello che non viola il corpo altrui, sia di quello che ha riguardo del proprio corpo. Se non mi condurrai fuori strada arriverò più facilmente alla meta cui tendo; come dice quel famoso tragediografo: "La verità si esprime con parole semplici"; perciò non bisogna ingarbugliarla; a un animo che abbia grandi aspirazioni niente si addice meno di questa subdola acutezza di ingegno. Stammi bene.{mospagebreak}
L. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Epistulam tuam accepi post multos menses quam miseras; supervacuum itaque putavi ab eo qui afferebat quid ageres quaerere. Valde enim bonae memoriae est, si meminit; et tamen spero te sic iam vivere ut, ubicumque eris, sciam quid agas. Quid enim aliud agis quam ut meliorem te ipse cotidie facias, ut aliquid ex erroribus ponas, ut intellegas tua vitia esse quae putas rerum? Quaedam enim locis et temporibus adscribimus; at illa, quocumque transierimus, secutura sunt. [2] Harpasten, uxoris meae fatuam, scis hereditarium onus in domo mea remansisse. Ipse enim aversissimus ab istis prodigiis sum; si quando fatuo delectari volo, non est mihi longe quaerendus: me rideo. Haec fatua subito desiit videre. Incredibilem rem tibi narro, sed veram: nescit esse sc caecam; subinde paedagogum suum rogat ut migret, ait domum tenebricosam esse. [3] Hoc quod in illa ridemus omnibus nobis accidere liqueat tibi: nemo se avarum esse intellegit, nemo cupidum. Caeci tamen ducem quaerunt, nos sine duce erramus et dicimus, 'non ego ambitiosus sum, sed nemo aliter Romae potest vivere; non ego sumptuosus sum, sed urbs ipsa magnas impensas exigit; non est meum vitium quod iracundus sum, quod nondum constitui certum genus vitae: adulescentia haec facit'.
50 1 Ho ricevuto la tua lettera molti mesi dopo che l'avevi spedita; ho, perciò creduto superfluo chiedere che cosa facessi a chi la portava. Certo, se lo ricorda, ha una buona memoria; spero, tuttavia, che tu viva ormai in modo che io sappia quello che fai, dovunque ti trovi. E, infatti, che altro fai se non renderti ogni giorno migliore, eliminare qualcuno dei tuoi errori, capire che i vizi che ritieni siano nelle cose, sono in realtà in te? Alcuni li imputiamo ai luoghi e alle circostanze; ma essi ci seguiranno dovunque andremo. 2 Arpaste, quella povera matta, trastullo di mia moglie, sai che mi è rimasta in casa come fastidiosa eredità. Io sono contrarissimo a queste anormalità; se qualche volta voglio divertirmi con un pagliaccio, non devo cercare lontano: rido di me. Questa matta di colpo ha perso la vista. Ti racconto un fatto incredibile, ma vero: non sa di essere cieca; chiede continuamente al suo accompagnatore di condurla via, dice che la casa è buia. 3 Ti sia chiaro che accade a tutti noi quello che in lei ci fa ridere: nessuno si rende conto di essere avaro, nessuno di essere avido. I ciechi, però chiedono una guida, noi andiamo errando senza guida e diciamo: "Io non sono ambizioso, ma nessuno può vivere diversamente a Roma; non sono uno spendaccione, ma è proprio la città a richiedere grandi spese; non è colpa mia se sono collerico, se non ho ancòra stabilito una precisa condotta di vita: è colpa della giovane età".
