SENECA - Lettere a Lucilio Libro VI testo latino e traduzione

L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM VI
LETTERE A LUCILIO DI SENECA VI
Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione

LIBER SEXTUS - LIBRO SESTO
LIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Quid non potest mihi persuaderi, cui persuasum est ut navigarem? Solvi mari languido; erat sine dubio caelum grave sordidis nubibus, quae fere aut in aquam aut in ventum resolvuntur, sed putavi tam pauca milia a Parthenope tua usque Puteolos subripi posse, quamvis dubio et impendente caelo. Itaque quo celerius evaderem, protinus per altum ad Nesida derexi praecisurus omnes sinus. [2] Cum iam eo processissem ut mea nihil interesset utrum irem an redirem, primum aequalitas illa quae me corruperat periit; nondum erat tempestas, sed iam inclinatio maris ac subinde crebrior fluctus. Coepi gubernatorem rogare ut me in aliquo litore exponeret: aiebat ille aspera esse et importuosa nec quicquam se aeque in tempestate timere quam terram. [3] Peius autem vexabar quam ut mihi periculum succurreret; nausia enim me segnis haec et sine exitu torquebat, quae bilem movet nec effundit. Institi itaque gubernatori et illum, vellet nollet, coegi, peteret litus. Cuius ut viciniam attigimus, non exspecto ut quicquam ex praeceptis Vergilii fiat, obvertunt pelago proras aut ancora de prora iacitur: memor artificii mei vetus frigidae cultor mitto me in mare, quomodo psychrolutam decet, gausapatus. [4] Quae putas me passum dum per aspera erepo, dum viam quaero, dum facio? Intellexi non immerito nautis terram timeri. Incredibilia sunt quae tulerim, cum me ferre non possem: illud scito, Ulixem non fuisse tam irato mari natum ut ubique naufragia faceret: nausiator erat. Et ego quocumque navigare debuero vicensimo anno perveniam.

1 Sono pronto a tutto, ora che mi sono lasciato convincere a mettermi in mare.

Salpai col mare calmo; veramente il cielo era carico di quei nuvoloni neri che, di solito, portano acqua o vento, ma pensai di farcela a percorrere le poche miglia tra la tua Napoli e Pozzuoli, anche se il tempo era incerto e minacciava tempesta. Perciò per uscirne prima, mi diressi subito al largo verso Nisida tagliando via tutte le insenature. 2 Quando già mi trovavo a mezza strada, quella calma che mi aveva lusingato, finì; ancora non era scoppiata la burrasca, ma il mare era mosso e andava agitandosi sempre più. Cominciai a chiedere al timoniere di sbarcarmi in qualche punto della costa: mi disse che il litorale era dovunque a picco e privo di approdi e che in mezzo alla tempesta la cosa che temeva di più era la terra.

3 Io intanto stavo così male da non curarmi più del pericolo; mi tormentava una nausea spossante, ma senza vomito; quella che smuove la bile e non la caccia fuori. Insistetti, perciò con il timoniere e lo costrinsi, volente o nolente, a dirigersi verso terra. Quando ne siamo in prossimità, non aspetto che venga eseguita nessuna delle manovre descritte da Virgilio, Volgono le prore al mare o Si getta l'ancora dalla prora: memore della mia maestria di vecchio amante dell'acqua gelida, mi getto in mare vestito di panno come è bene per chi fa bagni freddi.

4 Sapessi che cosa ho passato arrampicandomi su per gli scogli, cercando una via, anzi creandomela! Ho capito che i marinai non hanno torto a temere la terra. Sono incredibili le sofferenze che ho sostenuto, mentre quasi non potevo sostenere me stesso: Ulisse, sappilo, non era destinato dalla nascita a trovar mari così agitati da fare sempre naufragio: soffriva di mal di mare. Anch'io, dovunque dovrò recarmi per mare, ci arriverò dopo vent'anni.

[5] Ut primum stomachum, quem scis non cum mari nausiam effugere, collegi, ut corpus unctione recreavi, hoc coepi mecum cogitare, quanta nos vitiorum nostrorum sequeretur oblivio, etiam corporalium, quae subinde admonent sui, nedum illorum quae eo magis latent quo maiora sunt.

[6] Levis aliquem motiuncula decipit; sed cum crevit et vera febris exarsit, etiam duro et perpessicio confessionem exprimit. Pedes dolent, articuli punctiunculas sentiunt: adhuc dissimulamus et aut talum extorsisse dicimus nos aut in exercitatione aliqua laborasse.

Dubio et incipiente morbo quaeritur nomen, qui ubi ut talaria coepit intendere et utrosque distortos pedes fecit, necesse est podagram fateri.

5 Non appena rimisi in sesto lo stomaco - il senso di nausea, lo sai, non finisce venendo via dal mare - non appena rinfrancai il corpo ungendolo, cominciai a riflettere tra me e me, come ci dimentichiamo dei nostri difetti anche fisici, che pure si fanno sentire spesso, nonché di quelli spirituali, che più sono grandi più restano nascosti. 6 Una leggera febbriciattola può sfuggire; ma quando aumenta e divampa una vera febbre, anche un uomo forte e abituato a soffrire deve confessare la sua malattia. I piedi ci dolgono, avvertiamo leggere fitte alle articolazioni: ma noi ancora dissimuliamo e diciamo o che ci siamo slogati una caviglia o che ci siamo stancati facendo ginnastica. All'inizio si cerca di dare un nome alla malattia ancora incerta; ma quando comincia a interessare le caviglie e a deformare i piedi, bisogna ammettere che si tratta di podagra.

[7] Contra evenit in his morbis quibus afficiuntur animi: quo quis peius se habet, minus sentit. Non est quod mireris, Lucili carissime; nam qui leviter dormit, et species secundum quietem capit et aliquando dormire se dormiens cogitat: gravis sopor etiam somnia exstinguit animumque altius mergit quam ut in ullo intellectu sui sit. [8] Quare vitia sua nemo confitetur? quia etiam nunc in illis est: somnium narrare vigilantis est, et vitia sua confiteri sanitatis indicium est. Expergiscamur ergo, ut errores nostros coarguere possimus. Sola autem nos philosophia excitabit, sola somnum excutiet gravem: illi te totum dedica. Dignus illa es, illa digna te est: ite in complexum alter alterius. Omnibus aliis rebus te nega, fortiter, aperte; non est quod precario philosopheris. [9] Si aeger esses, curam intermisisses rei familiaris et forensia tibi negotia excidissent nec quemquam tanti putares cui advocatus in remissione descenderes; toto animo id ageres ut quam primum morbo liberareris. Quid ergo? non et nunc idem facies? omnia impedimenta dimitte et vaca bonae menti: nemo ad illam pervenit occupatus. Exercet philosophia regnum suum; dat tempus, non accipit; non est res subsiciva; ordinaria est, domina est, adest et iubet. [10] Alexander cuidam civitati partem agrorum et dimidium rerum omnium promittenti 'eò inquit 'proposito in Asiam veni, ut non id acciperem quod dedissetis, sed ut id haberetis quod reliquissem'. Idem philosophia rebus omnibus: 'non sum hoc tempus acceptura quod vobis superfuerit, sed id vos habebitis quod ipsa reiecero'. [11] Totam huc converte mentem, huic asside, hanc cole: ingens intervallum inter te et ceteros fiet; omnes mortales multo antecedes, non multo te dii antecedent. Quaeris quid inter te et illos interfuturum sit? diutius erunt. At mehercules magni artificis est clusisse totum in exiguo; tantum sapienti sua quantum deo omnis aetas patet. Est aliquid quo sapiens antecedat deum: ille naturae beneficio non timet, suo sapiens. [12] Ecce res magna, habere imbecillitatem hominis, securitatem dei. Incredibilis philosophiae vis est ad omnem fortuitam vim retundendam. Nullum telum in corpore eius sedet; munita est, solida; quaedam defetigat et velut levia tela laxo sinu eludit, quaedam discutit et in eum usque qui miserat respuit. Vale.

7 Il contrario accade nelle malattie dello spirito: più uno sta male, meno se ne rende conto. Non c'è da stupirsene, carissimo; chi dorme un sonno leggero, durante il sonno percepisce delle immagini e dormendo a volte si accorge di dormire: un sonno profondo, invece, cancella anche i sogni e fa sprofondare la mente tanto che perdiamo coscienza di noi stessi. 8 Perché nessuno ammette i propri difetti? Perché vi è ancora immerso: i sogni li racconta chi è sveglio e così i propri vizi li ammette solo chi è guarito. Destiamoci, dunque, e rendiamoci conto dei nostri errori. Ma solo la filosofia può destarci, può scuoterci dal nostro sonno profondo: dedicati a lei completamente, tu ne sei degno ed essa è degna di te: stringetevi l'uno all'altra. Respingi tutto il resto con forza, apertamente; non ci si può dedicare alla filosofia di tanto in tanto. 9 Se tu fossi malato, avresti tralasciato la cura del patrimonio e dimenticato le attività forensi e non stimeresti nessuno tanto da acconsentire ad assumerti la sua difesa durante gli intervalli della malattia; cercheresti in ogni modo di liberarti quanto prima del tuo male. E allora? Non farai lo stesso anche adesso? Metti da parte ogni impedimento e dedicati alla saggezza: nessuno può arrivarvi se ha mille impegni. La filosofia esercita il suo potere; il tempo lo accorda lei, non lo riceve da noi; non è un'attività accessoria, ma fondamentale; è padrona, ci sta dappresso e ci comanda. 10 Alessandro, a una città che gli prometteva una parte delle terre e metà di tutti i beni, rispose: "Non sono venuto in Asia per accettare quello che mi avreste dato, ma perché voi aveste quello che io vi avrei lasciato." Lo stesso dice la filosofia per ogni cosa: "Non ho intenzione di accettare il tempo che vi avanza: voi avrete quello che io stessa rifiuterò." 11 Rivolgile tutta la tua attenzione, stalle vicino, venerala: ci sarà un grande divario tra te e gli altri; sarai superiore di molto a tutti gli uomini e gli dèi non saranno di molto superiori a te. Chiedi quale differenza ci sarà tra te e loro? Vivranno più a lungo. Ma, perbacco, ci vuole una grande abilità a racchiudere tutto in poco spazio; per il saggio la propria vita si estende quanto per dio l'eternità. Ma c'è qualcosa in cui il saggio può essere superiore a dio: quegli non teme nulla per merito della sua natura, il saggio per merito suo. 12 Ecco una gran cosa, avere la debolezza di un uomo e la tranquillità di un dio. È incredibile la forza della filosofia nel respingere ogni attacco della sorte. Nessun'arma si conficca nel suo corpo; è ben difesa e salda; certi dardi li neutralizza e, come se fossero colpi leggeri, li para con le pieghe dell'ampia veste, altri li rende vani e li respinge contro chi li aveva scagliati. Stammi bene.

LIV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Longum mihi commeatum dederat mala valetudo; repente me invasit. 'Quo genere?' inquis. Prorsus merito interrogas: adeo nullum mihi ignotum est. Uni tamen morbo quasi assignatus sum, quem quare Graeco nomine appellem nescio; satis enim apte dici suspirium potest. Brevis autem valde et procellae similis est impetus; intra horam fere desinit: quis enim diu exspirat? [2] Omnia corporis aut incommoda aut pericula per me transierunt: nullum mihi videtur molestius. Quidni? aliud enim quidquid est aegrotare est, hoc animam egerere. Itaque medici hanc 'meditationem mortis' vocant; facit enim aliquando spiritus ille quod saepe conatus est. Hilarem me putas haec tibi scribere quia effugi? [3] Tam ridicule facio, si hoc fine quasi bona valetudine delector, quam ille, quisquis vicisse se putat cum vadimonium distulit.

1 La malattia mi aveva accordato una lunga tregua; all'improvviso mi ha assalito ancora. "Di che malattia parli?" chiederai. Domanda giusta: nessun male mi è sconosciuto. Ma a uno in particolare sono come destinato: non so perché dovrei usare un termine greco: "difficoltà di respiro" è una definizione abbastanza adatta. L'attacco è brevissimo e simile a una tempesta; finisce per lo più nel giro di un'ora: e chi mai potrebbe agonizzare a lungo? 2 Su di me sono passati tutti i malanni e i pericoli cui è soggetto il nostro corpo, ma nessuno mi sembra più penoso. E perché no? Qualunque altra infermità significa essere malati, questa è esalare l'anima. Perciò i medici la chiamano "preparazione alla morte": un giorno il respiro riesce a fare quello che ha spesso tentato. 3 Se mi compiacessi di questa stasi come di una guarigione sarei ridicolo, quanto un individuo che pensasse di aver vinto solamente perché è riuscito a rimandare il processo.

