SENECA - Lettere a Lucilio LIBRO XI - XII - XIII Testo latino e traduzione


L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM XI - XII - XIII
LETTERE A LUCILIO DI SENECA XI XII XIII

Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione

LIBER UNDICESIMUS - TERTIUS DECIMUS - DAL LIBRO XI AL LIBRO XIII
LXXXIV. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Itinera ista quae segnitiam mihi excutiunt et valetudini meae prodesse iudico et studiis. Quare valetudinem adiuvent vides: cum pigrum me et neglegentem corporis litterarum amor faciat, aliena opera exerceor. Studio quare prosint indicabo: a lectionibus recessi. Sunt autem, ut existimo, necessariae, primum ne sim me uno contentus, deinde ut, cum ab aliis quaesita cognovero, tum et de inventis iudicem et cogitem de inveniendis. Alit lectio ingenium et studio fatigatum, non sine studio tamen, reficit. [2] Nec scribere tantum nec tantum legere debemus: altera res contristabit vires et exhauriet (de stilo dico), altera solvet ac diluet. Invicem hoc et illo commeandum est et alterum altero temperandum, ut quidquid lectione collectum est stilus redigat in corpus. [3] Apes, ut aiunt, debemus imitari, quae vagantur et flores ad mel faciendum idoneos carpunt, deinde quidquid attulere disponunt ac per favos digerunt et, ut Vergilius noster ait, liquentia mella stipant et dulci distendunt nectare cellas.
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1 Questi viaggi, che mi scuotono di dosso l'apatia, credo che facciano bene alla mia salute e ai miei studi. Perché facciano bene alla mia salute lo vedi bene: l'amore per gli studi mi rende pigro e mi fa trascurare il corpo, così faccio esercizio a spese di altri. Quanto allo studio, ecco perché servono: non ho smesso un momento di leggere. Le letture - penso - mi sono necessarie, primo perché non sia pago solo di me stesso, poi perché venendo a conoscenza delle indagini altrui, possa formulare giudizi sui risultati e riflettere sulle ricerche da farsi. La lettura nutre la mente e la ristora quando è affaticata dallo studio, anche se richiede una certa applicazione. 2 Non dobbiamo limitarci a scrivere o a leggere: la prima attività, parlo dello scrivere, riduce ed esaurisce le forze; la seconda ti snerva e ti spossa. Bisogna, invece, passare dall'una all'altra e contemperarle in modo che la penna riconduca a unità quanto si è raccolto con la lettura. 3 Dobbiamo, si dice, imitare le api che svolazzano qua e là e suggono i fiori adatti a fare il miele, poi dispongono e distribuiscono nei favi quello che hanno portato e, come scrive il nostro Virgilio,Accumulano il limpido miele e colmano le celle di dolce nettare.
[4] De illis non satis constat utrum sucum ex floribus ducant qui protinus mel sit, an quae collegerunt in hunc saporem mixtura quadam et proprietate spiritus sui mutent. Quibusdam enim placet non faciendi mellis scientiam esse illis sed colligendi. Aiunt inveniri apud Indos mel in arundinum foliis, quod aut ros illius caeli aut ipsius arundinis umor dulcis et pinguior gignat; in nostris quoque herbis vim eandem sed minus manifestam et notabilem poni, quam persequatur et contrahat animal huic rei genitum. Quidam existimant conditura et dispositione in hanc qualitatem verti quae ex tenerrimis virentium florentiumque decerpserint, non sine quodam, ut ita dicam, fermento, quo in unum diversa coalescunt. [5] Sed ne ad aliud quam de quo agitur abducar, nos quoquehas apes debemus imitari et quaecumque ex diversa lectione congessimus separare (melius enim distincta servantur), deinde adhibita ingenii nostri cura et facultate in unum saporem varia illa libamenta confundere, ut etiam si apparuerit unde sumptum sit, aliud tamen esse quam unde sumptum est appareat. Quod in corpore nostro videmus sine ulla opera nostra facere naturam [6] (alimenta quae accepimus, quamdiu in sua qualitate perdurant et solida innatant stomacho, onera sunt; at cum ex eo quod erant mutata sunt, tunc demum in vires et in sanguinem transeunt), idem in his quibus aluntur ingenia praestemus, ut quaecumque hausimus non patiamur integra esse, ne aliena sint. [7] Concoquamus illa; alioqui in memoriam ibunt, non in ingenium. Adsentiamur illis fideliter et nostra faciamus, ut unum quiddam fiat ex multis, sicut unus numerus fit ex singulis cum minores summas et dissidentes conputatio una conprendit. Hoc faciat animus noster: omnia quibus est adiutus abscondat, ipsum tantum ostendat quod effecit. [8] Etiam si cuius in te comparebit similitudo quem admiratio tibi altius fixerit, similem esse te volo quomodo filium, non quomodo imaginem: imago res mortua est. 'Quid ergo? non intellegetur cuius imiteris orationem? cuius argumentationem? cuius sententias?' Puto aliquando ne intellegi quidem posse, si magni vir ingenii omnibus quae ex quo voluit exemplari traxit formam suam inpressit, ut in unitatem illa conpetant. [9] Non vides quam multorum vocibus chorus constet? unus tamen ex omnibus redditur. Aliqua illic acuta est, aliqua gravis, aliqua media; accedunt viris feminae, interponuntur tibiae: singulorum illic latent voces, omnium apparent. [10] De choro dico quem veteres philosophi noverant: in commissionibus nostris plus cantorum est quam in theatris olim spectatorum fuit. Cum omnes vias ordo canentium implevit et cavea aeneatoribus cincta est et ex pulpito omne tibiarum genus organorumque consonuit, fit concentus ex dissonis. Talem animum esse nostrum volo: multae in illo artes, multa praecepta sint, multarum aetatum exempla, sed in unum conspirata.
4 Non si sa bene se ricavino dai fiori un succo che è addirittura miele, oppure trasformino in questa sostanza saporita le essenze raccolte, mescolandole insieme e servendosi di una qualità del loro alito. Secondo certi studiosi le api non hanno la capacità di fare il miele, ma solo di raccoglierlo. Dicono che in India il miele si trova nelle foglie di canna e che lo produce o la rugiada di quel clima o il succo dolce e piuttosto denso della canna stessa e che anche nelle nostre piante c'è un'identica sostanza, meno appariscente, però e percepibile, e le api, generate a questo scopo, la cercano e la concentrano. Per altri le api trasformano in miele le sostanze che succhiano dalle piante e dai fiori più teneri, preparandole e disponendole convenientemente, e usano, per dire così, una sorta di lievito, con cui amalgamano in un tutt'uno omogeneo essenze diverse. 5 Ma per non allontanarmi dall'argomento in questione, anche noi dobbiamo imitare le api e distinguere quello che abbiamo ricavato dalle diverse letture, poiché le cose si mantengono meglio divise; dobbiamo fondere poi, in un unico sapore, valendoci della capacità e della diligenza della nostra mente, i vari assaggi, così che, anche se ne è chiara la derivazione, appaiano tuttavia diversi dalla fonte. 6 Noi vediamo che nel nostro corpo il processo della digestione si svolge naturalmente, senza il nostro intervento; (gli alimenti che ingeriamo, finché mantengono le loro caratteristiche e galleggiano allo stato solido nello stomaco, costituiscono un peso; ma quando modificano il loro precedente stato, diventano sangue ed energie fisiche); facciamo lo stesso con il nutrimento dello spirito: e quanto abbiamo attinto, non lasciamolo intero, perché non ci rimanga estraneo. 7 Digeriamolo: altrimenti alimenterà la nostra memoria, non il nostro spirito. Aderiamo a esso totalmente e facciamolo nostro: da elementi differenti si formerà così un tutt'uno, come i singoli numeri, quando si fa il calcolo complessivo di somme minori e diverse, danno un'unica cifra. Si faccia in questo modo: dissimuliamo tutti gli apporti esterni e mostriamo solo il risultato. 8 Anche se in te si scorgerà una somiglianza con qualcuno che hai ammirato e che ti è rimasto impresso in maniera piuttosto profonda, vorrei che gli assomigliassi come un figlio, non come un ritratto: il ritratto non ha vita. "Ma come? Non si capirà chi è l'autore di cui imiti il linguaggio, le argomentazioni, i pensieri?" Secondo me, certe volte non si può nemmeno intuire, quando un uomo di grande ingegno dà un'impronta personale a tutte le idee che ha tratto dal suo modello e le rende uniformi. 9 Non vedi di quante voci è composto un coro? E tuttavia dall'insieme nasce una melodia unica. Ci sono voci acute, basse, medie; alle maschili si uniscono quelle femminili, si sovrappongono i flauti: le singole voci scompaiono e si percepiscono tutte insieme. 10 Mi riferisco al coro che conoscevano i vecchi filosofi: ora nelle rappresentazioni gli interpreti sono più numerosi di quanti erano una volta gli spettatori a teatro. Quando le file dei cantanti riempiono tutti i passaggi, e le gradinate sono circondate dai trombettieri, e dal palco risuonano insieme flauti e strumenti di ogni tipo, dai diversi suoni nasce un'armonia. Il nostro animo vorrei che fosse così: ricco di capacità, di precetti, di esempi di epoche diverse, ma fusi armonicamente insieme.