[4] Quid nos decipimus? non est extrinsecus malum nostrum: intra nos est, in visceribus ipsis sedet, et ideo difficulter ad sanitatem pervenimus quia nos aegrotare nescimus. Si curari coeperimus, quando tot morborum tantas vires discutiemus? Nunc vero ne quaerimus quidem medicum, qui minus negotii haberet si adhiberetur ad recens vitium; sequerentur teneri et rudes animi recta monstrantem. [5] Nemo difficulter ad naturam reducitur nisi qui ab illa defecit: erubescimus discere bonam mentem. At mehercules, turpe est magistrum huius rei quaerere, illud desperandum est, posse nobis casu tantum bonum influere: laborandum est et, ut verum dicam, ne labor quidem magnus est, s modo, ut dixi, ante animum nostrum formare incipimus et recorrigere quam indurescat pravitas eius. [6] Sed nec indurata despero: nihil est quod non expugnet pertinax opera et intenta ac diligens cura. Robora m rectum quamvis flexa revocabis; curvatas trabes calor explicat et aliter natae in id finguntur quod usus noster exigit: quanto facilius animus accipit formam, flexibilis et omni umore obsequentior! Quid enim est aliud animus quam quodam modo se habens spiritus? vides autem tanto spiritum esse faciliorem omni alia materia quanto tenuior est. [7] Illud, mi Lucili, non est quod te impediat quominus de nobis bene speres, quod malitia nos iam tenet, quod diu in possessione nostri est: ad neminem ante bona mens venit quam mala; omnes praeoccupati sumus; virtutes discere vitia dediscere . [8] Sed eo maiore animo ad emendationem nostri debemus accedere quod semel traditi nobis boni perpetua possessio est; non dediscitur virtus. Contraria enim male in alieno haerent, ideo depelli et exturbari possunt; fideliter sedent quae in locum suum veniunt. Virtus secundum naturam est, vitia inimica et infesta sunt. [9] Sed quemadmodum virtutes receptae exire non possunt facilisque earum tutela est, ita initium ad illas eundi arduum, quia hoc proprium imbecillae mentis atque aegrae est, formidare inexperta; itaque cogenda est ut incipiat. Deinde non est acerba medicina; protinus enim delectat, dum sanat. Aliorum remediorum post sanitatem voluptas est, philosophia pariter et salutaris et dulcis est. Vale.
4 Perché vogliamo ingannarci? Non viene dall'esterno il nostro male: è dentro di noi, sta nelle nostre stesse viscere e, perciò difficilmente possiamo guarire: ignoriamo di essere malati. Se pure cominciassimo a curarci, quando potremo disperdere le enormi forze di tante malattie? Ma per ora non cerchiamo neppure un medico: avrebbe meno da fare se fosse chiamato per un vizio recente; animi malleabili e semplici seguirebbero chi indica la retta via. 5 Non è difficile ricondurre alla natura nessuno, se non chi alla natura si è ribellato: ci vergogniamo di apprendere la saggezza. Ma, perbacco, se per noi è vergognoso cercare un maestro che ce la insegni, non possiamo sperare che un bene così grande possa penetrare per caso in noi: dobbiamo faticare e, a dire il vero, non è neppure una grande fatica, purché, come ho detto, cominciamo a plasmare il nostro spirito e a correggerlo prima che il male si incallisca. 6 Tuttavia, non dispero di correggere nemmeno i vizi incalliti: non c'è niente che resista a un'azione costante e a una cura intensa e attenta. È possibile raddrizzare i tronchi d'albero per quanto piegati; il calore rimette in sesto travi ricurve e, sebbene siano diverse originariamente, vengono disposte come richiede l'uso che ne vogliamo fare. Quanto più facilmente può essere plasmato l'animo che è flessibile e più docile di qualsiasi liquido! Che altro è l'anima se non un soffio che ha un suo modo di essere? E vedi che il soffio è tanto più duttile di ogni altra materia quanto più è tenue. 7 Mio caro Lucilio, il fatto che la malvagità ci domini e ci tenga in suo potere da tempo, non deve impedirti di nutrire per noi buone speranze: in nessuno la saggezza precede la malvagità. Questa è la prima a impadronirsi di noi tutti: imparare la virtù significa disimparare i vizi. 8 Ma dobbiamo apprestarci a correggere noi stessi con tanto più slancio perché, una volta ottenuto il bene, lo possiederemo per sempre; la virtù non si disimpara. Il male non attecchisce in un terreno che non sia il suo e, proprio per questo, lo si può estirpare e distruggere; ma ciò che capita sul terreno adatto mette salde radici. La virtù è secondo natura, i vizi, invece, sono ostili e avversi. 9 Ma come le virtù, una volta conquistate, non possono scomparire ed è facile custodirle, così all'inizio è difficile accostarvisi, poiché è una caratteristica di uno spirito debole e malato temere ciò che non conosce; bisogna, perciò costringerlo a cominciare. In un secondo momento la medicina non sembra amara: riesce gradita man mano che risana. Gli altri rimedi danno piacere dopo la guarigione; la filosofia, invece, è al tempo stesso salutare e piacevole. Stammi bene.{mospagebreak}
LI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Quomodo quisque potest, mi Lucili: tu istic habes Aetnam, nobilissimum Siciliae montem - quem quare dixerit Messala unicum, sive Valgius, apud utrumque enim legi, non reperio, cum plurima loca evomant ignem, non tantum edita, quod crebrius evenit, videlicet quia ignis in altissimum effertur, sed etiam iacentia -, nos, utcumque possumus, contenti sumus Bais; quas postero die quam attigeram reliqui, locum ob hoc devitandum, cum habeat quasdam naturales dotes, quia illum sibi celebrandum luxuria desumpsit.