Ego vero et in ipsa suffocatione non desii cogitationibus laetis ac fortibus acquiescere. [4] 'Quid hoc est?' inquam 'tam saepe mors experitur me? Faciat: [at] ego illam diu expertus sum. ' 'Quando?' inquis. Antequam nascerer. Mors est non esse. Id quale sit iam scio: hoc erit post me quod ante me fuit. Si quid in hac re tormenti est, necesse est et fuisse, antequam prodiremus in lucem; atqui nullam sensimus tunc vexationem. [5] Rogo, non stultissimum dicas si quis existimet lucernae peius esse cum exstincta est quam antequam accenditur? Nos quoque et exstinguimur et accendimur: medio illo tempore aliquid patimur, utrimque vero alta securitas est. In hoc enim, mi Lucili, nisi fallor, erramus, quod mortem iudicamus sequi, cum illa et praecesserit et secutura sit. Quidquid ante nos fuit mors est; quid enim refert non incipias an desinas, cum utriusque rei hic sit effectus, non esse?

Ma io, anche quando ero sul punto di soffocare, ho sempre trovato conforto in pensieri lieti e forti. 4 "Che c'è?" mi dico, "La morte mi mette alla prova tanto spesso? Faccia pure: l'ho sperimentata a lungo." "Quando?" mi chiedi. Prima di nascere. La morte è non esistere. E ormai so com'è: dopo di me sarà ciò che fu prima di me. Se nella morte c'è tormento, ci fu necessariamente anche prima che venissimo alla luce; ma allora non sentimmo nessuna sofferenza. 5 Ti chiedo: se uno pensasse che per una lucerna è peggio quando è spenta che prima di essere accesa, non lo giudicheresti veramente stupido? Anche noi ci accendiamo e ci spegniamo: in quell'intervallo proviamo qualche sofferenza; prima e dopo, invece, c'è una profonda serenità. Questo, se non m'inganno, è il nostro errore, Lucilio mio: crediamo che la morte ci segua e, invece, ci ha preceduto e ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte; che importa se non cominci oppure finisci, quando il risultato in entrambi i casi è questo: non esistere.

[6] His et eiusmodi exhortationibus - tacitis scilicet, nam verbis locus non erat - alloqui me non desii; deinde paulatim suspirium illud, quod esse iam anhelitus coeperat, intervalla maiora fecit et retardatum est. At remansit, nec adhuc, quamvis desierit, ex natura fluit spiritus; sentio haesitationem quandam eius et moram. Quomodo volet, dummodo non ex animo suspirem. [7] Hoc tibi de me recipe: non trepidabo ad extrema, iam praeparatus sum, nihil cogito de die toto. Illum tu lauda et imitare quem non piget mori, cum iuvet vivere: quae est enim virtus, cum eiciaris, exire? Tamen est et hic virtus: eicior quidem, sed tamquam exeam. Et ideo numquam eicitur sapiens quia eici est inde expelli unde invitus recedas: nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est. Vale.

6 Ho continuato a rivolgere a me stesso queste e altre esortazioni dello stesso tipo (in silenzio, s'intende: non potevo parlare); poi a poco a poco quella difficoltà di respiro, che ormai cominciava a essere affanno, venne a intervalli maggiori e si arrestò. Ma ha lasciato uno strascico e pur essendo finito l'attacco, la respirazione non è ancora tornata alla normalità; sento che è come impacciata e impedita. Sia come sia, purché l'affanno non provenga dall'anima. 7 Tieni questo per certo: non trepiderò nel momento supremo, sono ormai preparato, non faccio programmi per l'intera giornata. Tu apprezza e imita l'uomo a cui non rincresce morire, quando vivere gli è gradito: che coraggio ci sarebbe a morire, se si è banditi dalla vita? Tuttavia, anche in questo caso ci può essere coraggio: sì, sono scacciato, ma me ne vado come se lo facessi di mia volontà. Perciò il saggio non sarà mai scacciato: essere scacciato significa essere allontanato da un luogo contro la propria volontà; ma il saggio non fa niente contro la sua volontà; sfugge alla necessità perché vuole ciò che essa gli imporrà di fare. Stammi bene.

LV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] A gestatione cum maxime venio, non minus fatigatus quam si tantum ambulassem quantum sedi; labor est enim et diu ferri, ac nescio an eo maior quia contra naturam est, quae pedes dedit ut per nos ambularemus, oculos ut per nos videremus. Debilitatem nobis indixere deliciae, et quod diu noluimus posse desimus. [2] Mihi tamen necessarium erat concutere corpus, ut, sive bilis insederat faucibus, discuteretur, sive ipse ex aliqua causa spiritus densior erat, extenuaret illum iactatio, quam profuisse mihi sensi. Ideo diutius vehi perseveravi invitante ipso litore, quod inter Cumas et Servili Vatiae villam curvatur et hinc mari, illinc lacu velut angustum iter cluditur. Erat autem a recenti tempestate spissum; fluctus enim illud, ut scis, frequens et concitatus exaequat, longior tranquillitas solvit, cum harenis, quae umore alligantur, sucus abscessit.

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1 Ritorno proprio ora dalla passeggiata in lettiga stanco come se avessi camminato tanto tempo quanto sono stato seduto: è una fatica anche l'essere trasportati a lungo e non so se è maggiore perché contro natura: la natura ci ha dato i piedi per camminare da soli, gli occhi per vedere da soli. Le mollezze ci hanno indebolito e non possiamo più fare ciò che per lungo tempo non abbiamo voluto fare. 2 Tuttavia era per me indispensabile scuotere il corpo, sia perché si dissipasse la bile che avevo in gola, sia perché lo sballottamento normalizzasse il respiro che per qualche motivo era troppo frequente; insomma, mi è parso che mi giovasse. Ho, perciò continuato a farmi trasportare, invitato anche dalla costa, che forma una curva tra Cuma e la villa di Servilio Vazia: da una parte il mare, dall'altra il lago la chiudono a formare uno stretto passaggio. Una recente burrasca lo aveva reso compatto; come sai, le onde ripetute e violente spianano il litorale; un periodo piuttosto lungo di bel tempo, invece, lo sfalda, perché la sabbia, che viene tenuta insieme dall'acqua, perde l'umidità.


[3] Ex consuetudine tamen mea circumspicere coepi an aliquid illic invenirem quod mihi posset bono esse, et derexi oculos in villam quae aliquando Vatiae fuit. In hac ille praetorius dives, nulla alia re quam otio notus, consenuit, et ob hoc unum felix habebatur. Nam quotiens aliquos amicitiae Asinii Galli, quotiens Seiani odium, deinde amor merserat - aeque enim offendisse illum quam amasse periculosum fuit -, exclamabant homines, 'o Vatia, solus scis vivere'. [4] At ille latere sciebat, non vivere; multum autem interest utrum vita tua otiosa sit an ignava. Numquam aliter hanc villam Vatia vivo praeteribam quam ut dicerem, 'Vatia hic situs est'. Sed adeo, mi Lucili, philosophia sacrum quiddam est et venerabile ut etiam si quid illi simile est mendacio placeat. Otiosum enim hominem seductum existimat vulgus et securum et se contentum, sibi viventem, quorum nihil ulli contingere nisi sapienti potest. Ille solus scit sibi vivere; ille enim, quod est primum, scit vivere. [5] Nam qui res et homines fugit, quem cupiditatum suarum infelicitas relegavit, qui alios feliciores videre non potuit, qui velut timidum atque iners animal metu oblituit, ille sibi non vivit, sed, quod est turpissimum, ventri, somno, libidini; non continuo sibi vivit qui nemini. Adeo tamen magna res est constantia et in proposito suo perseverantia ut habeat auctoritatem inertia quoque pertinax.


3 Come mia abitudine, ho cominciato a guardarmi intorno per trovare qualcosa che potesse essermi utile e ho rivolto lo sguardo alla villa che un tempo era di Vazia. Là era diventato vecchio quel ricco ex pretore, noto solo per la sua vita ritirata e solo per questo motivo ritenuto fortunato. Tutte le volte che l'amicizia per Asinio Gallo, oppure l'odio o l'amore per Seiano (era ugualmente pericoloso sia averlo offeso, sia averlo amato) faceva cadere qualcuno in disgrazia, la gente esclamava: "Vazia, tu solo sai vivere." 4 Ma lui sapeva stare nascosto, non vivere; c'è una grande differenza tra una vita ritirata e una vita oziosa. Non passavo mai davanti a questa villa, quando era vivo, senza dire: "Qui è sepolto Vazia." Ma, mio caro Lucilio, la filosofia è talmente sacra e veneranda che se qualcosa le somiglia, la apprezziamo nonostante sia una contraffazione. Per la massa chi conduce una vita appartata è un uomo libero da impegni, sereno, soddisfatto di sé, che vive per se stesso; e, invece, tutto ciò può toccare solo al saggio. Lui solo sa vivere per se stesso, perché egli, e questa è la cosa più importante, sa vivere. 5 Chi fugge uomini e cose, chi si isola perché deluso nelle proprie aspettative, chi non può sopportare la vista di altri più fortunati, chi si nasconde per paura, come un animale pavido e incapace di reagire, quell'uomo non vive per se stesso, ma, ed è veramente una vergogna, per mangiare, dormire e soddisfare tutti i propri piaceri. Non vive per sé chi non vive per nessuno. Tuttavia l'essere costanti e il perseverare nei propri propositi ha una forza tale che anche l'inerzia ostinata incute un certo rispetto.


[6] De ipsa villa nihil tibi possum certi scribere; frontem enim eius tantum novi et exposita, quae ostendit etiam transeuntibus. Speluncae sunt duae magni operis, cuivis laxo atrio pares, manu factae, quarum altera solem non recipit, altera usque in occidentem tenet. Platanona medius rivus et a mari et ab Acherusio lacu receptus euripi modo dividit, alendis piscibus, etiam si assidue exhauriatur, sufficiens. Sed illi, cum mare patet, parcitur: cum tempestas piscatoribus dedit ferias, manus ad parata porrigitur. [7] Hoc tamen est commodissimum in villa, quod Baias trans parietem habet: incommodis illarum caret, voluptatibus fruitur. Has laudes eius ipse novi: esse illam totius anni credo; occurrit enim Favonio et illum adeo excipit ut Bais neget. Non stulte videtur elegisse hunc locum Vatia in quem otium suum pigrum iam et senile conferret.


6 Sulla villa non ti posso scrivere niente di preciso; ne conosco solo la facciata e l'esterno visibile a chiunque passi. Ci sono due grotte artificiali, opera grandiosa, ampie come un vasto atrio: sull'una non batte mai il sole, l'altra lo riceve fino al tramonto. Un ruscello, formato dall'acqua del mare e del lago Acherusio, simile a un canale, attraversa un boschetto di platani ed è sufficiente a nutrire dei pesci, anche se vi si attinge incessantemente. Quando si può andare per mare, lo si risparmia; ma se il brutto tempo costringe i pescatori a un riposo forzato, si mette mano a quella comoda riserva. 7 La maggiore prerogativa della villa è, però l'avere Baia vicina: si godono i piaceri che essa offre, senza subirne gli svantaggi. E so che ha anche questo vantaggio: penso sia abitabile tutto l'anno; vi soffia, infatti, lo zefiro, che essa riceve togliendolo a Baia. Non fu sciocco Vazia a scegliere questa località per trascorrervi da vecchio una vita appartata e inoperosa.


[8] Sed non multum ad tranquillitatem locus confert: animus est qui sibi commendet omnia. Vidi ego in villa hilari et amoena maestos, vidi in media solitudine occupatis similes. Quare non est quod existimes ideo parum bene compositum esse te quod in Campania non es. Quare autem non es? huc usque cogitationes tuas mitte. [9] Conversari cum amicis absentibus licet, et quidem quotiens velis, quamdiu velis. Magis hac voluptate, quae maxima est, fruimur dum absumus; praesentia enim nos delicatos facit, ct quia aliquando una loquimur, ambulamus, consedimus, cum diducti sumus nihil de iis quos modo vidimus cogitamus. [10] Et ideo aequo animo ferre debemus absentiam, quia nemo non multum etiam praesentibus abest. Pone hic primum noctes separatas, deinde occupationes utrique diversas, deinde studia secreta, suburbanas profectiones: videbis non multum esse quod nobis peregrinatio eripiat. [11] Amicus animo possidendus est; hic autem numquam abest; quemcumque vult cotidie videt. Itaque mecum stude, mecum cena, mecum ambula: in angusto vivebamus, si quicquam esset cogitationibus clusum. Video te, mi Lucili; cum maxime audio; adeo tecum sum ut dubitem an incipiam non epistulas sed codicellos tibi scribere. Vale.