[11] 'Quomodo' inquis 'hoc effici poterit?' Adsidua intentione:si nihil egerimus nisi ratione suadente, nihil vitaverimus nisi ratione suadente. Hanc si audire volueris, dicet tibi: relinque ista iamdudum ad quae discurritur; relinque divitias, aut periculum possidentium aut onus; relinque corporis atque animi voluptates, molliunt et enervant; relinque ambitum, tumida res est, vana, ventosa, nullum habet terminum, tam sollicita est ne quem ante se videat quam ne secum, laborat invidia et quidem duplici. Vides autem quam miser sit si is cui invidetur et invidet. [12] Intueris illas potentium domos, illa tumultuosa rixa salutantium limina? multum habent contumeliarum ut intres, plus cum intraveris. Praeteri istos gradus divitum et magno adgestu suspensa vestibula: non in praerupto tantum istic stabis sed in lubrico. Huc potius te ad sapientiam derige, tranquillissimasque res eius et simul amplissimas pete. [13] Quaecumque videntur eminere in rebus humanis, quamvis pusilla sint et comparatione humillimorum exstent, per difficiles tamen et arduos tramites adeuntur. Confragosa in fastigium dignitatis via est; at si conscendere hunc verticem libet, cui se fortuna summisit, omnia quidem sub te quae pro excelsissimis habentur aspicies, sed tamen venies ad summa per planum. Vale. 11 "Come si può arrivare a questo?" chiedi; con un'applicazione continua: se non ci faremo consigliare dalla ragione, non concluderemo niente e non potremo evitare errori. Se la vorrai ascoltare, essa ti dirà: abbandona subito questi falsi beni che tutti inseguono; abbandona la ricchezza: è un pericolo o un peso per chi la possiede; abbandona i piaceri del corpo e dello spirito: indeboliscono e snervano; abbandona l'ambizione: è un sentimento pieno di boria, vano, volubile, non ha limiti, si preoccupa di non essere inferiore o pari a nessuno, soffre di una duplice forma di invidia: guarda quanto è infelice uno che invidia ed è invidiato. 12 Vedi le case di chi conta, le soglie piene di strepito per gli alterchi dei clienti? Si litiga violentemente per entrare e ancora di più una volta entrati. Passa oltre queste scale dei ricchi e gli ingressi costruiti su grandi rialzi: qui ti trovi su un terreno che non è solo scosceso ma anche scivoloso. Volgiti piuttosto alla saggezza e aspira a quello stato di mirabile tranquillità e ampiezza che le è proprio. 13 Tutto quello che nelle vicende umane sembra emergere, si raggiunge per strade difficili e ardimentose, pur essendo roba da poco e risaltando solo al confronto con le cose più umili. Scabrosa è la via per arrivare ai vertici della dignità. Ma se vuoi raggiungere questa vetta, di fronte alla quale si piega anche la fortuna, vedrai sotto di te tutto quello che gli uomini ritengono eccelso: e tuttavia in cima ci arrivi per un sentiero pianeggiante. Stammi bene.
LXXXV. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM [1] Peperceram tibi et quidquid nodosi adhuc supererat praeterieram, contentus quasi gustum tibi dare eorum quae a nostris dicuntur ut probetur virtus ad explendam beatam vitam sola satis efficax. Iubes me quidquid est interrogationum aut nostrarum aut ad traductionem nostram excogitatarum conprendere: quod si facere voluero, non erit epistula sed liber. Illud totiens testor, hoc me argumentorum genere non delectari; pudet in aciem descendere pro dis hominibusque susceptam subula armatum. [2] 'Qui prudens est et temperans est; qui temperans est, et constans; qui constans est inperturbatus est; qui inperturbatus est sine tristitia est; qui sine tristitia est beatus est; ergo prudens beatus est, et prudentia ad beatam vitam satis est.' [3] Huic collectioni hoc modo Peripatetici quidam respondent, ut inperturbatum et constantem et sine tristitia sic interpretentur tamquam inperturbatus dicatur qui raro perturbatur et modice, non qui numquam. Item sine tristitia eum dici aiunt qui non est obnoxius tristitiae nec frequens nimiusve in hoc vitio; illud enim humanam naturam negare, alicuius animum inmunem esse tristitia; sapientem non vinci maerore, ceterum tangi; et cetera in hunc modum sectae suae respondentia. Non his tollunt adfectus sed temperant. [4] Quantulum autem sapienti damus, si inbecillissimis fortior est et maestissimis laetior et effrenatissimis moderatior et humillimis maior! Quid si miretur velocitatem suam Ladas ad claudos debilesque respiciens? Illa vel intactae segetis per summa volaret gramina nec cursu teneras laesisset aristas, vel mare per medium fluctu suspensa tumenti ferret iter, celeres nec tingueret aequore plantas. Haec est pernicitas per se aestimata, non quae tardissimorum conlatione laudatur. Quid si sanum voces leviter febricitantem? non est bona valetudo mediocritas morbi. [5] 'Sic' inquit 'sapiens inperturbatus dicitur quomodo apyrina dicuntur non quibus nulla inest duritia granorum sed quibus minor.' Falsum est. Non enim deminutionem malorum in bono viro intellego sed vacationem; nulla debent esse, non parva; nam si ulla sunt, crescent et interim inpedient. Quomodo oculos maior et perfecta suffusio excaecat, sic modica turbat. [6] Si das aliquos adfectus sapienti, inpar illis erit ratio et velut torrente quodam auferetur, praesertim cum illi non unum adfectum des cum quo conluctetur sed omnis. Plus potest quamvis mediocrium turba quam posset unius magni violentia. [7] Habet pecuniae cupiditatem, sed modicam; habet ambitionem, sed non concitatam; habet iracundiam, sed placabilem; habet inconstantiam, sed minus vagam ac mobilem; habet libidinem, sed non insanam. Melius cum illo ageretur qui unum vitium integrum haberet quam cum eo qui leviora quidem, sed omnia. [8] Deinde nihil interest quam magnus sit adfectus: quantuscumque est, parere nescit, consilium non accipit. Quemadmodum rationi nullum animal optemperat, non ferum, non domesticum et mite (natura enim illorum est surda suadenti), sic non sequuntur, non audiunt adfectus, quantulicumque sunt. Tigres leonesque numquam feritatem exuunt, aliquando summittunt, et cum minime expectaveris exasperatur torvitas mitigata. Numquam bona fide vitia mansuescunt. [9] Deinde, si ratio proficit, ne incipient quidem adfectus; si invita ratione coeperint, invita perseverabunt. Facilius est enim initia illorum prohibere quam impetum regere. Falsa est itaque ista mediocritas et inutilis, eodem loco habenda quo si quis diceret modice insaniendum, modiceaegrotandum
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1 Ti avevo risparmiato e avevo tralasciato tutte le questioni complicate che ancora rimanevano, contento di darti come un assaggio delle teorie stoiche tendenti a dimostrare che la virtù da sola basta a rendere felice la vita. Ora tu vuoi che io ti esponga tutte le argomentazioni della nostra scuola oppure quelle escogitate per schernirci: se volessi farlo, la mia non sarebbe una lettera, ma un libro. Te l'ho detto tante volte che non mi piace questo genere di argomenti, mi vergogno di scendere in campo e di battermi a favore di dèi e uomini armato di una lesina. 2 "L'uomo saggio è anche moderato; l'uomo moderato è anche tenace; l'uomo tenace è imperturbabile, l'uomo imperturbabile non è mai triste; chi non è mai triste è felice; quindi, il saggio è felice e la saggezza è sufficiente per avere una vita felice." 3 A questo sillogismo certi Peripatetici rispondono che intendono "imperturbabile, tenace, mai triste" nel senso in cui si definisce "imperturbabile" chi si turba raramente e poco, non chi non si turba mai. Allo stesso modo si definisce "mai triste" dicono chi non è soggetto alla tristezza e non indulge spesso in maniera eccessiva a questo difetto; perché per sua natura nessun uomo può essere immune dalla tristezza; il saggio non vi soccombe, ma ne è toccato; e aggiungono altre affermazioni in linea alle direttive della loro scuola. Così per loro il saggio non è privo di passioni, ma le domina. 4 Certo riconosciamo ben poco al saggio se lo stimiamo più forte dei più deboli, più allegro dei più tristi, più moderato dei più sfrenati, più grande dei più umili! Che penseresti se Lada trovasse straordinaria la sua velocità mettendola a confronto con gli zoppi e i deboli? Ella potrebbe volare a fior delle messi intatte senza danneggiare con la corsa le tenere spighe, o attraversare il mare sospesa sui gonfi flutti, senza bagnare i veloci piedi. Questa è una velocità apprezzata per se stessa, che non è lodata al confronto con i più lenti. Definiresti sana una persona che ha una febbre leggera? Non avere una malattia grave non è salute. 