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1 Ciascuno come può caro Lucilio: tu lì hai l'Etna, [...] il famosissimo monte della Sicilia (ma non capisco per quale motivo sia Messalla, sia Valgio - l'ho letto in entrambi - lo definiscano unico: moltissimi luoghi vomitano fuoco, e non solo quelli elevati, cosa abbastanza frequente, evidentemente perché il fuoco è spinto in alto, ma anche quelli bassi); io, per quanto posso, mi accontento di Baia; me ne sono andato, però il giorno dopo il mio arrivo: è un posto da evitare, nonostante certe bellezze naturali, poiché ha scelto di essere famoso per la sua dissolutezza.
[2] 'Quid ergo? ulli loco indicendum est odium?' Minime; sed quemadmodum aliqua vestis sapienti ac probo viro magis convenit quam aliqua, nec ullum colorem ille odit sed aliquem parum putat aptum esse frugalitatem professo, sic regio quoque est quam sapiens vir aut ad sapientiam tendens declinet tamquam alienam bonis moribus. [3] Itaque de secessu cogitans numquam Canopum eliget, quamvis neminem Canopus esse frugi vetet, ne Baias quidem: deversorium vitiorum esse coeperunt. Illic sibi plurimum luxuria permittit, illic, tamquam aliqua licentia debeatur loco, magis solvitur. [4] Non tantum corpori sed etiam moribus salubrem locum eligere debemus; quemadmodum inter tortores habitare nolim, sic ne inter popinas quidem. Videre ebrios per litora errantes et comessationes navigantium et symphoniarum cantibus strepentes lacus et alia quae velut soluta legibus luxuria non tantum peccat sed publicat, quid necesse est? [5] Id agere debemus ut irritamenta vitiorum quam longissime profugiamus; indurandus est animus et a blandimentis voluptatum procul abstrahendus. Una Hannibalem hiberna solverunt et indomitum illum nivibus atque Alpibus virum enervaverunt fomenta Campaniae: armis vicit, vitiis victus est. [6] Nobis quoque militandum est, et quidem genere militiae quo numquam quies, numquam otium datur: debellandae sunt in primis voluptates, quae, ut vides, saeva quoque ad se ingenia rapuerunt. Si quis sibi proposuerit quantum operis aggressus sit, sciet nihil delicate, nihil molliter esse faciendum. Quid mihi cum istis calentibus stagnis? quid cum sudatoriis, in quae siccus vapor corpora exhausurus includitur? omnis sudor per laborem exeat. [7] Si faceremus quod fecit Hannibal, ut interrupto cursu rerum omissoque bello fovendis corporibus operam daremus, nemo non intempestivam desidiam, victori quoque, nedum vincenti, periculosam, merito reprehenderet: minus nobis quam illis Punica signa sequentibus licet, plus periculi restat cedentibus, plus operis etiam perseverantibus. [8] Fortuna mecum bellum gerit: non sum imperata facturus; iugum non recipio, immo, quod maiore virtute faciendum est, excutio. Non est emolliendus animus: si voluptati cessero, cedendum est dolori, cedendum est labori, cedendum est paupertati; idem sibi in me iuris esse volet et ambitio et ira; inter tot affectus distrahar, immo discerpar. [9] Libertas proposita est; ad hoc praemium laboratur. Quae sit libertas quaeris? Nulli rei servire, nulli necessitati, nullis casibus, fortunam in aequum deducere. Quo die illam intellexero plus posse, nil poterit: ego illam feram, cum in manu mors sit?