8 Ma il luogo di residenza influisce poco sulla serenità: è l'animo che dà valore alle cose. Ho visto con i miei occhi uomini tristi in ville ridenti e amene, ho visto uomini che parevano indaffarati in piena solitudine. Perciò non devi pensare di non star bene perché non sei in Campania. E perché, poi, non ci sei? Indirizza qui i tuoi pensieri. 9 Puoi intrattenerti con gli amici assenti ogni volta e per tutto il tempo che vuoi. Quando siamo lontani godiamo maggiormente di questo grandissimo piacere; il frequentarsi ci rende esigenti e poiché talvolta parliamo, passeggiamo, sediamo insieme, quando ci separiamo non pensiamo alle persone che abbiamo visto da poco. 10 Dobbiamo sopportare serenamente la lontananza perché spesso si è molto distanti anche da chi ci sta vicino. Tieni conto innanzi tutto della separazione notturna, poi delle occupazioni diverse, degli studi fatti in solitudine, degli spostamenti fuori città: vedrai che i viaggi non ci tolgono molto. 11 L'amico bisogna averlo nel cuore; il cuore non è mai lontano e ogni giorno vede chi vuole. Perciò studia con me, pranza con me, con me passeggia: vivremmo davvero un'esistenza ristretta, se i nostri pensieri avessero un limite. Ti vedo, mio caro, proprio ora ti sento; ti sono così vicino che non so se devo cominciare a scriverti una lettera o un biglietto. Stammi bene.


LVI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Peream si est tam necessarium quam videtur silentium in studia seposito. Ecce undique me varius clamor circumsonat: supra ipsum balneum habito. Propone nunc tibi omnia genera vocum quae in odium possunt aures adducere: cum fortiores exercentur et manus plumbo graves iactant, cum aut laborant aut laborantem imitantur, gemitus audio, quotiens retentum spiritum remiserunt, sibilos et acerbissimas respirationes; cum in aliquem inertem et hac plebeia unctione contentum incidi, audio crepitum illisae manus umeris, quae prout plana pervenit aut concava, ita sonum mutat. Si vero pilicrepus supervenit et numerare coepit pilas, actum est. [2] Adice nunc scordalum et furem deprensum et illum cui vox sua in balineo placet, adice nunc eos qui in piscinam cum ingenti impulsae aquae sono saliunt. Praeter istos quorum, si nihil aliud, rectae voces sunt, alipilum cogita tenuem et stridulam vocem quo sit notabilior subinde exprimentem nec umquam tacentem nisi dum vellit alas et alium pro se clamare cogit; iam biberari varias exclamationes et botularium et crustularium et omnes popinarum institores mercem sua quadam et insignita modulatione vendentis.

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1 Che io possa morire se, quando uno se ne sta appartato a studiare, il silenzio è necessario come si pensa. Ecco, intorno a me risuonano da ogni parte schiamazzi di tutti i tipi: abito proprio sopra uno stabilimento balneare. Immagina ora ogni genere di baccano odioso agli orecchi: quando i più forti si allenano e fanno sollevamento pesi, quando faticano o fingono di faticare, odo gemiti, e, tutte le volte che trattengono il fiato ed espirano, sibili e ansiti; quando càpita qualcuno pigro che si contenta di un normale massaggio, sento lo scroscio delle mani che percuotono le spalle e che dànno un suono diverso se battono piatte o ricurve. Se poi arrivano quelli che giocano a palla e cominciano a contare i colpi, è fatta. 2 Mettici ancora l'attaccabrighe, il ladro colto in flagrante, quello cui piace sentire la propria voce mentre fa il bagno, e poi le persone che si tuffano in piscina e smuovendo l'acqua fanno un fracasso indiavolato. Oltre a tutti questi che, se non altro, hanno voci normali, pensa al depilatore che spesso sfodera una vocetta sottile e stridula per farsi notare e tace solo quando depila le ascelle e costringe un altro a gridare al suo posto. Poi ci sono i vari richiami del venditore di bibite, il salsicciaio, il pasticcere e tutti gli esercenti delle taverne che vendono la loro merce con una particolare modulazione della voce.


[3] 'O te' inquis 'ferreum aut surdum, cui mens inter tot clamores tam varios, tam dissonos constat, cum Chrysippum nostrum assidua salutatio perducat ad mortem. ' At mehercules ego istum fremitum non magis curo quam fluctum aut deiectum aquae, quamvis audiam cuidam genti hanc unam fuisse causam urbem suam transferendi, quod fragorem Nili cadentis ferre non potuit. [4] Magis mihi videtur vox avocare quam crepitus; illa enim animum adducit, hic tantum aures implet ac verberat. In his quae me sine avocatione circumstrepunt essedas transcurrentes pono et fabrum inquilinum et serrarium vicinum, aut hunc qui ad Metam Sudantem tubulas experitur et tibias, nec cantat sed exclamat: [5] etiam nunc molestior est mihi sonus qui intermittitur subinde quam qui continuatur. Sed iam me sic ad omnia ista duravi ut audire vel pausarium possim voce acerbissima remigibus modos dantem. Animum enim cogo sibi intentum esse nec avocari ad externa; omnia licet foris resonent, dum intus nihil tumultus sit, dum inter se non rixentur cupiditas et timor, dum avaritia luxuriaque non dissideant nec altera alteram vexet. Nam quid prodest totius regionis silentium, si affectus fremunt?


3 "Sei di ferro", dici, "oppure sordo, se rimani presente a te stesso fra tanti rumori diversi e discordi, mentre al nostro Crisippo sembra di morire per il continuo salutare." Ma, perbacco, io di questo frastuono non mi curo più che dello scorrere o del cadere dell'acqua, sebbene senta che un popolo si è trasferito altrove per questo solo motivo: non poteva sopportare il fragore delle cascate del Nilo. 4 Secondo me la voce distrae più del frastuono: quella attira l'attenzione, quest'ultimo riempie e colpisce solo le orecchie. Tra i rumori che mi risuonano intorno senza distrarmi metto le vetture che passano in corsa, l'artigiano, mio coinquilino, e il vicino fabbro, oppure quel tale che, presso la Meta Sudante, prova trombette e flauti, e non suona, ma strepita: 5 un suono intermittente mi dà, però più fastidio di uno continuo. Ma ormai mi sono così corazzato contro tutti questi rumori, che potrei udire persino il comito dare il tempo ai rematori con voce stridula. Costringo la mente a rimanere assorta in se stessa senza farsi distrarre da fattori esterni; risuoni pure fuori di me ogni genere di fracasso, purché interiormente non ci sia scompiglio, purché non combattano tra loro cupidigia e paura, purché l'avarizia e l'intemperanza non siano in lotta e l'una non tormenti l'altra. A che serve il silenzio dell'intero quartiere, se le passioni si agitano in noi? [6] Omnia noctis erant placida composta quiete.


Falsum est: nulla placida est quies nisi quam ratio composuit; nox exhibet molestiam, non tollit, et sollicitudines muta. Nam dormientium quoque insomnia tam turbulenta sunt quam dies: illa tranquillitas vera est in quam bona mens explicatur. [7] Aspice illum cui somnus laxae domus silentio quaeritur, cuius aures ne quis agitet sonus, omnis servorum turba conticuit et suspensum accedentium propius vestigium ponitur: huc nempe versatur atque illuc, somnum inter aegritudines levem captans; quae non audit audisse se queritur. [8] Quid in causa putas esse? Animus illi obstrepit. Hic placandus est, huius compescenda seditio est, quem non est quod existimes placidum, si iacet corpus: interdum quies inquieta est; et ideo ad rerum actus excitandi ac tractatione bonarum artium occupandi sumus, quotiens nos male habet inertia sui impatiens. [9] Magni imperatores, cum male parere militem vident, aliquo labore compescunt et expeditionibus detinent: numquam vacat lascivire districtis, nihilque tam certum est quam otii vitia negotio discuti. Saepe videmur taedio rerum civilium et infelicis atque ingratae stationis paenitentia secessisse; tamen in illa latebra in quam nos timor ac lassitudo coniecit interdum recrudescit ambitio. Non enim excisa desit, sed fatigata aut etiam obirata rebus parum sibi cedentibus. [10] Idem de luxuria dico, quae videtur aliquando cessisse, deinde frugalitatem professos sollicitat atque in media parsimonia voluptates non damnatas sed relictas petit, et quidem eo vehementius quo occultius. Omnia enim vitia in aperto leniora sunt; morbi quoque tunc ad sanitatem inclinant cum ex abdito erumpunt ac vim sui proferunt. Et avaritiam itaque et ambitionem et cetera mala mentis humanae tunc perniciosissima scias esse cum simulata sanitate subsidunt. [11] Otiosi videmur, et non sumus. Nam si bona fide sumus, si receptui cecinimus, si speciosa contempsimus, ut paulo ante dicebam, nulla res nos avocabit, nullus hominum aviumque concentus interrumpet cogitationes bonas, solidasque iam et certas. [12] Leve illud ingenium est nec sese adhuc reduxit introsus quod ad vocem et accidentia erigitur; habet intus aliquid sollicitudinis et habet aliquid concepti pavoris quod illum curiosum facit, ut ait Vergilius noster: et me, quem dudum non ulla iniecta movebant tela neque adverso glomerati e agmine Grai, nunc omnes terrent aurae, sonus excitat omnis suspensum et pariter comitique onerique timentem.


6 Tutto era tranquillo nella placida quiete della notte. È falso: non esiste nessuna placida quiete se non quella regolata dalla ragione; la notte rivela l'inquietudine, non la elimina, cambia semplicemente gli affanni. Quando dormiamo, i nostri sogni sono tormentati come le nostre giornate: la vera tranquillità è quella in cui si dispiega la saggezza. 7 Guarda quell'uomo cui si cerca di conciliare il sonno facendo silenzio nell'ampia dimora: tutta la schiera dei servi tace e quelli che si avvicinano alla sua stanza camminano in punta di piedi, perché nessun rumore disturbi le sue orecchie: ma lui si gira di qua e di là e cerca di prendere un pò di sonno tra le sue preoccupazioni; si lamenta di aver udito qualcosa, in realtà non ha sentito niente. 8 Secondo te qual è il motivo? È l'anima che strepita dentro di lui. Questa bisogna placare, è la sua rivolta che deve essere sedata; non devi pensare che l'anima è tranquilla, se il corpo riposa: talvolta la quiete stessa è carica di inquietudine; perciò dobbiamo essere spronati ad agire e impegnarci a svolgere qualche nobile attività tutte le volte che l'inerzia, insofferente di se stessa, ci fa star male. 9 I grandi generali, quando vedono che un soldato obbedisce controvoglia, lo tengono a freno con qualche occupazione e lo impiegano in spedizioni militari. Chi ha molto da fare non ha tempo di abbandonarsi alla dissolutezza. Senza dubbio il lavoro cancella i vizi generati dall'ozio. Spesso ci si ritira a vita privata apparentemente per disgusto dell'attività politica e malcontenti di una posizione sterile e sgradita; tuttavia in quel nascondiglio dove ci hanno gettato la paura e la stanchezza a volte si risveglia l'ambizione: non era stata estirpata; era come spossata o anche sdegnata per il fallimento delle proprie aspettative. 10 Lo stesso vale per la dissolutezza: a volte sembra essere definitivamente scomparsa, ma poi tormenta coloro che hanno fatto professione di moderazione e nella parsimonia ricerca i piaceri: erano stati abbandonati, ma non condannati e li ricerca con più impeto quanto più è nascosta. Tutti i vizi, se manifesti, sono meno gravi; anche le malattie si avviano alla guarigione quando esplodono e mostrano la loro virulenza. Sappi che l'avarizia, l'ambizione e le altre infermità spirituali dell'uomo sono pericolosissime se si nascondono sotto un'apparente salute. 11 Sembriamo quieti, ma in realtà non è così. Se siamo in buona fede, se abbiamo chiamato a raccolta le nostre forze, se, come dicevo poco prima, abbiamo disprezzato le belle apparenze, niente ci distoglierà: nessuna voce di uomini o canto di uccelli interromperà i nostri buoni propositi, ormai saldi e fermi. 12 Chi presta attenzione alle voci e agli eventi fortuiti, ha un'indole incostante e incapace di raccoglimento interiore; ha in sé preoccupazioni e timori che lo rendono ansioso, come scrive il nostro Virgilio: e io, che poco tempo fa non temevo i dardi scagliati, né i Greci raccolti in schiere contro di noi, ora sono spaventato da ogni soffio di vento, ogni suono mi scuote e mi tiene in sospeso e temo in egual misura sia per il compagno che per il peso che porto.


[13] Prior ille sapiens est, quem non tela vibrantia, non arietata inter arma agminis densi, non urbis impulsae fragor territat: hic alter imperitus est, rebus suis timet ad omnem crepitum expavescens, quem una quaelibet vox pro fremitu accepta deiecit, quem motus levissimi exanimant; timidum illum sarcinae faciunt. [14] Quemcumque ex istis felicibus elegeris, multa trahentibus, multa portantibus, videbis illum 'comitique onerique timentem'. Tunc ergo te scito esse compositum cum ad te nullus clamor pertinebit, cum te nulla vox tibi excutiet, non si blandietur, non si minabitur, non si inani sono vana circumstrepet. [15] 'Quid ergo? non aliquando commodius est et carere convicio?' Fateor; itaque ego ex hoc loco migrabo. Experiri et exercere me volui: quid necesse est diutius torqueri, cum tam facile remedium Ulixes sociis etiam adversus Sirenas invenerit Vale.