5 "Così," continuano, "si dice che il saggio è imperturbabile, come si dice che sono senza nocciolo non i frutti privi di semi, ma quelli che li hanno più piccoli." Falso. Il saggio, a mio parere, deve essere senza vizi, e non averne di meno; devono mancare completamente, non essere piccoli; se ce n'è qualcuno, crescerà e sarà a volte di ostacolo. Un principio di cataratta offusca la vista; quando diventa più grande e matura rende ciechi. 6 Se al saggio attribuisci delle passioni, la ragione sarà sopraffatta e trascinata via come da un torrente, soprattutto se deve combattere, a tuo parere, non contro una sola passione, ma contro tutte. Una massa di passioni, anche se moderate, ha più forza di un'unica, violenta passione. 7 È avido, ma non troppo; è ambizioso, ma non in maniera esagerata; è collerico, ma si calma sùbito; è incostante, ma non eccessivamente volubile e mutevole; è lussurioso, ma non maniaco. Si tratterebbe meglio con un individuo caratterizzato da un unico vizio completo che con chi li ha tutti, anche se più leggeri. 8 Inoltre, non importa quanto è grande una passione: per piccola che sia, non sa obbedire, non accetta consigli. Nessun animale, sia feroce, sia domestico e mansueto, obbedisce alla ragione: la loro natura è sorda ai moniti che da essa provengono; così le passioni, per quanto piccole siano, non seguono la ragione, non le dànno ascolto. Le tigri e i leoni non si spogliano mai della loro ferocia, certe volte la placano, ma, quando meno te l'aspetti, la loro ferinità, momentaneamente lenita, esplode. Non c'è mai sicura garanzia che i vizi siano domati. 9 E poi, se la ragione viene in aiuto, le passioni non nascono nemmeno; ma se cominciano a dispetto della ragione, a dispetto della ragione continueranno. È più facile impedirne la nascita che dominarne la violenza. Parlare di una via di mezzo è perciò sbagliato e inutile, come se uno dicesse che ci si può ammalare o impazzire solo un po'
[10] Sola virtus habet, non recipiunt animi mala temperamentum; facilius sustuleris illa quam rexeris. Numquid dubium est quin vitia mentis humanae inveterata et dura, quae morbos vocamus, inmoderata sint, ut avaritia, ut crudelitas, ut inpotentia [impietas]? Ergo inmoderati sunt et adfectus; ab his enim ad illa transitur. [11] Deinde, si das aliquid iuris tristitiae, timori, cupiditati, ceteris motibus pravis, non erunt in nostra potestate. Quare? quia extra nos sunt quibus inritantur; itaque crescent prout magnas habuerint minoresve causas quibus concitentur. Maior erit timor, si plus quo exterreatur aut propius aspexerit, acrior cupiditas quo illam amplioris rei spes evocaverit. [12] Si in nostra potestate non est an sint adfectus, ne illud quidem est, quanti sint: si ipsis permisisti incipere, cum causis suis crescent tantique erunt quanti fient. Adice nunc quod ista, quamvis exigua sint, in maius excedunt; numquam perniciosa servant modum; quamvis levia initia morborum serpunt et aegra corpora minima interdum mergit accessio. [13] Illud vero cuius dementiae est, credere quarum rerum extra nostrum arbitrium posita principia sunt, earum nostri esse arbitri terminos! Quomodo ad id finiendum satis valeo ad quod prohibendum parum valui, cum facilius sit excludere quam admissa conprimere?
10 Solo la virtù conosce la moderazione, i vizi no; è più facile eliminarli che dominarli. I vizi radicati e incalliti dell'anima umana, quelli che noi definiamo malattie, come l'avarizia, la crudeltà, la prepotenza, sono senza dubbio smodati. Quindi, smodate sono anche le passioni; giacché da quelli si passa a queste. 11 E poi, se riconosciamo un qualche diritto alla tristezza, alla paura, alla cupidigia, e agli altri impulsi perversi, non riusciremo più a dominarli. Perché? Perché le forze che li eccitano sono fuori di noi, e perciò essi cresceranno a seconda che a suscitarli siano cause più o meno grandi. Se uno guarda più a lungo o più da vicino quello che lo atterrisce, la sua paura sarà maggiore; così la cupidigia sarà più acuta se la stimola la speranza di una cosa più preziosa. 12 Se non siamo in grado di impedire l'insorgere delle passioni, non saremo neppure in grado di regolarle. Se hai permesso loro di nascere, cresceranno con le loro cause e la loro forza sarà proporzionale al loro sviluppo. Aggiungi poi che le passioni, per quanto possano essere moderate, tendono ad aumentare; le cose nocive non mantengono mai una giusta misura; per quanto all'inizio siano leggeri, i mali serpeggiano e a volte un attacco lievissimo abbatte un organismo malato. 13 Che pazzia è credere di poter mettere fine a nostro piacimento a quelle passioni di cui non siamo in grado di contrastare gli inizi! Come posso avere forza sufficiente per mettere fine a una cosa che non ho avuto la forza di impedire, quando è più facile respingere che mettere freno a quello cui si è lasciato via libera!
[14] Quidam ita distinxerunt ut dicerent, 'temperans ac prudens positione quidem mentis et habitu tranquillus est, eventu non est. Nam, quantum ad habitum mentis suae, non perturbatur nec contristatur nec timet, sed multae extrinsecus causae incidunt quae illi perturbationem adferant.' [15] Tale est quod volunt dicere: iracundum quidem illum non esse, irasci tamen aliquando; et timidum quidem non esse, timere tamen aliquando, id est vitio timoris carere, adfectu non carere. Quod si recipitur, usu frequenti timor transibit in vitium, et ira in animum admissa habitum illum ira carentis animi retexet. [16] Praeterea si non contemnit venientes extrinsecus causas et aliquid timet, cum fortiter eundum erit adversus tela, ignes, pro patria, legibus, libertate, cunctanter exibit et animo recedente. Non cadit autem in sapientem haec diversitas mentis. [17] Illud praeterea iudico observandum, ne duo quae separatim probanda sunt misceamus; per se enim colligitur unum bonum esse quod honestum, per se rursus ad vitam beatam satis esse virtutem. Si unum bonum est quod honestum, omnes concedunt ad beate vivendum sufficere virtutem; e contrario non remittetur, si beatum sola virtus facit, unum bonum esse quod honestum est. [18] Xenocrates et Speusippus putant beatum vel sola virtute fieri posse, non tamen unum bonum esse quod honestum est. Epicurus quoque iudicat, cum virtutem habeat, beatum esse, sed ipsam virtutem non satis esse ad beatam vitam, quia beatum efficiat voluptas quae ex virtute est, non ipsa virtus. Inepta distinctio: idem enim negat umquam virtutem esse sine voluptate. Ita si ei iuncta semper est atque inseparabilis, et sola satis est; habet enim secum voluptatem, sine qua non est etiam cum sola est. [19] Illud autem absurdum est, quod dicitur beatum quidem futurum vel sola virtute, non futurum autem perfecte beatum; quod quemadmodum fieri possit non reperio. Beata enim vita bonum in se perfectum habet, inexsuperabile; quod si est, perfecte beata est. Si deorum vita nihil habet maius aut melius, beata autem vita divina est, nihil habet in quod amplius possit attolli. [20] Praeterea, si beata vita nullius est indigens, omnis beata vita perfecta est eademque est et beata et beatissima. Numquid dubitas quin beata vita summum bonum sit? ergo si summum bonum habet, summe beata est. Quemadmodum summum bonum adiectionem non recipit (quid enim supra summum erit?), ita ne beata quidem vita, quae sine summo bono non est. Quod si aliquem 'magis' beatum induxeris, induces et 'multo magis'; innumerabilia discrimina summi boni facies, cum summum bonum intellegam quod supra se gradum non habet. [21] Si est aliquis minus beatus quam alius, sequitur ut hic alterius vitam beatioris magis concupiscat quam suam; beatus autem nihil suae praefert. Utrumlibet ex his incredibile est, aut aliquid beato restare quod esse quam quod est malit, aut id illum non malle quod illo melius est. Utique enim quo prudentior est, hoc magis se ad id quod est optimum extendet et id omni modo consequi cupiet. Quomodo autem beatus est qui cupere etiamnunc potest, immo qui debet?