2 "E allora, bisogna dichiarare guerra a certi luoghi?" No; ma come un certo abbigliamento si confà più di un altro all'uomo saggio e onesto ed egli, senza detestare nessun colore, ne ritiene qualcuno poco adatto a chi si professa sobrio, lo stesso vale per un luogo che un uomo saggio, o che aspira alla saggezza, evita, perché contrario alla moralità. 3 Perciò se uno vuole vivere in ritiro, non sceglierà mai Canopo, sebbene Canopo non impedisca a nessuno di essere onesto, e neppure Baia: stanno diventando un ricettacolo di vizi. Là si concede moltissimo alla dissolutezza, là, come se si dovesse al posto una certa licenza, si abbandona ancor più ogni ritegno. 4 Dobbiamo scegliere una località salutare non solo per il corpo, ma anche per la nostra condotta di vita; non vorrei certo abitare tra i carnefici e neppure nelle bettole. Che necessità c'è di vedere gente ubriaca che girovaga sulla spiaggia, che fa baldoria sulle navi; specchi d'acqua dove risuonano concerti e altre brutture che la dissolutezza, quasi sciolta da ogni legge, commette, e per giunta sotto gli occhi di tutti? 5 Dobbiamo cercare di fuggire il più lontano possibile dalle sollecitazioni dei vizi; l'anima va fortificata e sottratta alle lusinghe dei piaceri. Bastò l'ozio di un solo inverno a fiaccare Annibale: le mollezze della Campania snervarono quell'uomo che le nevi alpine non avevano domato: vinse con le armi, ma fu vinto dai vizi. 6 Anche noi siamo chiamati alle armi ed è una milizia che non concede mai tregua, né riposo: dobbiamo sconfiggere innanzitutto i piaceri che, come vedi, hanno travolto anche i caratteri più fieri. Se uno considera l'impegno dell'opera intrapresa, si renderà conto di non poter vivere in maniera molle e dissoluta. A che mi servono questi bagni caldi? A che le saune dove c'è racchiuso un vapore asciutto che indebolisce il corpo? È la fatica che deve spremere il sudore. 7 Se facessimo come Annibale e tralasciassimo la guerra, interrompendo il corso delle imprese e ci dedicassimo alla cura del corpo, tutti giustamente ci rimprovererebbero questa inerzia intempestiva, pericolosa sia per il vincitore, sia, e tanto più, per chi è vicino alla vittoria. Noi ci troviamo in una situazione più critica di quella delle truppe cartaginesi: corriamo un pericolo più grave ritirandoci e, se continuiamo nella lotta, dobbiamo sostenere uno sforzo maggiore. 8 La sorte combatte contro di me: non obbedirò agli ordini; non mi sottometto al suo giogo, anzi, e questo richiede maggiore coraggio, me lo scuoto di dosso. Non dobbiamo indebolire lo spirito: se cederò ai piaceri, devo cedere al dolore, alla fatica, alla povertà; l'ambizione e l'ira vorranno avere gli stessi diritti su di me; sono diviso, anzi lacerato, tra tante passioni. 9 La posta in gioco è la libertà; a questo premio sono rivolte le mie fatiche. Chiedi che cosa sia la libertà? Non essere schiavi di niente, di nessuna necessità, di nessun caso, affrontare la fortuna alla pari. Quando comprenderò di essere più potente di lei, non potrà più farmi niente: dovrei esserle sottomesso, se ho il dominio sulla morte?