13 Il primo è il saggio che non teme i dardi scagliatigli contro, né l'urto degli eserciti in fila serrata, né il fragore di una città attaccata dai nemici: quest'altro non conosce la filosofia, teme per i suoi beni e trasale a ogni più piccolo rumore, si abbatte per una qualsiasi voce scambiandola per una minaccia, resta senza fiato al più lieve movimento ed è timoroso per i suoi bagagli. 14 Scegli una qualunque tra queste persone fortunate che si tirano dietro o che portano su di sé molti beni, la vedrai "temere per il compagno e per il peso". Sappi che sarai veramente tranquillo solo quando non ti toccherà nessun clamore, quando nessuna voce ti scuoterà, né blanda, né minacciosa, né vana e menzognera. 15 "E allora? Non è preferibile fare a meno una volta buona di questo schiamazzo?" Certo; perciò me ne andrò da questa casa. Ho voluto mettermi alla prova ed esercitarmi: che necessità c'è di farsi tormentare più a lungo, quando Ulisse trovò per i suoi compagni un rimedio tanto semplice anche contro le Sirene? Stammi bene.
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LVII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Cum a Bais deberem Neapolim repetere, facile credidi tempestatem esse, ne iterum navem experirer; et tantum luti tota via fuit ut possim videri nihilominus navigasse. Totum athletarum fatum mihi illo die perpetiendum fuit: a ceromate nos haphe excepit in crypta Neapolitana. [2] Nihil illo carcere longius, nihil illis facibus obscurius, quae nobis praestant non ut per tenebras videamus, sed ut ipsas. Ceterum etiam si locus haberet lucem, pulvis auferret, in aperto quoque res gravis et molesta: quid illic, ubi in se volutatur et, cum sine ullo spiramento sit inclusus, in ipsos a quibus excitatus est recidit? Duo incommoda inter sc contraria simul pertulimus: eadem via, eodem die et luto et pulvere laboravimus.

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1 Dovevo tornare da Baia a Napoli e mi sono subito lasciato convincere che minacciasse un temporale, per non sperimentare di nuovo la nave; ma la strada era tanto fangosa che mi sembra quasi di essere stato ancòra per mare. Quel giorno ho dovuto subire fino in fondo il destino degli atleti: dopo l'unguento, nella galleria di Posillipo, ci ha assalito la polvere. 2 Niente è più lungo di quello stretto passaggio, niente più oscuro di quelle torce che ci servono non a vedere in mezzo alle tenebre, ma a vedere le tenebre. Del resto anche se ci fosse luce, la ingoierebbe la polvere che è fastidiosa e seccante anche all'aperto; immagina là dentro: turbina su se stessa e così rinchiusa, non avendo via d'uscita, ricade su quelli che l'hanno sollevata! Abbiamo perciò sopportato due inconvenienti opposti nel medesimo tempo: per la stessa strada, nello stesso giorno ci hanno tormentato polvere e fango.


[3] Aliquid tamen mihi illa obscuritas quod cogitarem dedit: sensi quendam ictum animi et sine metu mutationem quam insolitae rei novitas simul ac foeditas fecerat. Non de me nunc tecum loquor, qui multum ab homine tolerabili, nedum a perfecto absum, sed de illo in quem fortuna ius perdidit: huius quoque ferietur animus, mutabitur color. [4] Quaedam enim, mi Lucili, nulla effugere virtus potest; admonet illam natura mortalitatis suae. Itaque et vultum adducet ad tristia et inhorrescet ad subita et caligabit, si vastam altitudinem in crepidine eius constitutus despexerit: non est hoc timor, sed naturalis affectio inexpugnabilis rationi. [5] Itaque fortes quidam et paratissimi fundere suum sanguinem alienum videre non possunt; quidam ad vulneris novi, quidam ad veteris et purulenti tractationem inspectionemque succidunt ac linquuntur animo; alii gladium facilius recipiunt quam vident. [6] Sensi ergo, ut dicebam, quandam non quidem perturbationem, sed mutationem: rursus ad primum conspectum redditae lucis alacritas rediit incogitata et iniussa. Illud deinde mecum loqui coepi, quam inepte quaedam magis aut minus timeremus, cum omnium idem finis esset. Quid enim interest utrum supra aliquem vigilarium ruat an mons? nihil invenies. Erunt tamen qui hanc ruinam magis timeant, quamvis utraque mortifera aeque sit; adeo non effectu, sed efficientia timor spectat.


3 Tuttavia quell'oscurità mi ha dato l'occasione di riflettere: ho sentito un colpo al cuore e un'alterazione, ma senza paura, causati dalla stranezza di quella situazione insolita e orribile. Non ti parlo ora di me che sono un uomo molto lontano da un livello accettabile, né, tanto meno, sono perfetto, ma di chi si è sottratto al dominio della sorte: anche costui si turberà e sbiancherà in volto. 4 Ci sono reazioni, mio caro, alle quali nemmeno un uomo virtuoso può sottrarsi: la natura gli ricorda che è mortale. Contrae, perciò il volto di fronte al dolore, rabbrividisce davanti agli imprevisti, gli si annebbia la vista, se dall'orlo di una voragine guarda in basso: questa non è paura, ma un impulso istintivo e irrazionale. 5 Per ciò uomini coraggiosi e prontissimi a versare il loro sangue non sopportano la vista del sangue altrui; certi si sentono venir meno e svengono se vedono medicare o esaminare una ferita recente, altri una ferita vecchia e purulenta. C'è chi preferisce ricevere un colpo di spada che vederlo dare. 6 Sentii, come dicevo, non un turbamento, ma un'alterazione: poi, appena vidi riapparire la luce, ritornai allegro senza pensarci e impormelo. Cominciai allora a dirmi quanto siamo sciocchi a temere certe cose di più, certe altre di meno, quando poi l'esito è identico. Che differenza c'è se ci cade addosso il casotto delle sentinelle o un monte? Nessuna. Eppure c'è chi teme di più quest'ultima evenienza, sebbene entrambe siano ugualmente mortali: abbiamo più paura delle cause che degli effetti.


[7] Nunc me putas de Stoicis dicere, qui existimant animam hominis magno pondere extriti permanere non posse et statim spargi, quia non fuerit illi exitus liber? Ego vero non facio: qui hoc dicunt videntur mihi errare. [8] Quemadmodum flamma non potest opprimi - nam circa id diffugit quo urgetur -, quemadmodum aer verbere atque ictu non laeditur, ne scinditur quidem, sed circa id cui cessit refunditur, sic animus, qui ex tenuissimo constat, deprehendi non potest nec intra corpus effligi, sed beneficio subtilitatis suae per ipsa quibus premitur erumpit. Quomodo fulmini, etiam cum latissime percussit ac fulsit, per exiguum foramen est reditus, sic animo, qui adhuc tenuior est igne, per omne corpus fuga est. [9] Itaque de illo quaerendum est, an possit immortalis esse. Hoc quidem certum habe: si superstes est corpori, opteri illum nullo genere posse, [propter quod non perit] quoniam nulla immortalitas cum exceptione est, nec quicquam noxium aeterno est. Vale.
7 Pensi ora che io segua la dottrina degli Stoici, ossia che l'anima di un uomo schiacciato da un enorme peso, non avendo via d'uscita, non può perdurare e subito si dissolve? No, non lo faccio: la ritengo una teoria sbagliata. 8 Come la fiamma non la si può schiacciare (infatti si propaga intorno all'oggetto che la comprime), come l'aria non viene ferita da colpi o sferzate e nemmeno si scinde, ma si riversa intorno al corpo che ne ha preso il posto; così l'anima, formata di particelle sottilissime, non può essere presa o uccisa dentro il corpo, ma, grazie alla sua sottigliezza, erompe attraverso ciò che la comprime. Come il fulmine, anche se ha colpito e illuminato un ampio spazio, si ritira attraverso una piccola apertura, così l'anima, più sottile ancòra del fuoco, può fuggire attraverso ogni corpo. 9 Sorge, perciò il problema della sua immortalità. Tieni questo per certo: se sopravvive al corpo, non può essere annientata in nessun modo: l'immortalità non ammette eccezioni e, d'altra parte, nulla può nuocere a ciò che è eterno. Stammi bene.
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LVIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Quanta verborum nobis paupertas, immo egestas sit, numquam magis quam hodierno die intellexi. Mille res inciderunt, cum forte de Platone loqueremur, quae nomina desiderarent nec haberent, quaedam vero cum habuissent fastidio nostro perdidissent. Quis autem ferat in egestate fastidium? [2] Hunc quem Graeci 'oestron' vocant, pecora peragentem et totis saltibus dissipantem, 'asilum' nostri vocabant. Hoc Vergilio licet credas:
est lucum Silari iuxta ilicibusque virentem plurimus Alburnum volitans, cui nomen asilo Romanum est, oestrum Grai vertere vocantes, asper, acerba sonans, quo tota exterrita silvis diffugiunt armenta.
[3] Puto intellegi istud verbum interisse. Ne te longe differam, quaedam simplicia in usu erant, sicut 'cernere ferro inter se' dicebant. Idem Vergilius hoc probabit tibi:
ingentis, genitos diversis partibus orbis, inter se coiisse viros et cernere ferro. Quod nunc 'decernere' dicimus: simplicis illius verbi usus amissus est. [4] Dicebant antiqui 'si iusso', id est 'iussero'. Hoc nolo mihi credas, sed eidem Vergilio: cetera, qua iusso, mecum manus inferat arma.

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1 Mai come oggi mi sono reso conto della nostra povertà, anzi penuria di vocaboli. Per caso si parlava di Platone e sono capitati mille concetti che richiedevano un termine appropriato e non lo avevano, e altri che, pur avendolo avuto in passato, lo avevano perso per la nostra sofisticheria. Ma è tollerabile essere schizzinosi nella miseria? 2 Quello che i Greci chiamano oistros (e cioè l'insetto che perseguita il bestiame e lo disperde per i pascoli) i nostri avi lo chiamavano asilus. Puoi credere a Virgilio: Vicino al sacro bosco del Silaro e all'Alburno verdeggiante di lecci vola in fitti sciami un insetto il cui nome romano è asilus e che i Greci chiamano oistros, molesto, dal verso penetrante, che spaventa gli armenti e li fa fuggire per i boschi. 3 Penso sia chiaro che il termine è caduto in disuso. Per non tirarla alle lunghe, si usavano certe forme semplici come cernere ferro inter se. Lo stesso Virgilio lo testimonia: ingentis, genitos diversis partibus orbis, / inter se coiisse viros et cernere ferro. Ora diciamo decernere, si è perso l'uso della parola semplice. 4 Gli antichi dicevano si iusso, ora si dice iussero. Non devi credere a me, ma sempre a Virgilio: cetera, qua iusso, mecum manus inferat arma.


[5] Non id ago nunc hac diligentia ut ostendam quantum tempus apud grammaticum perdiderim, sed ut ex hoc intellegas quantum apud Ennium et Accium verborum situs occupaverit, cum apud hunc quoque, qui cotidie excutitur, aliqua nobis subducta sint. [6] 'Quid sibi' inquis 'ista praeparatio vult? quo spectat?' Non celabo te: cupio, si fieri potest, propitiis auribus tuis 'essentiam' dicere; si minus, dicam et iratis. Ciceronem auctorem huius verbi habeo, puto locupletem; si recentiorem quaeris, Fabianum, disertum et elegantem, orationis etiam ad nostrum fastidium nitidae. Quid enim fiet, mi Lucili? quomodo dicetur 'ousia', res necessaria, natura continens fundamentum omnium? Rogo itaque permittas mihi hoc verbo uti. Nihilominus dabo operam ut ius a te datum parcissime exerceam; fortasse contentus ero mihi licere. [7] Quid proderit facilitas tua, cum ecce id nullo modo Latine exprimere possim propter quod linguae nostrae convicium feci? Magis damnabis angustias Romanas, si scieris unam syllabam esse quam mutare non possum. Quae sit haec quaeris? 'to on'. Duri tibi videor ingenii: in medio positum, posse sic transferri ut dicam 'quod est'. Sed multum interesse video: cogor verbum pro vocabulo ponere; sed si ita necesse est, ponam 'quod est'.


5 Tanto zelo non è per dimostrarti quanto tempo ho perduto a studiare la grammatica, ma per farti capire quanti termini usati da Ennio e da Accio siano ammuffiti, se addirittura ci sono state sottratte parole di Virgilio che pure scorriamo ogni giorno. 6 "Che significa questo preambolo? Dove va a parare?" Non è un segreto: voglio, se è possibile, usare la parola essentia con la tua approvazione; ma, in caso contrario, la userò lo stesso anche se non ti piace. Garante, penso autorevole, di questo vocabolo è Cicerone; se ne vuoi uno più vicino a noi, Fabiano, facondo e raffinato, di eloquenza brillante , realtà necessaria, sostanza che ha in sé il fondamento di tutto? Permettimi allora, ti prego, di usare questo termine. Cercherò peraltro, di esercitare con molta parsimonia il diritto che mi concedi; anzi, forse mi accontenterò solo di questo diritto. 7 A che servirà la tua condiscendenza se, ecco, non posso esprimere in nessun modo in latino il concetto per cui ho criticato la nostra lingua? Tanto più condannerai la limitatezza del latino, sapendo che è una sola la sillaba intraducibile. Qual è?  Certo ti sembro ottuso: è chiaro che si può tradurre "ciò che è". Vedo, però che c'è molta differenza: sono costretto a usare un verbo al posto di un sostantivo; ma, se è necessario, dirò "ciò che è".