14 Certi filosofi hanno fatto questa distinzione: "L'uomo moderato e saggio è sereno per disposizione e abito mentale, ma non lo è di fronte ad avvenimenti improvvisi. Per abito mentale non si turba, non si rattrista, non ha paura, ma a turbarlo possono intervenire molte cause esterne." 15 Precisiamo quello che vogliono dire: costui non è collerico, ma qualche volta si infuria; non è un vigliacco, ma qualche volta ha paura, in lui, cioè, la paura non è un vizio, ma un'affezione momentanea. Se ammettiamo questo, la paura a lungo andare può trasformarsi in vizio, e l'ira, una volta penetrata nell'animo, può modificare quella fisionomia propria di un animo che ne è esente. 16 Inoltre, se uno non disprezza le cause esterne e teme qualcosa, esiterà a muoversi e sarà riluttante quando dovrà affrontare con coraggio le armi, il fuoco per difendere la patria, le leggi, la libertà. Ma il saggio non è soggetto a questi sentimenti contrastanti. 17 Ritengo, inoltre, che bisogna fare attenzione a non mescolare due questioni che vanno esaminate separatamente; in un modo si argomenta che l'unico bene è l'onesto, in un altro che la virtù basta alla felicità. Se l'unico bene è l'onesto, tutti ammettono che la virtù basta alla felicità; viceversa, se è solo la virtù a rendere felici, non si concederà che l'unico bene è l'onesto. 18 Senocrate e Speusippo giudicano che si può diventare felici anche per la sola virtù, ma non che l'unico bene è l'onesto. Anche secondo Epicuro, avendo la virtù, si è felici, ma la virtù non basta alla felicità, perché a rendere felici è il piacere che deriva dalla virtù, non la virtù in se stessa. È una distinzione che non vale niente: lo stesso Epicuro sostiene infatti che la virtù si accompagna sempre al piacere. Così se vi è sempre strettamente unita e ne è inseparabile, basta anche da sola; difatti, anche quando è sola, ha con sé il piacere, senza il quale non esiste. 19 È poi assurdo affermare che si sarà felici anche con la sola virtù, ma non perfettamente felici; non capisco come ciò sia possibile. La felicità ha in sé il bene perfetto e insuperabile; e se è così, la felicità è perfetta. Se non c'è niente di più grande o di migliore della vita degli dèi, e la vita degli dèi è felice, essa non può innalzarsi a vertici più alti. 20 Inoltre, se la felicità non ha bisogno di niente, ogni felicità è perfetta ed è, al tempo stesso, felice e la più felice. Dubiti forse che la felicità sia il sommo bene? E allora, se possiede il sommo bene, è felice al massimo grado. Il sommo bene non ammette aumenti, perché non c'è niente al di sopra del sommo; analogamente non ne ammette neppure la felicità, che non esiste senza il sommo bene. Perché se postuli uno "più" felice, postulerai anche uno "molto più" felice; farai innumerevoli distinzioni del sommo bene, mentre io intendo come sommo bene ciò che non ha gradi sopra di sé. 21 Se uno è meno felice di un altro, ne consegue che il primo preferisce alla sua la vita dell'altro più felice; ma l'uomo felice non preferisce niente alla sua vita. Entrambi i casi sono inverosimili: sia che per l'uomo felice ci sia qualcosa da preferire al suo stato, sia che non preferisca uno stato migliore del suo. Più uno è saggio, più tenderà al meglio e desidererà conseguirlo a ogni costo. Ma come può essere felice uno che può anzi deve, avere ancora dei desideri?
[22] Dicam quid sit ex quo veniat hic error: nesciunt beatam vitam unam esse. In optimo illam statu ponit qualitas sua, non magnitudo; itaque in aequo est longa et brevis, diffusa et angustior, in multa loca multasque partes distributa et in unum coacta. Qui illam numero aestimat et mensura et partibus, id illi quod habet eximium eripit. Quid autem est in beata vita eximium? quod plena est. [23] Finis, ut puto, edendi bibendique satietas est. Hic plus edit, ille minus: quid refert? uterque iam satur est. Hic plus bibit, ille minus: quid refert? uterque non sitit. Hic pluribus annis vixit, hic paucioribus: nihil interest si tam illum multi anni beatum fecerunt quam hunc pauci. Ille quem tu minus beatum vocas non est beatus: non potest hoc nomen inminui. [24] 'Qui fortis est sine timore est; qui sine timore est sine tristitia est; qui sine tristitia est beatus est.' Nostrorum haec interrogatio est. Adversus hanc sic respondere conantur: falsam nos rem et controversiosam pro confessa vindicare, eum qui fortis est sine timore esse. 'Quid ergo?' inquit 'fortis inminentia mala non timebit? istuc dementis alienatique, non fortis est. Ille vero' inquit 'moderatissime timet, sed in totum extra metum non est.' [25] Qui hoc dicunt rursus in idem revolvuntur, ut illis virtutum loco sint minora vitia; nam qui timet quidem, sed rarius et minus, non caret malitia, sed leviore vexatur. 'At enim dementem puto qui mala inminentia non extimescit.' Verum est quod dicis, si mala sunt; sed si scit mala illa non esse et unam tantum turpitudinem malum iudicat, debebit secure pericula aspicere et aliis timenda contemnere. Aut si stulti et amentis est mala non timere, quo quis prudentior est, hoc timebit magis. [26] 'Ut vobis' inquit 'videtur, praebebit se periculis fortis.' Minime: non timebit illa sed vitabit; cautio illum decet, timor non decet. 'Quid ergo?' inquit 'mortem, vincula, ignes, alia tela fortunae non timebit?' Non; scit enim illa non esse mala sed videri; omnia ista humanae vitae formidines putat. [27] Describe captivitatem, verbera, catenas, egestatem et membrorum lacerationes vel per morbum vel per iniuriam et quidquid aliud adtuleris: inter lymphatos metus numerat. Ista timidis timenda sunt. An id existimas malum ad quod aliquando nobis nostra sponte veniendum est? [28] Quaeris quid sit malum?cedere iis quae mala vocantur et illis libertatem suam dedere, pro qua cuncta patienda sunt: perit libertas nisi illa contemnimus quae nobis iugum inponunt. Non dubitarent quid conveniret forti viro si scirent quid esset fortitudo. Non est enim inconsulta temeritas nec periculorum amor nec formidabilium adpetitio: scientia est distinguendi quid sit malum et quid non sit. Diligentissima in tutela sui fortitudo est et eadem patientissima eorum quibus falsa species malorum est. [29] 'Quid ergo? si ferrum intentatur cervicibus viri fortis, si pars subinde alia atque alia suffoditur, si viscera sua in sinu suo vidit, si ex intervallo, quo magis tormenta sentiat, repetitur et per adsiccata vulnera recens demittitur sanguis, non timet? istum tu dices nec dolere?' Iste vero dolet (sensum enim hominis nulla exuit virtus), sed non timet: invictus ex alto dolores suos spectat. Quaeris quis tunc animus illi sit? qui aegrum amicum adhortantibus.
22 Ti spiegherò l'origine di questo errore: non sanno che una sola è la felicità. La sua qualità, non la sua grandezza, la mette nella condizione migliore; perciò è uguale sia lunga, sia breve, sia estesa, sia ristretta, distribuita in molti luoghi e in parti diverse o costretta in un unico posto. Chi la valuta in base a numeri, misure e parti, la priva della sua singolare caratteristica. E qual è questa caratteristica? La completezza. 23 Saziarsi è secondo me lo scopo del mangiare e del bere. Uno mangia di più, un altro di meno: che importa? Si sono saziati entrambi. Uno beve di più, un altro di meno: che importa? Nessuno dei due ha sete. Uno ha vissuto più a lungo, un altro meno: non importa, se i numerosi anni di vita hanno reso felice l'uno quanto l'altro i pochi. Quell'uomo che tu definisci meno felice, non è felice: questo aggettivo non può venire limitato. 24 "Chi è forte non ha paura; chi non ha paura non è triste; chi non è triste è felice." Questo è un sillogismo stoico; tentano di confutarlo dicendo che noi vogliamo far passare per vera un'affermazione falsa e controversa, cioè che l'uomo forte non ha paura. "E come?" dicono. "L'uomo forte non temerà i mali che lo sovrastano? Questo è l'atteggiamento di un pazzo, di un demente, non di una persona forte. Egli riesce a dominare la sua paura, ma non ne è del tutto immune." 25 Quelli che la pensano così ricadono di nuovo nello stesso errore: considerano virtù i vizi meno accentuati; se uno ha paura, ma più raramente e meno degli altri, non è che non abbia questo vizio, solo ne è affetto in misura minore. "Ma per me è un pazzo chi non teme i mali che lo minacciano." Ciò che dici sarebbe vero se si trattasse di mali, ma se egli sa che quelli non sono mali e giudica un male soltanto la disonestà, dovrà guardare i pericoli senza paura e disprezzare i timori degli altri. Oppure, se non temere i mali è da sciocchi o da pazzi, più uno è saggio più ne avrà timore. 26 "Secondo voi," continuano, "l'uomo forte deve esporsi ai pericoli." Niente affatto: non ne avrà paura, ma cercherà di evitarli; gli si addice la cautela, non la paura. "Ma come?" chiedono. "Non avrà paura della morte, della prigione, del fuoco e degli altri colpi della fortuna?" No; sa che non sono mali, ne hanno solo l'apparenza; tutti questi li giudica spauracchi della vita umana. 27 Descrivigli la prigionia, le frustate, le catene, la povertà, le membra straziate dalle malattie o dalla violenza e qualunque altro tormento vorrai aggiungere: le considera paure degne di una mente malata. Solo i deboli ne hanno timore. Oppure giudichi un male quello che a volte dobbiamo affrontare volontariamente? 28 Chiedi qual è il male? Cedere ai cosiddetti mali e consegnare ad essi la propria libertà, in nome della quale bisogna sopportare ogni sofferenza: la libertà finisce, se non disprezziamo le cose che ci impongono un giogo. Se sapessero cos'è il coraggio, non avrebbero dubbi sull'atteggiamento conveniente a un uomo coraggioso. E il coraggio non è temerità sconsiderata o amore del pericolo o ricerca di situazioni spaventose: è la capacità di distinguere cos'è male e che cosa non lo è. L'uomo coraggioso è molto attento alla sua difesa e nello stesso tempo sopporta con grande fermezza gli eventi che hanno la falsa apparenza di mali. 29 "E allora? Se l'uomo forte lo minaccia una spada, se è colpito ripetutamente in più parti del corpo, se dal ventre squarciato vede le sue viscere, se viene torturato a intervalli perché senta di più i tormenti e nuovo sangue esce dalle ferite rimarginate, dirai forse che non ha paura, né tanto meno prova dolore?" Soffre, sì (nessuna virtù toglie all'uomo la sensibilità), ma non ha paura: incrollabile guarda dall'alto le sue sofferenze. Vuoi sapere qual è il suo stato d'animo in quel momento? Quello di chi conforta un amico ammalato.