[10] His cogitationibus intentum loca seria sanctaque eligere oportet; effeminat animos amoenitas nimia, nec dubie aliquid ad corrumpendum vigorem potest regio. Quamlibet viam iumenta patiuntur quorum durata in aspero ungula est: in molli palustrique pascuo saginata cito subteruntur. Et fortior miles ex confragoso venit: segnis est urbanus et verna. Nullum laborem recusant manus quae ad arma ab aratro transferuntur: in primo deficit pulvere ille unctus et nitidus. [11] Severior loci disciplina firmat ingenium aptumque magnis conatibus reddit. Literni honestius Scipio quam Bais exulabat: ruina eiusmodi non est tam molliter collocanda. Illi quoque ad quos primos fortuna populi Romani publicas opes transtulit, C. Marius et Cn. Pompeius et Caesar, exstruxerunt quidem villas in regione Baiana, sed illas imposuerunt summis iugis montium: videbatur hoc magis militare, ex edito speculari late longeque subiecta. Aspice quam positionem elegerint, quibus aedificia excitaverint locis et qualia: scies non villas esse sed castra. [12] Habitaturum tu putas umquam fuisse illic M. Catonem, ut praenavigantes adulteras dinumeraret et tot genera cumbarum variis coloribus picta et fluvitantem toto lacu rosam, ut audiret canentium nocturna convicia? nonne ille manere intra vallum maluisset, quod in unam noctem manu sua ipse duxisset? Quidni mallet, quisquis vir est, somnum suum classico quam symphonia rumpi?
10 Se uno si dedica a queste meditazioni, deve scegliere posti austeri e puri; la bellezza eccessiva snerva lo spirito e senza dubbio un luogo può in qualche misura indebolirne il vigore. I cavalli da tiro che si sono induriti le unghie su terreni impervi, possono sopportare qualunque percorso: gli zoccoli di quelli allevati in pascoli molli e paludosi, invece, si logorano subito. Il soldato che proviene da località aspre è più forte: mentre è fiacco quello nato e vissuto in una casa di città. Chi passa dall'aratro alle armi non rifiuta nessuna fatica: ma se uno è ben curato ed elegante, cade al primo cimento. 11 Un luogo più austero fortifica lo spirito e lo rende adatto alle grandi imprese. Scipione ritenne più dignitoso andare in esilio a Literno che a Baia: una simile disgrazia non può trovare posto fra tanta mollezza. Anche C. Mario, Gn. Pompeo e Cesare, cui la sorte diede per primi pubblici poteri sul popolo romano, costruirono le loro ville a Baia, ma le ubicarono sulle cime dei monti: sembrava loro più militare dominare dall'alto in lungo e in largo la zona sottostante. Guarda che posizione hanno scelto, in quali luoghi e come hanno innalzato le loro case: ti renderai conto che non sono ville, ma accampamenti. 12 Pensi che Catone avrebbe mai abitato laggiù per contare le donne adultere che passano in barca là davanti e i tanti tipi di imbarcazioni variamente dipinte e le rose galleggianti sull'intero lago, o per sentire di notte schiamazzi e canti? Non avrebbe preferito stare in una trincea da lui stesso scavata per una notte? Un vero uomo non preferirebbe essere svegliato da una tromba di guerra, piuttosto che da una musica?