[8] Sex modis hoc a Platone dici amicus noster, homo eruditissimus, hodierno die dicebat. Omnes tibi exponam, si ante indicavero esse aliquid genus, esse et speciem. Nunc autem primum illud genus quaerimus ex quo ceterae species suspensae sunt, a quo nascitur omnis divisio, quo universa comprensa sunt. Invenietur autem si coeperimus singula retro legere; sic enim perducemur ad primum. [9] Homo species est, ut Aristoteles ait; equus species est; canis species est. Ergo commune aliquod quaerendum est his omnibus vinculum, quod illa complectatur et sub se habeat. Hoc quid est? animal. Ergo genus esse coepit horum omnium quae modo rettuli - hominis, equi, canis - animal. [10] Sed quaedam [quae] animum habent nec sunt animalia; placet enim satis et arbustis animam inesse; itaque et vivere illa et mori dicimus. Ergo animantia superiorem tenebunt locum, quia et animalia in hac forma sunt et sata. Sed quaedam anima carent, ut saxa; itaque erit aliquid animantibus antiquius, corpus scilicet. Hoc sic dividam ut dicam corpora omnia aut animantia esse aut inanima. [11] Etiam nunc est aliquid superius quam corpus; dicimus enim quaedam corporalia esse, quaedam incorporalia. Quid ergo erit ex quo haec deducantur? illud cui nomen modo parum proprium imposuimus, 'quod est'. Sic enim in species secabitur ut dicamus: 'quod est' aut corporale est aut incorporale. [12] Hoc ergo est genus primum et antiquissimum et, ut ita dicam, generale; cetera genera quidem sunt, sed specialia. Tamquam homo genus est; habet enim in se nationum species, Graecos, Romanos, Parthos; colorum, albos, nigros, flavos; habet singulos, Catonem, Ciceronem, Lucretium. Ita qua multa continet, in genus cadit; qua sub alio est, in speciem. Illud genus 'quod est' generale supra se nihil habet; initium rerum est; omnia sub illo sunt. [13] Stoici volunt superponere huic etiam nunc aliud genus magis principale; de quo statim dicam, si prius illud genus de quo locutus sum merito primum poni docuero, cum sit rerum omnium capax. [14] 'Quod est' in has species divido, ut sint corporalia aut incorporalia; nihil tertium est. Corpus quomodo divido? ut dicam: aut animantia sunt aut inanima. Rursus animantia quemadmodum divido? ut dicam: quaedam animum habent, quaedam tantum animam, at sic: quaedam impetum habent, incedunt, transeunt, quaedam solo affixa radicibus aluntur, crescunt. Rursus animalia in quas species seco? aut mortalia sunt aut immortalia. [15] Primum genus Stoicis quibusdam videtur 'quid'; quare videatur subiciam. 'In rerum' inquiunt 'natura quaedam sunt, quaedam non sunt, et haec autem quae non sunt rerum natura complectitur, quae animo succurrunt, tamquam Centauri, Gigantes et quidquid aliud falsa cogitatione formatum habere aliquam imaginem coepit, quamvis non habeat substantiam. '


8 Mi diceva oggi il nostro amico, uomo molto erudito, che Platone usa questo termine in sei significati diversi. Te li riferirò tutti; prima, però devo spiegarti che esiste un "genere" e anche una "specie". Ora cerchiamo quel genere primo da cui dipendono le altre specie, da cui nasce ogni divisione e che comprende ogni cosa. Lo troveremo passando in rassegna a ritroso i singoli esseri e arriveremo così al primo genere. 9 L'uomo è una specie, come dice Aristotele; il cavallo è una specie; il cane è una specie. Bisogna, perciò ricercare un legame comune a tutti questi esseri, che li abbracci e li comprenda sotto di sé. Qual è? Il genere animale. Quindi comincia a esserci un genere di tutti gli esseri che ho or ora elencato - uomo, cavallo, cane - cioè animale. 10 Ci sono, però esseri che hanno uno spirito, ma non sono animali; alle piante e agli alberi si attribuisce, infatti, uno spirito vitale; diciamo, perciò che vivono e muoiono. Gli esseri animati, quindi, occuperanno il primo posto, poiché in questa categoria ci sono gli animali e le piante. Ma esistono cose prive di spirito vitale, come i sassi; ci sarà, dunque, qualcosa che viene prima degli esseri animati: il corpo naturalmente. Dividerò ora, tutti i corpi in due categorie: animati o inanimati. 11 Ma c'è ancora qualcosa al di sopra del corpo, poiché parliamo di cose corporee o incorporee. E dunque cosa sarà ciò da cui derivano? Quello che prima abbiamo impropriamente definito "ciò che è". Lo divideremo ora in specie e diremo: "ciò che è" o è corporeo o è incorporeo. 12 Questo è il genere primo, il più antico e, per così dire, generale; anche gli altri sono generi, ma particolari. L'uomo è un genere; ha in sé come specie le nazionalità: Greci, Romani, Parti; i colori: bianchi, neri, biondi; ha i singoli individui: Catone, Cicerone, Lucrezio. E così, poiché racchiude molti esseri, è un genere; ed è una specie, poiché è subordinato a un altro genere. Il genere generale "ciò che è" non ha niente al di sopra di sé; è il principio delle cose, tutto gli è subordinato. 13 Gli Stoici vogliono porre al di sopra di questo un altro genere che viene ancora prima. Te ne parlerò subito dopo aver dimostrato che quel genere, di cui si è detto, occupa a ragione il primo posto, perché contiene in sé ogni cosa. 14 "Ciò che è" lo divido in due specie, corporea e incorporea; non ce n'è una terza. E il corpo come lo divido? Così: esseri animati o inanimati. A loro volta come divido gli esseri animati? Certi hanno l'anima, certi hanno solo lo spirito vitale; oppure così: certi si muovono, avanzano, passano da un posto all'altro, certi, fissi al suolo, si nutrono attraverso le radici e crescono. E gli esseri animati in quali specie li divido? Esseri mortali o immortali. 15 Alcuni Stoici ritengono che il genere primo sia un "qualcosa"' eccone il motivo. "In natura," dicono, "certe cose esistono, altre non esistono, ma la natura comprende anche quelle che non esistono e che sono frutto dell'immaginazione, come i Centauri, i Giganti e tutto ciò che, nato da una falsa credenza, ha assunto un'immagine, sebbene priva di sostanza."


[16] Nunc ad id quod tibi promisi revertor, quomodo quaecumque sunt in sex modos Plato partiatur. Primum illud 'quod est' nec visu nec tactu nec ullo sensu comprenditur: cogitabile est. Quod generaliter est, tamquam homo generalis, sub oculos non venit; sed specialis venit, ut Cicero et Cato. Animal non videtur: cogitatur. Videtur autem species eius, equus et canis. [17] Secundum ex his quae sunt ponit Plato quod eminet et exsuperat omnia; hoc ait per excellentiam esse. Poeta communiter dicitur - omnibus enim versus facientibus hoc nomen est - sed iam apud Graecos in unius notam cessit: Homerum intellegas, cum audieris poetam. Quid ergo hoc est? deus scilicet, maior ac potentior cunctis. [18] Tertium genus est eorum quae proprie sunt; innumerabilia haec sunt, sed extra nostrum posita conspectum. Quae sint interrogas? Propria Platonis supellex est: 'ideas' vocat, ex quibus omnia quaecumque videmus fiunt et ad quas cuncta formantur. Hae immortales, immutabiles, inviolabiles sunt. [19] Quid sit idea, id est quid Platoni esse videatur, audi: 'idea est eorum quae natura fiunt exemplar aeternum'. Adiciam definitioni interpretationem, quo tibi res apertior fiat. Volo imaginem tuam facere. Exemplar picturae te habeo, ex quo capit aliquem habitum mens nostra quem operi suo imponat; ita illa quae me docet et instruit facies, a qua petitur imitatio, idea est. Talia ergo exemplaria infinita habet rerum natura, hominum, piscium, arborum, ad quae quodcumque fieri ab illa debet exprimitur. [20] Quartum locum habebit idos. Quid sit hoc idos attendas oportet, et Platoni imputes, non mihi, hanc rerum difficultatem; nulla est autem sine difficultate subtilitas. Paulo ante pictoris imagine utebar. Ille cum reddere Vergilium coloribus vellet, ipsum intuebatur. Idea erat Vergilii facies, futuri operis exemplar; ex hac quod artifex trahit et operi suo imposuit idos est. Quid intersit quaeris? Alterum exemplar est, alterum forma ab exemplari sumpta et operi imposita; alteram artifex imitatur, alteram facit. Habet aliquam faciem statua: haec est idos. Habet aliquam faciem exemplar ipsum quod intuens opifex statuam figuravit: haec idea est. Etiam nunc si aliam desideras distinctionem, idos in opere est, idea extra opus, nec tantum extra opus est, sed ante opus. [22] Quintum genus est eorum quae communiter sunt; haec incipiunt ad nos pertinere; hic sunt omnia, homines, pecora, res. Sextum genus eorum quae quasi sunt, tamquam inane, tamquam tempus.

16 Ritorno ora a quello che ti ho promesso, ossia come Platone divida in sei gruppi tutti gli esseri. Quel primo elemento definito "ciò che è" non si percepisce né con la vista, né col tatto, né con gli altri sensi: è solo pensabile. Ciò che è in forma generale, come il genere uomo, non è visibile; ma è visibile l'individuo particolare, come Cicerone e Catone. Noi non vediamo il genere animale; lo pensiamo. Ne vediamo, invece, la specie, cavallo, cane. 17 Al secondo posto tra tutti gli esseri Platone colloca quello che sovrasta ed è superiore a tutti; lo definisce l'essere per eccellenza. Poeta è una parola di uso comune (tutti coloro che compongono versi hanno questo nome), ma presso i Greci sta a designare uno solo: quando si sente dire poeta, si intende Omero. Chi è, allora, questo essere? Naturalmente dio, il più grande e il più potente di tutti gli esseri. 18 Il terzo gruppo comprende quegli esseri che hanno un'esistenza propria; sono innumerevoli, ma non sono visibili ai nostri occhi. Quali sono? È una concezione particolare di Platone: le chiama "idee": tutto ciò che vediamo deriva da esse e su di esse si modella. Sono immortali, immutabili, inviolabili. 19 Senti ora che cos'è un'idea, o meglio, che cos'è per Platone: "L'idea è il modello immortale degli esseri che la natura genera." Ti spiegherò ora questa definizione perché ti sia più chiaro il concetto. Voglio fare il tuo ritratto. Ho te come modello del dipinto e la mia mente ne trae un aspetto da fissare nella sua opera; così quell'immagine che mi ammaestra e mi indirizza e da cui deriva l'imitazione, è l'idea. La natura possiede in numero infinito tali modelli di uomini, di pesci, di alberi e a questi si conforma tutto ciò che da essa nasce. 20 Il quarto posto l'occupa l'idos. Devi fare ben attenzione per capire cosa sia questo idos e imputare a Platone, non a me, la difficoltà del concetto; ma non c'è sottigliezza priva di difficoltà. Poco fa mi sono servito dell'esempio del pittore. Quello, per fare il ritratto di Virgilio, doveva guardarlo. L'immagine di Virgilio era l'idea, il modello della futura opera; ciò che l'artista ne trae e ha impresso nella sua opera è l'idos. 21 Che differenza c'è, chiedi? L'idea è il modello, l'idos la forma desunta dal modello e impressa nell'opera; l'artista imita l'una, crea l'altro. La statua ha un'immagine: questa è l'idos. Il modello stesso ha un'immagine cui ha guardato l'artista dando forma alla statua: questa è l'idea. Ancora, se vuoi un'altra distinzione: l'idos è nell'opera, l'idea è fuori dell'opera, e non solo fuori, ma precedente a essa. 22 Al quinto gruppo appartengono gli esseri che esistono comunemente: questi cominciano a riguardarci; qui c'è tutto: uomini, bestie, cose. Il sesto gruppo comprende le cose che quasi esistono, come lo spazio, il tempo.