[30] 'Quod malum est nocet; quod nocet deteriorem facit; dolor et paupertas deteriorem non faciunt; ergo mala non sunt.' 'Falsum est' inquit 'quod proponitis; non enim, si quid nocet, etiam deteriorem facit. Tempestas et procella nocet gubernatori, non tamen illum deteriorem facit.' [31] Quidam e Stoicis ita adversus hoc respondent: deteriorem fieri gubernatorem tempestate ac procella, quia non possit id quod proposuit efficere nec tenere cursum suum; deteriorem illum in arte sua non fieri, in opere fieri. Quibus Peripateticus 'ergo' inquit 'et sapientem deteriorem faciet paupertas, dolor, et quidquid aliud tale fuerit; virtutem enim illi non eripiet, sed opera eius inpediet'. [32] Hoc recte diceretur nisi dissimilis esset gubernatoris condicio et sapientis. Huic enim propositum est in vita agenda non utique quod temptat efficere, sed omnia recte facere: gubernatori propositum est utique navem in portum perducere. Artes ministrae sunt, praestare debent quod promittunt, sapientia domina rectrixque est; artes serviunt vitae, sapientia imperat.
[33] Ego aliter respondendum iudico: nec artem gubernatoris deteriorem ulla tempestate fieri nec ipsam administrationem artis. Gubernator tibi non felicitatem promisit sed utilem operam et navis regendae scientiam; haec eo magis apparet quo illi magis aliqua fortuita vis obstitit. Qui hoc potuit dicere, 'Neptune, numquam hanc navem nisi rectam', arti satis fecit: tempestas non opus gubernatoris inpedit sed successum. [34] 'Quid ergo?' inquit 'non nocet gubernatori ea res quae illum tenere portum vetat, quae conatus eius inritos efficit, quae aut refert illum aut detinet et exarmat?' Non tamquam gubernatori, sed tamquam naviganti nocet: alioqui Gubernatoris artem adeo non inpedit ut ostendat; tranquillo enim, ut aiunt, quilibet gubernator est. Navigio ista obsunt, non rectori eius, qua rector est. [35] Duas personas habet gubernator, alteram communem cum omnibus qui eandem conscenderunt navem: ipse quoque vector est; alteram propriam: gubernator est. Tempestas tamquam vectori nocet, non tamquam gubernatori. [36] Deinde gubernatoris ars alienum bonum est: ad eos quos vehit pertinet, quomodo medici ad eos quos curat: commune bonum est: et eorum cum quibus vivit et proprium ipsius. Itaque gubernatori fortasse noceatur cuius ministerium aliis promissum tempestate inpeditur: [37] sapienti non nocetur a paupertate, non a dolore, non ab aliis tempestatibus vitae. Non enim prohibentur opera eius omnia, sed tantum ad alios pertinentia: ipse semper in actu est, in effectu tunc maximus cum illi fortuna se opposuit; tunc enim ipsius sapientiae negotium agit, quam diximus et alienum bonum esse et suum.
[38] Praeterea ne aliis quidem tunc prodesse prohibetur cum illum aliquae necessitates premunt. Propter paupertatem prohibetur docere quemadmodum tractanda res publica sit, at illud docet, quemadmodum sit tractanda paupertas. Per totam vitam opus eius extenditur. Ita nulla fortuna, nulla res actus sapientis excludit; id enim ipsum agit quo alia agere prohibetur. Ad utrosque casus aptatus est: bonorum rector est, malorum victor. [39] Sic, inquam, se exercuit ut virtutem tam in secundis quam in adversis exhiberet nec materiam eius sed ipsam intueretur; itaque nec paupertas illum nec dolor nec quidquid aliud inperitos avertit et praecipites agit prohibet. [40] Tu illum premi putas malis? utitur. Non ex ebore tantum Phidias sciebat facere simulacra; faciebat ex aere. Si marmor illi, si adhuc viliorem materiam obtulisses, fecisset quale ex illa fieri optimum posset. Sic sapiens virtutem, si licebit, in divitiis explicabit, si minus, in paupertate; si poterit, in patria, si minus, in exilio; si poterit, imperator, si minus, miles; si poterit, integer, si minus, debilis. Quamcumque fortunam acceperit, aliquid ex illa memorabile efficiet. [41] Certi sunt domitores ferarum qui saevissima animalia et ad occursum expavescenda hominem pati subigunt nec asperitatem excussisse contenti usque in contubernium mitigant: leonis faucibus magister manum insertat, osculatur tigrim suus custos, elephantum minimus Aethiops iubet subsidere in genua et ambulare per funem. Sic sapiens artifex est domandi mala: dolor, egestas, ignominia, carcer, exilium ubique horrenda, cum ad hunc pervenere, mansueta sunt. Vale.
30 "Ciò che è male nuoce; ciò che nuoce rende peggiori, il dolore e la povertà non rendono peggiori; quindi, non sono mali." "Sillogismo falso," sostengono, "quello che nuoce non è detto che renda anche peggiori. Tempeste e burrasche nuocciono al timoniere, ma non lo rendono peggiore." 31 Qualche Stoico controbatte così: tempeste e burrasche rendono peggiore il timoniere perché non può realizzare i suoi propositi e non può mantenere la rotta; non diventa peggiore nella sua arte, ma nel realizzarla. A questi filosofi i Peripatetici rispondono: "Dunque, la povertà, il dolore e qualunque altra disgrazia del genere, renderanno peggiore anche il saggio; non gli toglieranno la virtù, ma ne impediranno l'attuazione." 32 Questa affermazione sarebbe giusta se la condizione del timoniere e quella del saggio non fosse diversa. Il saggio non si propone di realizzare a ogni costo nel corso della vita i suoi scopi, ma di agire sempre con rettitudine: il timoniere, invece, si propone di condurre a ogni costo la nave in porto. Le arti sono strumenti, devono mantenere quello che promettono, la saggezza è signora e padrona; le arti sono al servizio della vita, la saggezza la comanda. 33 Ritengo, quindi, che si debba rispondere diversamente: nessuna burrasca rende peggiore l'arte del timoniere o la sua attuazione pratica. Il timoniere non ti promette un esito fortunato, ma un servizio utile e la capacità di condurre la nave; e questa risulta tanto più evidente quanto maggiori sono le forze impreviste che lo ostacolano. Chi ha potuto dire: "Nettuno, non avrai mai questa nave, se non sulla giusta rotta", ha fatto abbastanza per l'arte sua. La tempesta non impedisce il lavoro del timoniere, ma il successo. 34 "Come?" chiedono. "Al timoniere non nuoce una cosa che gli impedisce di arrivare in porto, che rende vani i suoi tentativi, che lo spinge indietro oppure non lo fa avanzare e distrugge l'attrezzatura dell'imbarcazione?" Non gli nuoce come timoniere, ma come navigante: per altri aspetti egli non è un timoniere. Non impedisce la sua arte, anzi la mette in risalto; col mare tranquillo - dice il proverbio - tutti sono bravi piloti. Queste difficoltà danneggiano la nave, non il timoniere, in quanto timoniere. 35 Il timoniere riveste due ruoli: uno comune a tutti i passeggeri della nave: anch'egli è un passeggero; l'altro suo proprio: è il timoniere. La tempesta gli nuoce come passeggero, non come timoniere. 36 Inoltre l'arte del timoniere è un bene per gli altri: riguarda i passeggeri, come quella del medico riguarda i pazienti: l'arte del saggio è un bene comune, sia di coloro con cui vive, sia suo proprio. Perciò forse il timoniere subisce un danno quando la tempesta gli impedisce di compiere un servizio promesso ad altri; 37 al saggio, invece, non nuocciono la povertà, il dolore e le altre vicissitudini della vita: non gli impediscono ogni attività, ma solo quelle che riguardano gli altri; egli è sempre in azione e realizza i suoi intenti soprattutto quando la sorte gli è sfavorevole; allora agisce nell'interesse della stessa saggezza che, come abbiamo detto, è un bene suo e degli altri. 38 Il saggio, inoltre, può giovare agli altri anche se è oppresso dalle difficoltà. La povertà gli può impedire di insegnare come governare lo stato, ma egli insegna come governare la povertà. La sua opera dura per tutta la vita. L'attività del saggio non la impediscono così nessun caso, nessuna circostanza: egli si occupa di quella stessa faccenda che gli impedisce di occuparsi d'altro. È pronto a entrambe le evenienze: essere padrone del bene e saper vincere il male. 39 Si è preparato, dico, a dimostrare la sua virtù sia nella buona che nella cattiva fortuna e a guardare non alla materia in cui la virtù si esplica, ma direttamente ad essa; perciò non lo ferma la povertà, né il dolore, né qualunque altro caso che distoglie e mette in fuga gli ignoranti. Pensi che i mali lo abbattano? Al contrario, se ne serve. 40 Fidia non sapeva scolpire solo statue d'avorio, le faceva anche di bronzo. Se avesse avuto a disposizione marmo o un materiale ancòra meno pregiato, avrebbe fatto il meglio che la materia consentiva. Così il saggio dimostrerà la sua virtù - se sarà possibile - nella ricchezza, se no, in povertà; se potrà, in patria, se no, in esilio; come comandante supremo, se no, come soldato; sano, se no storpio. Qualunque sia il suo destino, ne ricaverà cose memorabili. 41 Ci sono domatori che ammaestrano bestie ferocissime e spaventose a trovarsele davanti, e non si accontentano di averle private della loro fierezza, le ammansiscono fino ad averne familiarità: il domatore caccia la mano nelle fauci del leone, il sorvegliante bacia la tigre; un giovanissimo etiope fa inginocchiare l'elefante e lo fa passeggiare sulla fune. Così il saggio è capace di domare i mali: il dolore, la miseria, il disonore, il carcere, l'esilio, spaventosi sempre, davanti a lui diventano mansueti. Stammi bene.