[13] Sed satis diu cum Bais litigavimus, numquam satis cum vitiis, quae, oro te, Lucili, persequere sine modo, sine fine; nam illis quoque nec finis est nec modus. Proice quaecumque cor tuum laniant, quae si aliter extrahi nequirent, cor ipsum cum illis reveliendum erat. Voluptates praecipue exturba et invisissimas habe: latronum more, quos 'philÍtas' Aegyptii vocant, in hoc nos amplectuntur, ut strangulent. Vale. 13 Ma abbiamo processato abbastanza Baia; i vizi, invece, non li processeremo mai abbastanza: ti scongiuro, Lucilio, combattili a oltranza senza mezze misure, poiché non hanno né misura, né fine. Scaccia tutte le passioni che dilaniano il tuo cuore e se non possono essere sradicate in modo diverso, stràppati con esse anche il cuore. Elimina soprattutto i piaceri e odiali profondamente; come i banditi, che gli Egiziani chiamano "fileti", ci abbracciano per strangolarci. Stammi bene. {mospagebreak}
LII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Quid est hoc, Lucili, quod nos alio tendentes alio trahit et eo unde recedere cupimus impellit? quid colluctatur cum animo nostro nec permittit nobis quicquam semel velle? Fluctuamur inter varia consilia; nihil libere volumus, nihil absolute, nihil semper. [2] 'Stultitia' inquis 'est cui nihil constat, nihil diu placet.' Sed quomodo nos aut quando ab illa revellemus? Nemo per se satis valet ut emergat; oportet manum aliquis porrigat, aliquis educat. [3] Quosdam ait Epicurus ad veritatem sine ullius adiutorio exisse, fecisse sibi ipsos viam; hos maxime laudat quibus ex se impetus fuit, qui se ipsi protulerunt: quosdam indigere ope aliena, non ituros si nemo praecesserit, sed bene secuturos. Ex his Metrodorum ait esse; egregium hoc quoque, sed secundae sortis ingenium. Nos ex illa prima nota non sumus; bene nobiscum agitur, si in secundam recipimur. Ne hunc quidem contempseris hominem qui alieno beneficio esse salvus potest; et hoc multum est, velle servari. [4] Praeter haec adhuc invenies genus aliud hominum ne ipsum quidem fastidiendum eorum qui cogi ad rectum compellique possunt, quibus non duce tantum opus sit sed adiutore et, ut ita dicam, coactore; hic tertius color est. Si quaeris huius quoque exemplar, Hermarchum ait Epicurus talem fuisse. Itaque alteri magis gratulatur, alterum magis suspicit; quamvis enim ad eundem finem uterque pervenerit, tamen maior est laus idem effecisse in difficiliore materia. [5] Puta enim duo aedificia excitata esse, ambo paria, aeque excelsa atque magnifica. Alter puram aream accepit, illic protinus opus crevit; alterum fundamenta lassarunt in mollem et fluvidam humum missa multumque laboris exhaustum est dum pervenitur ad solidum: intuentibus quidquid fecit *** alterius magna pars et difficilior latet. [6] Quaedam ingenia facilia, expedita, quaedam manu, quod aiunt, facienda sunt et in fundamentis suis occupata. Itaque illum ego feliciorem dixerim qui nihil negotii secum habuit, hunc quidem melius de se meruisse qui malignitatem naturae suae vicit et ad sapientiam se non perduxit sed extraxit.
52
1 Cos'è, Lucilio mio, questa forza che ci trascina in una direzione opposta a quella cui tendiamo e ci spinge là da dove vogliamo allontanarci? Che cosa è in lotta con la nostra anima e non ci permette di essere risoluti nelle nostre decisioni? Ondeggiamo tra propositi differenti; le nostre scelte non sono mai libere, assolute, immutabili. 2 "È la stoltezza," dici, "che è incostante e mutevole." Ma in che modo o quando ce ne distaccheremo? Nessuno può uscirne con le sue sole forze; occorre che qualcuno gli porga la mano, che lo tiri fuori. 3 Dice Epicuro che certi uomini sono arrivati alla verità senza l'aiuto di nessuno, che si sono aperti da soli la strada; e li loda soprattutto perché hanno trovato in sé lo slancio e si sono fatti avanti con le loro forze; certi, invece, hanno bisogno dell'intervento altrui: non avanzeranno se nessuno li precederà, ma ne seguiranno bene le orme. Secondo lui tra questi c'è Metrodoro; una mente insigne, ma del secondo tipo. Neppure noi apparteniamo al primo gruppo e ci andrà bene se saremo accolti nel secondo. Ma non bisogna disprezzare neppure l'uomo che può salvarsi con l'aiuto di altri; anche la volontà di salvarsi è già molto. 4 Oltre a queste due troverai ancòra un'altra categoria di uomini - neppure loro vanno disprezzati: quelli che possono essere costretti e spinti sulla retta via e che hanno bisogno non solo di una guida, ma di uno che li assista e, per così dire, li forzi; questo è il terzo gruppo. Ne vuoi un esempio? Epicuro indica Ermarco. Egli, perciò si congratula di più con l'uno, ma ammira maggiormente l'altro; difatti, benché siano arrivati entrambi allo stesso fine, merita più lodi chi ha ottenuto lo stesso risultato in una condizione più difficile. 5 Supponi che siano stati fabbricati due edifici, simili, ugualmente alti e splendidi. L'uno, in un'area sgombra da difficoltà, è venuto su alla svelta; le fondamenta dell'altro, gettate in un terreno mobile e instabile, hanno ceduto e c'è voluta molta fatica per arrivare a uno strato compatto: tutto il lavoro richiesto dal primo lo vedrai; del secondo rimane nascosta una gran parte e la più difficile. 6 Certe menti sono vivaci e pronte, altre, invece, devono, come si dice, essere plasmate a mano e le loro fondamenta richiedono un grande lavoro. Definirei, perciò più fortunato chi non ha incontrato difficoltà in se stesso, ma più meritevole chi ha superato le sue limitazioni naturali e alla saggezza non è giunto, ma vi si è innalzato a forza.