Quaecumque videmus aut tangimus Plato in illis non numerat quae esse proprie putat; fluunt enim et in assidua deminutione atque adiectione sunt. Nemo nostrum idem est in senectute qui fuit iuvenis; nemo nostrum est idem mane qui fuit pridie. Corpora nostra rapiuntur fluminum more. Quidquid vides currit cum tempore; nihil ex iis quae videmus manet; ego ipse, dum loquor mutari ista, mutatus sum. [23] Hoc est quod ait Heraclitus: 'in idem flumen bis descendimus et non descendimus'. Manet enim idem fluminis nomen, aqua transmissa est. Hoc in amne manifestius est quam in homine; sed nos quoque non minus velox cursus praetervehit, et ideo admiror dementiam nostram, quod tantopere amamus rem fugacissimam, corpus, timemusque ne quando moriamur, cum omne momentum mors prioris habitus sit: vis tu non timere ne semel fiat quod cotidie fit! [24] De homine dixi, fluvida materia et caduca et omnibus obnoxia causis: mundus quoque, aeterna res et invicta, mutatur nec idem manet. Quamvis enim omnia in sc habeat quae habuit, aliter habet quam habuit: ordinem mutat.Tutto ciò che vediamo o tocchiamo Platone non lo annovera tra gli esseri che ritiene abbiano un'esistenza propria; poiché essi scorrono e di continuo diminuiscono o crescono. Nessuno di noi è in vecchiaia lo stesso che in gioventù; nessuno di noi è al mattino lo stesso della sera prima. I nostri corpi sono trascinati via come l'acqua dei fiumi. Tutto ciò che vedi vola al ritmo del tempo: niente di quello che abbiamo sotto gli occhi rimane tale e quale; io stesso mentre dico che queste cose cambiano, sono cambiato. 23 Dice Eraclito: "Non ci si può immergere due volte nello stesso fiume." Il nome del fiume rimane lo stesso, ma l'acqua è passata oltre. È un fenomeno più evidente in un corso d'acqua che nell'uomo; ma il flusso che trascina via anche noi è altrettanto veloce; perciò mi stupisco della nostra insensatezza: amiamo tanto una cosa fugacissima, il nostro corpo, e temiamo il momento della morte, mentre ogni momento è la morte dello stato precedente: non devi temere che avvenga una volta ciò che avviene ogni giorno! 24 Ho parlato dell'uomo, materia fragile e caduca, esposta a ogni influenza: anche l'universo, eterno e indistruttibile, muta e non rimane uguale a se stesso. Sebbene abbia in sé tutti i fattori originari, li ha diversi dallo stadio primitivo: cambia l'ordine.

[25] 'Quid ista' inquis 'mihi subtilitas proderit?' Si me interrogas, nihil; sed quemadmodum ille caelator oculos diu intentos ac fatigatos remittit atque avocat et, ut dici solet, pascit, sic nos animum aliquando debemus relaxare et quibusdam oblectamentis reficere. Sed ipsa oblectamenta opera sint; ex his quoque, si observaveris, sumes quod possit fieri salutare. [26] Hoc ego, Lucili, facere soleo: ex omni notione, etiam si a philosophia longissime aversa est, eruere aliquid conor et utile efficere. Quid istis quae modo tractavimus remotius a reformatione morum? quomodo meliorem me facere ideae Platonicae possunt? quid ex istis traham quod cupiditates meas comprimat? Vel hoc ipsum, quod omnia ista quae sensibus serviunt, quae nos accendunt et irritant, negat Plato ex iis esse quae vere sint. [27] Ergo ista imaginaria sunt et ad tempus aliquam faciem ferunt, nihil horum stabile nec solidum est; et nos tamen cupimus tamquam aut semper futura aut semper habituri. Imbecilli fluvidique inter vana constitimus: ad illa mittamus animum quae aeterna sunt. Miremur in sublimi volitantes rerum omnium formas deumque inter illa versantem et hoc providentem, quemadmodum quae immortalia facere non potuit, quia materia prohibebat, defendat a morte ac ratione vitium corporis vincat. [28] Manent enim cuncta, non quia aeterna sunt, sed quia defenduntur cura regentis: immortalia tutore non egerent. Haec conservat artifex fragilitatem materiae vi sua vincens. Contemnamus omnia quae adeo pretiosa non sunt ut an sint omnino dubium sit. [29] Illud simul cogitemus, si mundum ipsum, non minus mortalem quam nos sumus, providentia periculis eximit, posse aliquatenus nostra quoque providentia longiorem prorogari huic corpusculo moram, si voluptates, quibus pars maior perit, potuerimus regere et coercere. [30] Plato ipse ad senectutem se diligentia protulit. Erat quidem corpus validum ac forte sortitus et illi nomen latitudo pectoris fecerat, sed navigationes ac pericula multum detraxerant viribus; parsimonia tamen et eorum quae aviditatem evocant modus et diligens sui tutela perduxit illum ad senectutem multis prohibentibus causis. [31] Nam hoc scis, puto, Platoni diligentiae suae beneficio contigisse quod natali suo decessit et annum unum atque octogensimum implevit sine ulla deductione. Ideo magi, qui forte Athenis erant, immolaverunt defuncto, amplioris fuisse sortis quam humanae rati, quia consummasset perfectissimum numerum, quem novem novies multiplicata componunt. Non dubito quin paratus sis et paucos dies ex ista summa et sacrificium remittere. [32] Potest frugalitas producere senectutem, quam ut non puto concupiscendam, ita ne recusandam quidem; iucundum est secum esse quam diutissime, cum quis se dignum quo frueretur effecit.


25 "A che mi servono," dirai, "queste sottigliezze?" Vuoi il mio parere? A niente. Ma come l'incisore distoglie e volge altrove gli occhi stanchi per la lunga concentrazione e, come si suol dire, li ristora, così anche noi dobbiamo ogni tanto concedere riposo alla nostra anima e ricrearla con qualche svago. Ma anche le distrazioni devono essere attività; se farai attenzione, potrai ricavarne salutari insegnamenti. 26 Io di solito mi comporto così, caro Lucilio: da qualsiasi nozione, anche se non ha niente a che fare con la filosofia, cerco di enucleare e di procurarmi qualche concetto utile. Gli argomenti or ora trattati non hanno il minimo rapporto con la questione morale. Come possono migliorarmi le idee platoniche? Che insegnamento posso trarne per dominare le mie passioni? Questo, per esempio: Platone nega un'esistenza vera e propria a tutte le cose soggette ai sensi, che ci infiammano e ci stimolano. 27 Sono quindi, immaginarie, hanno una forma esteriore, limitata nel tempo, ma non sono né stabili, né concrete; eppure noi le desideriamo come se fossero eterne o potessimo possederle per sempre. Deboli e fragili ci soffermiamo tra cose prive di sostanza: rivolgiamo, invece, l'anima a ciò che è eterno. Contempliamo stupiti le forme di tutte le cose volare altissime e dio che sta in mezzo a esse: egli provvede a difendere dalla morte quegli esseri che non ha potuto creare immortali per l'ostacolo della materia, e a vincere con la ragione la limitatezza del corpo. 28 L'universo permane in vita non perché sia eterno, ma perché è difeso da chi lo governa: se fosse immortale, non avrebbe bisogno di un tutore. Il sommo artefice lo mantiene in vita, vincendo con la sua potenza la caducità della materia. Disprezziamo, dunque, tutte le cose che sono prive di valore al punto da essere in dubbio perfino la loro stessa esistenza. 29 Nel medesimo tempo pensiamo che se la provvidenza sottrae ai pericoli l'universo, mortale quanto noi, in certa misura anche noi, con la nostra previdenza, possiamo protrarre la vita di questo misero corpo, se saremo in grado di governare e frenare i piaceri, causa di morte per la maggior parte degli uomini. 30 Platone stesso arrivò alla vecchiaia per la sua cautela. Certo aveva un fisico forte e robusto e dall'ampiezza del torace gli era derivato il soprannome, ma i viaggi per mare e i pericoli lo avevano prostrato molto; tuttavia la frugalità, la misura in quei piaceri che suscitano la bramosia degli uomini e un'attenta cura di se stesso lo fecero arrivare alla vecchiaia nonostante i numerosi ostacoli. 31 Tu sai, penso, che grazie alla sua prudenza Platone morì esattamente il giorno del suo ottantunesimo compleanno. Perciò dei magi, che per caso si trovavano ad Atene, celebrarono un sacrificio in onore del defunto: secondo loro gli era toccato un destino superiore a quello umano, perché i suoi anni assommavano a un numero perfettissimo: il risultato di nove per nove. Sono certo che saresti pronto a rinunciare sia a pochi giorni di questa somma, sia al sacrificio. 32 La sobrietà può prolungare la vecchiaia: io non ritengo che la si debba desiderare intensamente, ma neppure rifiutare; è piacevole stare con se stessi il più a lungo possibile, quando ci si è resi degni di goderne.


Itaque de isto feremus sententiam, an oporteat fastidire senectutis extrema et finem non opperiri sed manu facere. Prope est a timente qui fatum segnis exspectat, sicut ille ultra modum deditus vino est qui amphoram exsiccat et faecem quoque exsorbet. [33] De hoc tamen quaeremus, pars summa vitae utrum faex sit an liquidissimum ac purissimum quiddam, si modo mens sine iniuria est et integri sensus animum iuvant nec defectum et praemortuum corpus est; plurimum enim refert, vitam aliquis extendat an mortem. [34] At si inutile ministeriis corpus est, quidni oporteat educere animum laborantem? et fortasse paulo ante quam debet faciendum est, ne cum fieri debebit facere non possis; et cum maius periculum sit male vivendi quam cito moriendi, stultus est qui non exigua temporis mercede magnae rei aleam redimit. Paucos longissima senectus ad mortem sine iniuria pertulit, multis iners vita sine usu sui iacuit: quanto deinde crudelius iudicas aliquid ex vita perdidisse quam ius finiendae? [35] Noli me invitus audire, tamquam ad te iam pertineat ista sententia, et quid dicam aestima: non relinquam senectutem, si me totum mihi reservabit, totum autem ab illa parte meliore; at si coeperit concutere mentem, si partes eius convellere, si mihi non vitam reliquerit sed animam, prosiliam ex aedificio putri ac ruenti. [36] Morbum morte non fugiam, dumtaxat sanabilem nec officientem animo. Non afferam mihi manus propter dolorem: sic mori vinci est. Hunc tamen si sciero perpetuo mihi esse patiendum, exibo, non propter ipsum, sed quia impedimento mihi futurus est ad omne propter quod vivitur; imbecillus est et ignavus qui propter dolorem moritur, stultus qui doloris causa vivit. [37] Sed in longum exeo; est praeterea materia quae ducere diem possit: et quomodo finem imponere vitae poterit qui epistulae non potest? Vale ergo: quod libentius quam mortes meras lecturus es. Vale.


È bene, allora, disdegnare la vecchiaia avanzata e non aspettare la morte, ma darsela con le proprie mani? Ecco il mio parere. Se uno attende inerte il proprio destino, non è dissimile da chi lo teme, come è un ubriacone chi vuota la bottiglia e beve anche la feccia. 33 Dovremo, però chiederci se l'ultima parte della vita è feccia o piuttosto bevanda limpidissima e purissima, sempre che la mente sia sana e i sensi integri aiutino l'anima, e il corpo non sia in declino e morto prima del tempo; importa molto, se prolunghiamo la vita o la morte. 34 Ma se il corpo non assolve più le sue funzioni, non è meglio liberare l'anima dalle sue sofferenze? E forse bisogna agire un pò prima del dovuto perché, arrivato il momento, non ci si trovi nell'impossibilità di farlo; il pericolo di vivere male è maggiore del pericolo di morire presto; quindi, se uno non scongiura il rischio di una grande disgrazia per guadagnare un pò di tempo, è pazzo. Pochi uomini sono morti vecchissimi senza subire danno; molti hanno condotto un'esistenza passiva e inutile: aver perduto una parte della vita ti sembra tanto più crudele che perdere il diritto di mettervi fine? 35 Non ascoltarmi contro voglia, come se il mio parere ormai ti riguardasse direttamente e pondera bene quello che ti dico: non abbandonerò la vecchiaia, se mi conserverà integro, ma integro nella parte migliore di me; se, però comincerà a turbare e a sconvolgermi la mente, se non mi lascerà la vita, ma solo il soffio vitale, mi precipiterò fuori dall'edificio marcio e in rovina. 36 Non fuggirò la malattia con la morte, purché non sia una malattia inguaribile e non danneggi l'anima. Non mi darò la morte per paura del dolore: morire così significa darsi per vinto. Tuttavia, se saprò di dover soffrire per tutta la vita, me ne andrò non per il dolore in se stesso, ma perché mi sarebbe di ostacolo a tutte quelle attività che sono lo scopo dell'esistenza; è debole e vile chi si dà la morte per paura del dolore, è insensato chi vive per soffrire. 37 Ma la sto tirando troppo alla lunga; ho ancora argomenti che potrebbero occupare un giorno intero: e come potrà mettere fine alla sua vita un uomo incapace di finire una lettera? Perciò addio: leggerai più volentieri questo commiato, che tutti i miei ragionamenti sulla morte. Stammi bene.