LXXXVI. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] In ipsa Scipionis Africani villa iacens haec tibi scribo, adoratis manibus eius et ara, quam sepulchrum esse tanti viri suspicor. Animum quidem eius in caelum ex quo erat redisse persuadeo mihi, non quia magnos exercitus duxit (hos enim et Cambyses furiosus ac furore feliciter usus habuit), sed ob egregiam moderationem pietatemque, quam magis in illo admirabilem iudico cum reliquit patriam quam cum defendit. Aut Scipio Romae esse debebat aut Roma in libertate. [2] 'Nihil' inquit 'volo derogare legibus, nihil institutis; aequum inter omnes cives ius sit. Utere sine me beneficio meo, patria. Causa tibi libertatis fui, ero et argumentum: exeo, si plus quam tibi expedit crevi.' [3] Quidni ego admirer hanc magnitudinem animi, qua in exilium voluntarium secessit et civitatem exoneravit? Eo perducta res erat ut aut libertas Scipioni aut Scipio libertati faceret iniuriam. Neutrum fas erat; itaque locum dedit legibus et se Liternum recepit tam suum exilium rei publicae inputaturus quam Hannibalis.
1 Ti scrivo mentre me ne sto in riposo proprio nella villa di Scipione l'Africano, dopo aver reso onore al suo spirito e all'ara che - immagino - è il sepolcro di un così grande uomo. Sono convinto che la sua anima è ritornata in cielo, sua origine, non perché comandò grandi eserciti (lo fece anche quel pazzo di Cambise, e con successo nella sua pazzia), ma per la sua straordinaria moderazione e per il suo amore di patria, che - penso - fu in lui più ammirevole quando lasciò la sua città che quando la difese. Doveva scegliere, o Scipione a Roma, o Roma libera. 2 "Non voglio," disse, "derogare alle leggi, né alle istituzioni; tutti i cittadini abbiano uguali diritti. Goditi, o patria, senza di me il bene che ti ho fatto. Sono stato l'artefice della tua libertà, ne sarò anche la prova: me ne vado, se la mia autorità è cresciuta più di quanto ti è utile." 3 E perché non dovrei ammirare questa grandezza d'animo che lo spinse ad andare volontariamente in esilio e a liberare la città da un peso? La situazione era arrivata a un punto tale che o la libertà avrebbe fatto violenza a Scipione, o Scipione alla libertà. In entrambi i casi sarebbe stato un sacrilegio; egli, perciò obbedì alle leggi e si ritirò a Literno, imputando allo stato tanto il suo esilio, quanto quello di Annibale.
[4] Vidi villam extructam lapide quadrato, murum circumdatum silvae, turres quoque in propugnaculum villae utrimque subrectas, cisternam aedificiis ac viridibus subditam quae sufficere in usum vel exercitus posset, balneolum angustum, tenebricosum ex consuetudine antiqua: non videbatur maioribus nostris caldum nisi obscurum. [5] Magna ergo me voluptas subiit contemplantem mores Scipionis ac nostros: in hoc angulo ille 'Carthaginis horror', cui Roma debet quod tantum semel capta est, abluebat corpus laboribus rusticis fessum. Exercebat enim opere se terramque (ut mos fuit priscis) ipse subigebat. Sub hoc ille tecto tam sordido stetit, hoc illum pavimentum tam vile sustinuit: at nunc quis est qui sic lavari sustineat? [6] Pauper sibi videtur ac sordidus nisi parietes magnis et pretiosis orbibus refulserunt, nisi Alexandrina marmora Numidicis crustis distincta sunt, nisi illis undique operosa et in picturae modum variata circumlitio praetexitur, nisi vitro absconditur camera, nisi Thasius lapis, quondam rarum in aliquo spectaculum templo, piscinas nostras circumdedit, in quas multa sudatione corpora exsaniata demittimus, nisi aquam argentea epitonia fuderunt. [7] Et adhuc plebeias fistulas loquor: quid cum ad balnea libertinorum pervenero? Quantum statuarum, quantum columnarum est nihil sustinentium sed in ornamentum positarum impensae causa! quantum aquarum per gradus cum fragore labentium! Eo deliciarum pervenimus ut nisi gemmas calcare nolimus.
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4 Ho visto la villa costruita con massi quadrati, il muro che delimita il bosco, e anche le torri edificate a difesa della casa su i due lati, la cisterna, nascosta da fabbricati e piante, che potrebbe bastare persino al fabbisogno di un esercito, il bagno angusto e buio secondo le abitudini antiche: per i nostri antenati non era caldo, se non era oscuro. 5 Ho provato un grande piacere a confrontare i costumi di Scipione e i nostri: in questo cantuccio "il terrore di Cartagine", a cui Roma è debitrice di essere stata invasa una sola volta, lavava via la stanchezza della fatica nei campi. Si dedicava ai lavori agricoli e vangava la terra di sua mano, come era costume degli antichi. Abitò sotto questo tetto così squallido e calpestò questo pavimento tanto rustico: ma adesso chi sopporterebbe di fare il bagno in questo modo? 6 Ci sembra di essere poveri e meschini se le pareti non risplendono di grandi e preziosi specchi, se i marmi alessandrini non sono adornati di rivestimenti numidici e la vernice, data con perizia e varia come un dipinto, non li ricopre da ogni parte, se il soffitto non è rivestito di vetro, se il marmo di Taso, che un tempo si ammirava, e di rado, in qualche tempio, non circonda le vasche, in cui immergiamo il corpo snervato dall'abbondante sudorazione, se l'acqua non sgorga da rubinetti d'argento. 7 E ancora parlo di bagni plebei: che dovrei dire arrivando ai bagni dei liberti? Quante statue, quante colonne che non sostengono niente, ma sono solo un elemento ornamentale e una dimostrazione della spesa sostenuta! Che volume d'acqua viene giù fragorosamente dai gradini. Siamo arrivati a un lusso tale che vogliamo avere sotto i piedi solo pietre preziose.