[7] Hoc durum ac laboriosum ingenium nobis datum scias licet; imus per obstantia. Itaque pugnemus, aliquorum invocemus auxilium. 'Quem' inquis 'invocabo? Hunc aut illum?' Tu vero etiam ad priores revertere, qui vacant; adiuvare nos possunt non tantum qui sunt, sed qui fuerunt. [8] Ex his autem qui sunt eligamus non eos qui verba magna celeritate praecipitant et communes locos volvunt et in privato circulantur, sed eos qui vita docent, qui cum dixerunt quid faciendum sit probant faciendo, qui docent quid vitandum sit nec umquam in eo quod fugiendum dixerunt deprehenduntur; eum elige adiutorem quem magis admireris cum videris quam cum audieris. [9] Nec ideo te prohibuerim hos quoque audire quibus admittere populum ac disserere consuetudo est, si modo hoc proposito in turbam prodeunt, ut meliores fiant faciantque meliores, si non ambitionis hoc causa exercent. Quid enim turpius philosophia captante clamores? numquid aeger laudat medicum secantem? [10] Tacete, favete et praebete vos curationi; etiam si exclamaveritis, non aliter audiam quam si ad tactum vitiorum vestrorum ingemescatis. Testari vultis attendere vos moverique rerum magnitudine? sane liceat: ut quidem iudicetis et feratis de meliore suffragium, quidni non permittam? Apud Pythagoram discipulis quinque annis tacendum erat: numquid ergo existimas statim illis et loqui et laudare licuisse?
7 Sappi che a noi è stata data questa natura ostica e poco malleabile: procediamo in mezzo a ostacoli. Dobbiamo, perciò combattere, invocare l'aiuto di qualcuno. "Chi invocherò", chiedi, "Tizio o Caio?" Ricorri agli uomini che ci hanno preceduti: sono disponibili; non solo i vivi, ma anche i morti possono aiutarci. 8 Tra i vivi, però scegliamo non quelli che parlano a rotta di collo ripetendo luoghi comuni e anche in privato discorrono come ciarlatani, ma quelli che insegnano con la loro stessa vita, che ci dicono che cosa dobbiamo fare e lo dimostrano con i fatti, che ci indicano cosa bisogna evitare e non vengono mai sorpresi a compiere le azioni che ci avevano esortato a fuggire; scegli come guida un uomo di cui ammiri più gli atti che le parole. 9 Non ti proibirei nemmeno di ascoltare chi ha l'abitudine di raccogliere la folla intorno a sé e di dissertare, purché si mostri in pubblico col proposito di migliorare se stesso e gli altri e non agisca per ambizione. Non c'è niente di più vergognoso della filosofia che va in cerca di applausi. L'ammalato può forse lodare il medico che lo opera? 10 Tacete e sottoponetevi di buon grado alla cura; anche se griderete la vostra approvazione, vi ascolterò come se gemeste perché tasto le vostre magagne. Volete dimostrare che prestate attenzione e siete toccati dall'importanza degli argomenti discussi? Sia pure: ma perché dovrei permettere che esprimiate il vostro giudizio e approviate quello che vi sembra migliore? Nella scuola di Pitagora i discepoli dovevano tacere per cinque anni: pensi che subito dopo fosse loro lecito parlare ed esprimere lodi?