LIX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Magnam ex epistula tua percepi voluptatem; permitte enim mihi uti verbis publicis nec illa ad significationem Stoicam revoca. Vitium esse voluptatem credimus. Sit sane; ponere tamen illam solemus ad demonstrandam animi hilarem affectionem. [2] Scio, inquam, et voluptatem, si ad nostrum album verba derigimus, rem infamem esse et gaudium nisi sapienti non contingere; est enim animi elatio suis bonis verisque fidentis. Vulgo tamen sic loquimur ut dicamus magnum gaudium nos ex illius consulatu aut nuptiis aut ex partu uxoris percepisse, quae adeo non sunt gaudia ut saepe initia futurae tristitiae sint; gaudio autem iunctum est non desinere nec in contrarium verti. [3] Itaque cum dicit Vergilius noster et mala mentis gaudia, diserte quidem dicit, sed parum proprie; nullum enim malum gaudium est. Voluptatibus hoc nomen imposuit et quod voluit expressit; significavit enim homines malo suo laetos. [4] Tamen ego non immerito dixeram cepisse me magnam ex epistula tua voluptatem; quamvis enim ex honesta causa imperitus homo gaudeat, tamen affectum eius impotentem et in diversum statim inclinaturum voluptatem voco, opinione falsi boni motam, immoderatam et immodicam.

59
1 La tua lettera mi ha fatto molto piacere; permettimi di usare le parole nel significato comune e non rifarti a quello degli Stoici. Per noi il piacere è un vizio. Sia pure; tuttavia di solito usiamo questo termine per indicare uno stato d'animo gioioso. 2 Sì, lo so che il piacere, se ci rifacciamo al vocabolario stoico, è una cosa infame e che la gioia può toccare solo al saggio; infatti è l'elevazione dell'anima fiduciosa in quello che ha in sé di buono e di vero. Abitualmente, tuttavia, diciamo di aver provato una grande gioia per l'elezione a console di un amico, o per le sue nozze, o perché la moglie ha partorito, tutti avvenimenti che non sono gioia, ma spesso inizio di sofferenze future; e, invece, è una caratteristica della gioia non finire e non mutarsi in dolore. 3 Perciò quando il nostro Virgilio scrive le malvagie gioie dello spirito, si esprime con eleganza, ma con poca proprietà: non esiste gioia malvagia. Egli ha dato questo nome ai piaceri e ha espresso con chiarezza il suo pensiero; indica gli uomini contenti del proprio male. 4 Tuttavia non ho sbagliato a dire che la tua lettera mi ha fatto molto piacere; infatti, anche se è onesto il motivo per cui un uomo ignorante gioisce, quel sentimento che egli non sa dominare e che inclina sùbito al suo opposto, lo chiamo piacere: nasce dall'opinione di un falso bene e non ha moderazione, né misura.


Sed ut ad propositum revertar, audi quid me in epistula tua delectaverit: habes verba in potestate, non effert te oratio nec longius quam destinasti trahit. [5] Multi sunt qui ad id quod non proposuerant scribere alicuius verbi placentis decore vocentur, quod tibi non evenit: pressa sunt omnia et rei aptata; loqueris quantum vis et plus significas quam loqueris. Hoc maioris rei indicium est: apparet animum quoque nihil habere supervacui, nihil tumidi. [6] Invenio tamen translationes verborum ut non temerarias ita quae periculum sui fecerint; invenio imagines, quibus si quis nos uti vetat et poetis illas solis iudicat esse concessas, neminem mihi videtur ex antiquis legisse, apud quos nondum captabatur plausibilis oratio: illi, qui simpliciter et demonstrandae rei causa eloquebantur, parabolis referti sunt, quas existimo necessarias, non ex eadem causa qua poetis, sed ut imbecillitas nostrae adminicula sint, ut et dicentem et audientem in rem praesentem adducant.


Ma per tornare al tema del discorso, senti che cosa mi ha fatto piacere nella tua lettera: domini le parole, e non ti lasci trasportare dalla foga del discorso oltre i termini stabiliti. 5 Il fascino di qualche bel vocabolo induce molti autori a scrivere anche cose che non si erano proposti; questo a te non succede: tutto è stringato e attinente all'argomento; esponi le tue idee e lasci intendere più di quanto dici. Questo è indice di un fatto più importante: è chiaro che anche nel tuo animo non c'è niente di superfluo, di eccessivo. 6 Trovo, però metafore ardite, anche se non al punto di essere pericolose; trovo immagini che, secondo alcuni, non dovremmo usare perché lecite solo ai poeti. Costoro, credo, non hanno letto nessuno degli antichi scrittori, che non ricercavano ancora gli applausi coi loro discorsi; essi parlavano con semplicità per dimostrare un concetto e facevano largo uso di similitudini; io le ritengo necessarie non per lo stesso motivo per cui sono necessarie ai poeti, ma come sostegno alla nostra debolezza per favorire la concentrazione di chi parla e di chi ascolta sull'argomento trattato.


[7] Sextium ecce cum maxime lego, virum acrem, Graecis verbis, Romanis moribus philosophantem. Movit me imago ab illo posita: ire quadrato agmine exercitum, ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. 'Idem' inquit 'sapiens facere debet: omnis virtutes suas undique expandat, ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia sint et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. ' Quod in exercitibus iis quos imperatores magni ordinant fieri videmus, ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant, sic dispositae ut signum ab uno datum peditem simul equitemque percurrat, hoc aliquanto magis necessarium esse nobis ait. [8] Illi enim saepe hostem timuere sine causa, tutissimumque illis iter quod suspectissimum fuit: nihil stultitia pacatum habet; tam superne illi metus est quam infra; utrumque trepidat latus; sequuntur pericula et occurrunt; ad omnia pavet, imparata est et ipsis terretur auxiliis. Sapiens autem, ad omnem incursum munitus, intentus, non si paupertas, non si luctus, non si ignominia, non si dolor impetum faciat, pedem referet: interritus et contra illa ibit et inter illa. [9] Nos multa alligant, multa debilitant. Diu in istis vitiis iacuimus, elui difficile est; non enim inquinati sumus sed infecti.


7 Ecco, ora sto leggendo Sestio, uomo acuto che scrive di filosofia in greco, basandosi sulla morale romana. Mi ha colpito questa sua immagine: un esercito avanza a colonne affiancate, pronto al combattimento, quando si teme da ogni parte un attacco nemico. "Lo stesso," dice, "deve fare il saggio: spieghi in ogni direzione tutte le sue virtù e dovunque si manifesti un pericolo, là siano pronte le difese e rispondano al cenno del comandante senza creare scompiglio." Negli eserciti guidati da grandi condottieri, noi vediamo che tutte le truppe sentono nello stesso momento l'ordine del comandante e sono disposte in modo che il segnale dato da un solo uomo arrivi simultaneamente alla fanteria e alla cavalleria; Sestio afferma che questa tattica è ancora più necessaria per noi. 8 I soldati spesso temono il nemico senza motivo, ma poi la marcia che li spaventava tanto non presenta nessun pericolo: l'uomo insensato non è mai tranquillo; i motivi di paura gli vengono dall'alto e dal basso, da destra e da sinistra; i pericoli gli si parano davanti e lo seguono. Trepida di fronte a tutto, è colto sempre di sorpresa e l'atterriscono i suoi stessi soccorritori. Il saggio, invece, è premunito e pronto a ogni attacco; non indietreggerà se la povertà, i lutti, il disonore, il dolore lo assalgono: avanzerà imperterrito contro di essi e in mezzo ad essi. 9 Sono molte le cose che ci vincolano e ci indeboliscono. A lungo ci siamo crogiolati nei vizi ed è difficile far piazza pulita: non ci siamo solo insozzati, ma addirittura infettati.


Ne ab alia imagine ad aliam transeamus, hoc quaeram quod saepe mecum dispicio, quid ita nos stultitia tam pertinaciter teneat? Primo quia non fortiter illam repellimus nec toto ad salutem impetu nitimur, deinde quia illa quae a sapientibus viris reperta sunt non satis credimus nec apertis pectoribus haurimus leviterque tam magnae rei insistimus. [10] Quemadmodum autem potest aliquis quantum satis sit adversus vitia discere, qui quantum a vitiis vacat discit? Nemo nostrum in altum descendit; summa tantum decerpsimus et exiguum temporis inpendisse philosophiae satis abundeque occupatis fuit. [11] Illud praecipue inpedit, quod cito nobis placemus; si invenimus qui nos bonos viros dicat, qui prudentes, qui sanctos, adgnoscimus. Non sumus modica laudatione contenti: quidquid in nos adulatio sinc pudore congessit tamquam debitum prendimus. Optimos nos esse, sapientissimos adfirmantibus adsentimur, cum sciamus illos saepe multa mentiri; adeoque indulgemus nobis ut laudari velimus in id cu: contraria cum maxime facimus. Mitissimum ille se in ipsis suppliciis audit, in rapinis liberalissimum et in ebrietatibus ac libidinibus temperantissimum; sequitur itaque ut ideo mutari nolimus quia nos optimos esse credidimus. [12] Alexander cum iam in India vagaretur et gentes ne finitimis quidem satis notas bello vastaret, in obsidione cuiusdam urbis, circumit muros et inbecillissima moenium quaerit, sagitta ictus diu persedere et incepta agere perseveravit. Deinde cum represso sanguine sicci vulneris dolor cresceret et crus suspensum equo paulatim obtorpuisset, coactus absistere 'omnes' inquit 'iurant esse me Iovis filium, sed vulnus hoc hominem esse me clamat'. [13] Idem nos faciamus. Pro sua quemque portione adulatio infatuat: dicamus, 'vos quidem dicitis me prudentem esse, ego autem video quam multa inutilia concupiscam, nocitura optem. Ne hoc quidem intellego quod animalibus satietas monstrat, quis cibo debeat esse, quis potioni modus; quantum capiam adhuc nescio. '


Per non passare da una similitudine all'altra, ti chiederò una cosa su cui spesso rifletto: perché la stupidità ci domina con tanta ostinazione? Punto primo: non la respingiamo con forza e non tendiamo con slancio alla salvezza; punto secondo: non abbiamo sufficiente fiducia nelle verità scoperte dai saggi, non le accogliamo nel profondo del cuore e ci dedichiamo con scarso impegno a una questione tanto importante. 10 Come può imparare quanto serve per combattere i vizi chi si applica nei ritagli di tempo che i vizi gli lasciano? Nessuno di noi va a fondo; cogliamo solo quanto è in superficie e i pochi minuti spesi per la filosofia bastano e avanzano per gente tanto affaccendata. 11 L'ostacolo maggiore è che siamo subito soddisfatti di noi stessi; se c'è qualcuno che ci definisce valenti, saggi, virtuosi, gli diamo immediatamente credito. Non ci accontentiamo di lodi misurate: accogliamo come dovuto il cumulo di spudorate adulazioni che ci vengono rivolte. Concordiamo con chi afferma che siamo gli uomini più virtuosi e saggi, pur sapendo che quelle persone mentono spesso e volentieri; siamo così indulgenti con noi stessi perché vogliamo essere lodati per virtù esattamente opposte al nostro modo di agire. Il carnefice (proprio mentre tortura) si sente definire l'uomo più mite, chi vive di ruberie l'uomo più generoso, il libertino ubriacone l'uomo più temperante; di conseguenza non vogliamo correggerci perché ci crediamo perfetti. 12 Alessandro attraversava ormai l'India e combatteva devastando i territori di genti poco note anche agli stessi popoli confinanti. Durante l'assedio di una città, mentre faceva il giro delle mura per individuarne i punti più deboli, fu colpito da una freccia; tuttavia rimase a lungo a cavallo e continuò la sua ricognizione. Ma poi il sangue, coagulatosi nella ferita, rese più acuto il dolore, e la gamba, che penzolava dal cavallo, si era a poco a poco intorpidita. Costretto a desistere, disse: "Tutti giurano che sono figlio di Giove, ma questa ferita grida che sono un uomo." 13 Seguiamo anche noi il suo esempio. Ciascuno, in misura diversa, si lascia infatuare dall'adulazione; diciamo: "Voi sostenete che sono saggio, ma io mi rendo conto di avere molti desideri inutili e dannosi. Non capisco nemmeno quello che la sazietà mostra agli animali: quale misura ci debba essere nel mangiare e nel bere; non conosco ancora la capacità del mio stomaco."