[8] In hoc balneo Scipionis minimae sunt rimae magis quam fenestrae muro lapideo exsectae, ut sine iniuria munimenti lumen admitterent; at nunc blattaria vocant balnea, si qua non ita aptata sunt ut totius diei solem fenestris amplissimis recipiant, nisi et lavantur simul et colorantur, nisi ex solio agros ac maria prospiciunt. Itaque quae concursum et admirationem habuerant cum dedicarentur, ea in antiquorum numerum reiciuntur cum aliquid novi luxuria commenta est quo ipsa se obrueret. [9] At olim et pauca erant balnea nec ullo cultu exornata: cur enim exornaretur res quadrantaria et in usum, non in oblectamentum reperta? Non suffundebatur aqua nec recens semper velut ex calido fonte currebat, nec referre credebant in quam perlucida sordes deponerent. [10] Sed, di boni, quam iuvat illa balinea intrare obscura et gregali tectorio inducta, quae scires Catonem tibi aedilem aut Fabium Maximum aut ex Corneliis aliquem manu sua temperasse! Nam hoc quoque nobilissimi aediles fungebantur officio intrandi ea loca quae populum receptabant exigendique munditias et utilem ac salubrem temperaturam, non hanc quae nuper inventa est similis incendio, adeo quidem ut convictum in aliquo scelere servum vivum lavari oporteat. Nihil mihi videtur iam interesse, ardeat balineum an caleat. [11] Quantae nunc aliqui rusticitatis damnant Scipionem quod non in caldarium suum latis specularibus diem admiserat, quod non in multa luce decoquebatur et expectabat ut in balneo concoqueret! O hominem calamitosum! nesciit vivere. Non saccata aqua lavabatur sed saepe turbida et, cum plueret vehementius, paene lutulenta. Nec multum eius intererat an sic lavaretur; veniebat enim ut sudorem illic ablueret, non ut unguentum. [12] Quas nunc quorundam voces futuras credis? 'Non invideo Scipioni: vere in exilio vixit qui sic lavabatur.' Immo, si scias, non cotidie lavabatur; nam, ut aiunt qui priscos mores urbis tradiderunt, brachia et crura cotidie abluebant, quae scilicet sordes opere collegerant, ceterum toti nundinis lavabantur. Hoc loco dicet aliquis: 'liquet mihi inmundissimos fuisse'. Quid putas illos oluisse? militiam, laborem, virum. Postquam munda balnea inventa sunt, spurciores sunt. [13] Descripturus infamem et nimiis notabilem deliciis Horatius Flaccus quid ait? Pastillos Buccillus olet. Dares nunc Buccillum: proinde esset ac si hircum oleret, Gargonii loco esset, quem idem Horatius Buccillo opposuit. Parum est sumere unguentum nisi bis die terque renovatur, ne evanescat in corpore. Quid quod hoc odore tamquam suo gloriantur?
In questo bagno di Scipione più che finestre ci sono delle piccolissime feritoie praticate nel muro di pietra, perché la luce entri senza compromettere la solidità della casa: ma ora dicono che i bagni sono pieni di scarafaggi, se non sono fatti in modo da ricevere il sole tutto il giorno da finestre grandissime, se non ci si lava e ci si abbronza nello stesso tempo, se dalla vasca non si vedono la campagna e il mare. Perciò quei bagni che all'inaugurazione furono ammirati da un concorso di folla, sono ora relegati tra le cose vecchie: il lusso ha escogitato altre novità con cui superare se stesso. 9 Ma un tempo i bagni erano pochi e disadorni: perché si sarebbero dovuti abbellire edifici di scarso valore, destinati all'uso e non al piacere? L'acqua non sgorgava dal basso e non scorreva sempre nuova come da una fonte calda: per lavarsi dalla sporcizia secondo loro non aveva importanza che l'acqua fosse trasparente. 10 Ma, buon dio, come sarebbe bello entrare in quei bagni bui e ricoperti di intonaco da due soldi, sapendoli preparati per te dalle mani di un edile come Catone o Fabio Massimo o qualcuno dei Corneli! Quei nobilissimi edili avevano anche il compito di entrare nei locali destinati al popolo e di controllarne la pulizia e la temperatura, che doveva essere giusta e sana, non come quella escogitata ora, calda come un incendio, tanto da essere buona per scorticare vivo un servo colto in flagrante. Mi sembra che ormai non ci sia differenza tra un bagno caldo e uno bollente. 11 Di quanta rozzezza alcuni accusano oggi Scipione perché nel suo bagno non penetrava la luce da ampie finestre, perché non si cuoceva al sole e non aspettava di digerire in bagno! Sventurato! Non sapeva vivere. L'acqua con cui si lavava non era filtrata, anzi spesso era torbida e quando pioveva con più violenza, era quasi fangosa. E non gli importava molto di lavarsi in questo modo; andava a detergersi il sudore, non gli oli profumati. 12 Cosa pensi che dirà ora qualcuno? "Non invidio Scipione: è davvero vissuto in esilio uno che si lavava così." Anzi, se vuoi saperlo, non si lavava neppure tutti i giorni; secondo il racconto degli scrittori che ci hanno tramandato i costumi arcaici di Roma, i nostri antenati si lavavano le braccia e le gambe tutti i giorni, perché ovviamente lavorando si insudiciavano, mentre il resto del corpo se lo lavavano una volta alla settimana. Qualcuno a questo punto dirà: "È chiaro che erano molto sporchi." Secondo te che odore avevano? Di guerra, di fatica, di uomo. Dopo l'invenzione di questi bagni eleganti, c'è gente più sudicia. 13 Che cosa dice Orazio Flacco per ritrarre un uomo screditato e noto per la sua sfrenata lussuria? Buccillo odora di pastiglie profumate. Immagina un Buccillo di ora: si direbbe che puzza di caprone e lo si metterebbe al posto di quel Gargonio che lo stesso Orazio contrappone a Buccillo. È poco passarsi l'unguento una sola volta, bisogna ripetere l'operazione due o tre volte al giorno, perché non svanisca il profumo. E poi si vantano di questo odore come se fosse il loro!
[14] Haec si tibi nimium tristia videbuntur, villae inputabis, in qua didici ab Aegialo, diligentissimo patre familiae (is enim nunc huius agri possessor est) quamvis vetus arbustum posse transferri. Hoc nobis senibus discere necessarium est, quorum nemo non olivetum alteri ponit, ~quod vidi illud arborum trimum et quadrimum fastidiendi fructus aut deponere.~ [15] Te quoque proteget illa quae tarda venit seris factura nepotibus umbram, ut ait Vergilius noster, qui non quid verissime sed quid decentissime diceretur aspexit, nec agricolas docere voluit sed legentes delectare. [16] Nam, ut alia omnia transeam, hoc quod mihi hodie necesse fuit deprehendere, adscribam: vere fabis satio est; tunc te quoque, Medica, putres accipiunt sulci, et milio venit annua cura. An uno tempore ista ponenda sint et an utriusque verna sit satio, hinc aestimes licet: Iunius mensis est quo tibi scribo, iam proclivis in Iulium: eodem die vidi fabam metentes, milium serentes. [17] Ad olivetum revertar, quod vidi duobus modis positum: magnarum arborum truncos circumcisis ramis et ad unum redactis pedem cum rapo suo transtulit, amputatis radicibus, relicto tantum capite ipso ex quo illae pependerant. Hoc fimo tinctum in scrobem demisit, deinde terram non adgessit tantum, sed calcavit et pressit. [18] Negat quicquam esse hac, ut ait, pisatione efficacius. Videlicet frigus excludit et ventum; minus praeterea movetur et ob hoc nascentes radices prodire patitur ac solum adprendere, quas necesse est cereas adhuc et precario haerentes levis quoque revellat agitatio. Rapum autem arboris antequam obruat radit; ex omni enim materia quae nudata est, ut ait, radices exeunt novae. Non plures autem super terram eminere debet truncus quam tres aut quattuor pedes; statim enim ab imo vestietur nec magna pars eius quemadmodum in olivetis veteribus arida et retorrida erit. [19] Alter ponendi modus hic fuit: ramos fortes nec corticis duri, quales esse novellarum arborum solent, eodem genere deposuit. Hi paulo tardius surgunt, sed cum tamquam a planta processerint, nihil habent in se abhorridum aut triste. [20] Illud etiamnunc vidi, vitem ex arbusto suo annosam transferri; huius capillamenta quoque, si fieri potest, colligenda sunt, deinde liberalius sternenda vitis, ut etiam ex corpore radicescat. Et vidi non tantum mense Februario positas sed etiam Martio exacto; tenent et conplexae sunt non suas ulmos. [21] Omnes autem istas arbores quae, ut ita dicam, grandiscapiae sunt, ait aqua adiuvandas cisternina; quae si prodest, habemus pluviam in nostra potestate. Plura te docere non cogito, ne quemadmodum Aegialus me sibi adversarium paravit, sic ego parem te mihi. Vale.