[11] Quanta autem dementia eius est quem clamores imperitorum hilarem ex auditorio dimittunt! Quid laetaris quod ab hominibus his laudatus es quos non potes ipse laudare? Disserebat populo Fabianus, sed audiebatur modeste; erumpebat interdum magnus clamor laudantium, sed quem rerum magnitudo evocaverat, non sonus inoffense ac molliter orationis elapsae. [12] Intersit aliquid inter clamorem theatri et scholae: est aliqua et laudandi elegantia. Omnia rerum omnium, si observentur, indicia sunt, et argumentum morum ex minimis quoque licet capere: impudicum et incessus ostendit et manus mota et unum interdum responsum et relatus ad caput digitus et flexus oculorum; improbum risus, insanum vultus habitusque demonstrat. Illa enim in apertum per notas exeunt: qualis quisque sit scies, si quemadmodum laudet, quemadmodum laudetur aspexeris. [13] Hinc atque illinc philosopho manus auditor intentat et super ipsum caput mirantium turba consistit: non laudatur ille nunc, si intellegis, sed conclamatur. Relinquantur istae voces illis artibus quae propositum habent populo placere: philosophia adoretur. [14] Permittendum erit aliquando iuvenibus sequi impetum animi, tunc autem cum hoc ex impetu facient, cum silentium sibi imperare non poterunt; talis laudatio aliquid exhortationis affert ipsis audientibus et animos adulescentium exstimulat. ad rem commoveantur, non ad verba composita; alioquin nocet illis eloquentia, si non rerum cupiditatem facit sed sui.
11 Quanto è insensato l'oratore che si allontana felice per gli applausi di un pubblico ignorante! Perché ti rallegri di essere lodato da persone che non puoi a tua volta lodare? Fabiano parlava al popolo e lo ascoltavano composti; scoppiava talvolta un forte applauso di approvazione, ma lo provocava la grandezza degli argomenti, non il suono di un'eloquenza facile e gradevole. 12 Deve esserci una differenza tra l'applauso del teatro e quello della scuola: esiste una certa eleganza anche nel modo di lodare. Ogni cosa, a ben guardare, è rivelatrice e anche da particolari minimi si può dedurre l'indole di una persona: l'incedere, un movimento della mano e a volte una sola risposta o il portare un dito alla testa o il movimento degli occhi denunciano un uomo impudico; il modo di ridere rivela il malvagio; il viso e l'atteggiamento il pazzo. Questi elementi vengono alla luce attraverso segni evidenti: puoi sapere come è ciascuno, badando a come loda e a come riceve le lodi. 13 Da ogni parte il pubblico tende le mani al filosofo e la folla degli ammiratori lo assedia: in realtà costui non viene lodato, ma acclamato. Lasciamo questi strepiti a quelle arti che vogliono riuscire gradite alla massa: la filosofia deve essere venerata. 14 Bisognerà a volte concedere ai giovani di seguire il loro impulso, ma solo quando lo faranno di slancio, quando non potranno imporsi il silenzio; simili elogi in qualche misura spronano anche il pubblico e stimolano l'animo dei giovani. Li tocchi, però la sostanza, non le belle parole; altrimenti l'eloquenza sarà loro nociva, se non provocherà desiderio di contenuti, ma compiacimento di se stessa.
[15] Differam hoc in praesentia; desiderat enim propriam et longam exsecutionem, quemadmodum populo disserendum, quid sibi apud populum permittendum sit, quid populo apud se. Damnum quidem fecisse philosophiam non erit dubium postquam prostituta est; sed potest in penetralibus suis ostendi, si modo non institorem sed antistitem nancta est. Vale.
15 Rimandiamo per ora questo tema, poiché richiede una lunga e appropriata trattazione: come si debba dissertare in pubblico, che cosa ci si possa permettere di fronte al pubblico, che cosa si possa permettere al pubblico di fronte a noi. La filosofia ha senza dubbio sofferto un danno da quando si è prostituita; ma può ricomparire nei suoi santuari, purché non trovi mercanti, ma sacerdoti. Stammi bene.

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