[14] Iam docebo quemadmodum intellegas te non esse sapientem. Sapiens ille plenus est gaudio, hilaris et placidus, inconcussus; cum dis ex pari vivit. Nunc ipse te consule: si numquam maestus es, nulla spes animum tuum futuri exspectatione sollicitat, si per dies noctesque par et aequalis animi tenor erecti et placentis sibi est, pervenisti ad humani boni summam; sed si appetis voluptates et undique et cmnes, scito tantum tibi ex sapientia quantum ex gaudio deesse. Ad hoc cupis pervenire, sed erras, qui inter divitias illuc venturum esse te speras, inter honores, id est gaudium inter sollicitudines quaeris: ista, quae sic petis tamquam datura laetitiam ac voluptatem, causae dolorum sunt. [15] Omnes, inquam, illo tendunt ad gaudium, sed unde stabile magnumque consequantur ignorant: ille ex conviviis et luxuria, ille ex ambitione et circumfusa clientium turba, ille ex amica, alius ex studiorum liberalium vana ostentatione et nihil sanantibus litteris - omnes istos oblectamenta fallacia et brevia decipiunt, sicut ebrietas, quae unius horae hilarem insaniam longi temporis taedio pensat, sicut plausus et acclamationis secundae favor, qui magna sollicitudine et partus est et expiandus. [16] Hoc ergo cogita, hunc esse sapientiae effectum, gaudii aequalitatem. Talis est sapientis animus qualis mundus super lunam: semper illic serenum est. Habes ergo et quare velis sapiens esse, si numquam sine gaudio est. Gaudium hoc non nascitur nisi ex virtutum conscientia: non potest gaudere nisi fortis, nisi iustus, nisi temperans. [17] 'Quid ergò inquis, 'stulti ac mali non gaudent?' Non magis quam praedam nancti leones: cum fatigaverunt se vino ac libidinibus, cum illos nox inter vitia defecit, cum voluptates angusto corpori ultra quam capiebat ingestae suppurare coeperunt, tunc exclamant miseri Vergilianum illum versum: namque ut supremam falsa inter gaudia noctem egerimus nosti. [18] Omnem luxuriosi noctem inter falsa gaudia et quidem tamquam supremam agunt: illud gaudium quod deos deorumque aemulos sequitur non interrumpitur, non desinit; desineret, si sumptum esset aliunde. Quia non est alieni muneris, ne arbitrii quidem alieni est: quod non dedit fortuna non eripit. Vale.


14 Ti insegnerò come tu possa renderti conto di non essere saggio. Il saggio è pieno di gioia, allegro e sereno, imperturbabile; la sua vita è pari a quella degli dèi. E ora esamina te stesso: se non sei mai triste, se nessuna speranza ti fa trepidare in attesa del futuro, se notte e giorno il tuo spirito fiero e soddisfatto di sé mantiene un atteggiamento stabile e sempre uguale, hai toccato il culmine dell'umano bene; ma se cerchi dovunque ogni genere di piaceri, sappi che ti mancano ugualmente saggezza e gioia. Vuoi raggiungerla, ma sbagli se speri di arrivarci tra le ricchezze e gli onori: cerchi cioè la gioia tra gli affanni: i falsi beni, cui aspiri convinto che ti daranno contentezza e piacere, sono causa di dolori. 15 Tutti, lo ribadisco, tendono alla gioia, ma ignorano dove sia possibile trovarne una duratura e intensa: c'è chi la cerca nei banchetti e nell'intemperanza, chi nell'ambizione e nella folla dei clienti che gli si accalcano intorno, chi nell'amante, chi poi nella vana ostentazione delle scienze liberali e negli studi letterari che non giovano a niente; tutti costoro si lasciano ingannare da piaceri fallaci e di breve durata, come l'ubriachezza che fa scontare l'allegra pazzia di un'ora con un lungo malessere, come gli applausi e il favore della folla acclamante che si ottiene e si paga a prezzo di gravi preoccupazioni. 16 Riflettici; questo è il risultato della saggezza: una gioia stabile. L'animo del saggio è come il mondo sulla luna: là c'è sempre il sereno. Hai, dunque, un valido motivo per desiderare la saggezza: una gioia perpetua. Questa gioia nasce unicamente dalla coscienza delle proprie virtù: può gioire solo l'uomo forte, giusto, temperante. 17 "E allora?" chiedi. "Gli stolti e i malvagi non provano gioia?" Non più dei leoni che conquistano la preda. Quando sono stanchi di vino e di orge, quando hanno passato la notte negli stravizi, quando i piaceri accumulati smisuratamente nel corpo cominciano a farlo marcire, allora, infelici, gridano quel famoso verso virgiliano: Tu sai come abbiamo trascorso l'ultima notte tra false gioie. 18 I lussuriosi passano ogni notte tra false gioie e come se fosse l'ultima: ma quella gioia che tocca agli dèi e a chi li emula è continua, senza fine; finirebbe, se derivasse da altri. Ma poiché non è un dono di altri, non è soggetta all'arbitrio altrui: la sorte non può strappare ciò che non ci ha dato. Stammi bene.

 

LX0 SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Queror, litigo, irascor. Etiam nunc optas quod tibi optavit nutrix tua aut paedagogus aut mater? nondum intellegis quantum mali optaverint? O quam inimica nobis sunt vota nostrorum! eo quidem inimiciora quo cessere felicius. Iam non admiror si omnia nos a prima pueritia mala sequuntur: inter exsecrationes parentum crevimus. Exaudiant di quandoque nostram pro nobis vocem gratuitam. [2] Quousque poscemus aliquid deos? [quasi] ita nondum ipsi alere nos possumus? Quamdiu sationibus implebimus magnarum urbium campos? quamdiu nobis populus metet? quamdiu unius mensae instrumentum multa navigia et quidem non ex uno mari subvehent? Taurus paucissimorum iugerum pascuo impletur; una silva elephantis pluribus sufficit: homo et terra et mari pascitur. [3] Quid ergo? tam insatiabilem nobis natura alvum dedit, cum tam modica corpora dedisset, ut vastissimorum edacissimorumque animalium aviditatem vinceremus? Minime; quantulum est enim quod naturae datur! Parvo illa dimittitur: non fames nobis ventris nostri magno constat sed ambitio. [4] Hos itaque, ut ait Sallustius, 'ventri oboedientes' animalium loco numeremus, non hominum, quosdam vero ne animalium quidem, sed mortuorum. Vivit is qui multis usui est, vivit is qui se utitur; qui vero latitant et torpent sic in domo sunt quomodo in conditivo. Horum licet in limine ipso nomen marmori inscribas: mortem suam antecesserunt. Vale.

60
1 Mi rammarico, litigo, mi arrabbio. Desideri ancora quello che desideravano per te la tua nutrice, il precettore, tua madre? Non hai ancora capìto quanto male desideravano? Come ci sono funesti i voti dei nostri cari! Tanto più funesti quanto più felice è il loro esito. Ormai non mi stupisco che fin dalla prima fanciullezza ci accompagnino tutti i mali: siamo cresciuti tra le imprecazioni dei congiunti. Esaudiscano un giorno o l'altro gli dèi una preghiera disinteressata che rivolgiamo loro per il nostro bene. 2 Fino a quando chiederemo un aiuto agli dèi? Non siamo ancòra capaci di provvedere da soli a noi stessi? Fino a quando continueremo a riempire di piantagioni le campagne destinate a grandi città? Fino a quando un intero popolo mieterà per noi? Fino a quando centinaia di navi provenienti da più mari trasporteranno rifornimenti per una sola mensa? Il toro si sazia pascolando su un terreno di pochi metri quadri; un solo bosco basta a numerosi elefanti: per nutrire l'uomo occorrono la terra e il mare. 3 Ma come? La natura ci ha dato un corpo tanto piccolo e un ventre così insaziabile da superare l'ingordigia degli animali più grossi e voraci? Niente affatto; come sono minime le esigenze della natura! Si sazia con poco: non è la fame del ventre che ci costa molto, ma l'ostentazione. 4 Pertanto quelle persone "soggette al ventre", come scrive Sallustio, consideriamole animali, non uomini; anzi, certuni neppure animali, ma morti. È vivo chi è utile a molti, è vivo chi fa buon uso di se stesso; quelli che si nascondono, immobili nel loro torpore, stanno in casa loro come in una tomba. Ne puoi incidere il nome sul marmo della soglia: hanno anticipato la morte. Stammi bene.

LXI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Desinamus quod voluimus velle. Ego certe id ago senex eadem velim quae puer volui. In hoc unum eunt dies, in hoc noctes, hoc opus meum est, haec cogitatio, imponere veteribus malis finem. Id ago ut mihi instar totius vitae dies sit; nec mehercules tamquam ultimum rapio, sed sic illum aspicio tamquam esse vel ultimus possit. [2] Hoc animo tibi hanc epistulam scribo, tamquam me cum maxime scribentem mors evocatura sit; paratus exire sum, et ideo fruar vita quia quam diu futurum hoc sit non nimis pendeo. Ante senectutem curavi ut bene viverem, in senectute ut bene moriar; bene autem mori est libenter mori. [3] Da operam ne quid umquam invitus facias: quidquid necesse futurum est repugnanti, id volenti necessitas non est. Ita dico: qui imperia libens excipit partem acerbissimam servitutis effugit, facere quod nolit; non qui iussus aliquid facit miser est, sed qui invitus facit. Itaque sic animum componamus ut quidquid res exiget, id velimus, et in primis ut finem nostri sine tristitia cogitemus. [4] Ante ad mortem quam ad vitam praeparandi sumus. Satis instructa vita est, sed nos in instrumenta eius avidi sumus; deesse aliquid nobis videtur et semper videbitur: ut satis vixerimus, nec anni nec dies faciunt sed animus. Vixi, Lucili carissime, quantum satis erat; mortem plenus exspecto. Vale.

61
1 Finiamola di volere le stesse cose che in passato! Per quel che mi riguarda, ora che sono vecchio, cerco di non avere gli stessi desideri che avevo da fanciullo. Questo solo è lo scopo dei miei giorni e delle mie notti, la mia occupazione, il mio pensiero fisso: porre fine ai mali di un tempo. Faccio in modo che un giorno corrisponda a tutta una vita; e perbacco, non lo afferro come se fosse l'ultimo, ma lo considero come se potesse anche essere l'ultimo. 2 Ti scrivo questa lettera e il mio stato d'animo è tale come se la morte dovesse chiamarmi proprio ora mentre sto scrivendo; sono pronto ad andarmene e continuerò a godere della vita perché non mi preoccupo troppo di quanto durerà ancora. Prima di diventare vecchio ho cercato di vivere bene, ora che sono vecchio cerco di morire bene; ma morire bene significa morire volentieri. 3 Vedi di non fare mai nulla contro la tua volontà: tutto quello che è una costrizione se uno fa resistenza, non lo è per chi lo accetta. Ascolta: chi obbedisce volentieri agli ordini evita la parte più dura della schiavitù: fare quello che non vuole. Infelice non è chi esegue un ordine, ma chi lo esegue contro la propria volontà. Disponiamoci, perciò a volere quello che le circostanze esigono e prima di tutto a pensare senza tristezza alla nostra fine. 4 Prepariamoci a morire prima che a vivere. Per vivere abbiamo abbastanza, ma noi siamo sempre avidi; ci sembra, e ci sembrerà sempre, che ci manchi qualcosa: non gli anni e nemmeno i giorni, ma lo spirito ci dice se abbiamo vissuto abbastanza. Ho vissuto abbastanza, carissimo Lucilio; ora, sazio, aspetto la morte. Stammi bene.

LXII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Mentiuntur qui sibi obstare ad studia liberalia turbam negotiorum videri volunt: simulant occupationes et augent et ipsi se occupant. Vaco, Lucili, vaco, et ubicumque sum, ibi meus sum. Rebus enim me non trado sed commodo, nec consector perdendi temporis causas; et quocumque constiti loco, ibi cogitationes meas tracto et aliquid in animo salutare converso. [2] Cum me amicis dedi, non tamen mihi abduco nec cum illis moror quibus me tempus aliquod congregavit aut causa ex officio nata civili, sed cum optimo quoque sum; ad illos, in quocumque loco, in quocumque saeculo fuerunt, animum meum mitto. [3] Demetrium, virorum optimum, mecum circumfero et relictis conchyliatis cum illo seminudo loquor, illum admiror. Quidni admirer? vidi nihil ei deesse. Contemnere aliquis omnia potest, omnia habere nemo potest: brevissima ad divitias per contemptum divitiarum via est. Demetrius autem noster sic vivit, non tamquam contempserit omnia, sed tamquam aliis habenda permiserit. Vale.

62
1 Mente chi sostiene che la mole dei suoi affari gli impedisce di dedicarsi agli studi: finge impegni, li aumenta e si tormenta da sé. Io sono libero, Lucilio, sono libero e dovunque mi trovi sono padrone di me stesso. Non mi abbandono alle cose, mi presto ad esse e non cerco scuse per perdere tempo; dovunque mi fermi, mi immergo nei miei pensieri e medito su qualcosa di utile. 2 Quando mi dedico agli amici, non mi distolgo da me stesso; e non mi intrattengo con quelli ai quali mi hanno legato le circostanze o gli obblighi derivanti da pubblici uffici, ma sto con i migliori; rivolgo a loro il mio pensiero dovunque e in qualunque periodo siano vissuti. 3 Porto sempre con me Demetrio, uomo stimabilissimo e, lasciati da parte i porporati, parlo con lui benché vestito poveramente e lo ammiro. Perché non dovrei? Mi sono accorto che non gli manca nulla. C'è qualcuno capace di disprezzare tutto, ma nessuno può avere tutto: la via più breve per arrivare alla ricchezza è una: il disprezzo. Il nostro Demetrio vive così: non disprezza tutto, ma ne ha lasciato il possesso agli altri. Stammi bene.

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