14 Se questi discorsi ti sembrano troppo pesanti, dài la colpa alla villa di Scipione: qui ho imparato da Egialo, scrupolosissimo padre di famiglia (è lui ora il padrone di questa terra), che un albero, anche vecchio, lo si può trapiantare. Dobbiamo impararlo noi vecchi, che piantiamo tutti, senza eccezione, uliveti per gli altri. [...] 15 Coprirà anche te quell'albero che cresce lentamente e darà ombra ai lontani nipoti, come dice il nostro Virgilio; ma egli non mira a scrivere la verità, ma a scrivere con la massima eleganza e non vuole dare consigli agli agricoltori, ma deliziare chi legge. 16 Lasciando da parte tutti gli altri errori, voglio trascrivertene uno che ho dovuto osservare oggi: In primavera si seminano le fave; i molli solchi accolgono pure te, erba medica; comincia anche la coltura annuale del miglio. Puoi giudicare tu stesso se queste piante vanno seminate insieme e a primavera: mentre ti scrivo siamo a giugno, anzi, alla fine di giugno: ho visto raccogliere le fave e seminare il miglio nello stesso giorno. 17 Torniamo all'uliveto: ho visto piantare gli alberi in due modi: Egialo ha trapiantato con il loro ceppo i tronchi di grossi ulivi, dopo averne potato i rami a circa trenta centimetri dal fusto. Ne ha tagliato pure le radici, lasciando solo il nucleo centrale da cui si diramavano. Li ha, quindi, ficcati in una fossa dopo averli ben concimati; poi, non si è limitato ad ammassare la terra, ma l'ha calcata e pressata. 18 Dice che non c'è niente di più efficace di questa che lui chiama "pestatura". Evidentemente tiene lontano il freddo e il vento; inoltre il tronco è più saldo e questo permette alle nuove radici di crescere e abbarbicarsi al suolo: quando sono ancora tenere e non aderiscono bene al terreno, una scossa anche leggera le strappa. Quanto al ceppo, lo ha raschiato prima di coprirlo di terra; da qualsiasi pezzo di legno così scorticato, dice, spuntano nuove radici. Il tronco, poi, non deve sporgere dalla terra più di tre o quattro piedi: così si ricoprirà subito di gemme nella parte inferiore e non avrà come i vecchi ulivi la gran parte del fusto arida e secca. 19 Egli ha adottato anche un secondo sistema di trapianto: con lo stesso procedimento ha interrato dei rami forti e di corteccia tenera, come hanno in genere gli alberi giovani. Questi crescono un po' più tardi, ma poiché si sviluppano come dalla pianta, non sono brutti o secchi. 20 Ho visto anche separare una vecchia vite dall'albero di sostegno e trapiantarla; anche i filamenti delle sue radici, se possibile, vanno raccolti, quindi la vite va distesa accuratamente in modo che metta radici anche dal tronco. Le ho viste piantare non solo a febbraio, ma anche alla fine di marzo; e si sono abbarbicate e attaccate ai nuovi olmi. 21 Egialo sostiene che tutte queste piante, come dire, di alto fusto, vanno aiutate con acqua di cisterna; se i risultati sono buoni, non siamo più vincolati alla pioggia. Ma non ho intenzione di darti altri insegnamenti per non fare di te un mio antagonista, come Egialo ha fatto di me. Stammi bene.
LXXXVII. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Naufragium antequam navem ascenderem feci: quomodo acciderit non adicio, ne et hoc putes inter Stoica paradoxa ponendum, quorum nullum esse falsum nec tam mirabile quam prima facie videtur, cum volueris, adprobabo, immo etiam si nolueris. Interim hoc me iter docuit quam multa haberemus supervacua et quam facile iudicio possemus deponere quae, si quando necessitas abstulit, non sentimus ablata. [2] Cum paucissimis servis, quos unum capere vehiculum potuit, sine ullis rebus nisi quae corpore nostro continebantur, ego et Maximus meus biduum iam beatissimum agimus. Culcita in terra iacet, ego in culcita; ex duabus paenulis altera stragulum, altera opertorium facta est. [3] De prandio nihil detrahi potuit; paratum fuit ~non magis hora~, nusquam sine caricis, numquam sine pugillaribus; illae, si panem habeo, pro pulmentario sunt, si non habeo, pro pane. Cotidie mihi annum novum faciunt, quem ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus et animi magnitudine, qui numquam maior est quam ubi aliena seposuit et fecit sibi pacem nihil timendo, fecit sibi divitias nihil concupiscendo. [4] Vehiculum in quod inpositus sum rusticum est; mulae vivere se ambulando testantur; mulio excalceatus, non propter aestatem. Vix a me obtineo ut hoc vehiculum velim videri meum: durat adhuc perversa recti verecundia, et quotiens in aliquem comitatum lautiorem incidimus invitus erubesco, quod argumentum est ista quae probo, quae laudo, nondum habere certam sedem et immobilem. Qui sordido vehiculo erubescit pretioso gloriabitur. [5] Parum adhuc profeci: nondum audeo frugalitatem palam ferre; etiamnunc curo opiniones viatorum. Contra totius generis humani opiniones mittenda vox erat: 'insanitis, erratis, stupetis ad supervacua, neminem aestimatis suo. Cum ad patrimonium ventum est, diligentissimi conputatores sic rationem ponitis singulorum quibus aut pecuniam credituri estis aut beneficia (nam haec quoque iam expensa fertis): [6] late possidet, sed multum debet; habet domum formosam, sed alienis nummis paratam; familiam nemo cito speciosiorem producet, sed nominibus non respondet; si creditoribus solverit, nihil illi supererit. Idem in reliquis quoque facere debebitis et excutere quantum proprii quisque habeat.' [7] Divitem illum putas quia aurea supellex etiam in via sequitur, quia in omnibus provinciis arat, quia magnus kalendari liber volvitur, quia tantum suburbani agri possidet quantum invidiose in desertis Apuliae possideret: cum omnia dixeris, pauper est. Quare? quia debet. 'Quantum?' inquis. Omnia; nisi forte iudicas interesse utrum aliquis ab homine an a fortuna mutuum sumpserit. [8] Quid ad rem pertinent mulae saginatae unius omnes coloris? quid ista vehicula caelata? Instratos ostro alipedes pictisque tapetis: aurea pectoribus demissa monilia pendent, tecti auro fulvum mandunt sub dentibus aurum. Ista nec dominum meliorem possunt facere nec mulam.
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1 Ho fatto naufragio prima di imbarcarmi: non aggiungo come sia accaduto, perché non voglio che tu lo ritenga uno dei paradossi stoici; ma ti dimostrerò tu voglia o non voglia, che nessuno di essi è falso, né tanto singolare quanto sembra a prima vista. Intanto questo viaggio mi ha insegnato quante cose inutili abbiamo e come sarebbe facile decidere di rinunziarvi: difatti, se ci capita di esserne privi per necessità, non ci accorgiamo della loro mancanza. 2 Con pochissimi servi, quanti ne ha potuto contenere una sola vettura, senza altri oggetti che quelli indosso, io e il mio amico Massimo già da due giorni viviamo qui felicissimi. Dormo su un materasso messo a terra; due mantelli fanno uno da lenzuolo, l'altro da coperta. 3 Il pranzo è ridotto al minimo indispensabile; è pronto in un'ora, non mancano mai i fichi secchi, mai le tavolette per scrivere; i fichi, se ho il pane, fanno da companatico, se non ce l'ho, da pane. Ogni giorno comincia per me un nuovo anno e io lo rendo propizio e fortunato con onesti pensieri ed elevando lo spirito, che raggiunge il suo culmine quando bandisce ciò che gli è estraneo e conquista la tranquillità eliminando ogni paura, e la ricchezza, eliminando ogni desiderio. 4 La vettura su cui mi sono sistemato è di campagna, le mule dimostrano di essere vive solo perché camminano; il mulattiere è scalzo, e non perché è estate. Mi costa molto non voler nascondere che è la mia; dura ancora in me un distorto senso del pudore e ogni volta che incontriamo un equipaggio più ricco, arrossisco senza volerlo: questo è un segno che i princìpî che apprezzo e lodo non sono ancora in me saldi e incrollabili. Se uno arrossisce di una vettura rozza, andrà orgoglioso di una sontuosa. 5 Ho fatto proprio pochi progressi: ancora non oso manifestare apertamente la mia frugalità; ancora mi preoccupo di ciò che pensano i passanti. Avrei dovuto gridare contraddicendo l'opinione generale: "Pazzi, sbagliate; rimanete a bocca aperta di fronte a beni inutili e non valutate nessuno per ciò che è veramente suo. Quando si tratta del patrimonio, siete bravissimi a fare i conti in tasca a chi dovete prestare denaro o fare un favore, poiché anche i favori li mettete sotto la voce 'spese'; 6 ha vasti possedimenti, ma anche molti debiti; ha una bella casa, ma comprata con denaro preso a prestito; nessuno può vantare una servitù più imponente, ma non paga alla scadenza; se salderà i suoi debiti, non gli rimarrà niente. Anche con gli altri beni dovrete fare lo stesso per vedere quanto ciascuno possiede realmente." 7 Secondo te uno è ricco perché anche in viaggio si porta dietro stoviglie d'oro, ha terreni in ogni provincia, sfoglia un grosso libro di crediti, possiede fuori città tanto terreno quanto gli invidierebbero anche nella deserta pianura pugliese: elenca pure tutti i suoi averi, è povero. Perché? Perché è pieno di debiti. "A quanto ammontano?" chiedi. A tutto il patrimonio; a meno che tu non ritenga che faccia differenza se i prestiti si ricevono dagli uomini o dalla fortuna. 8 Che importa se le mule sono ben pasciute e tutte del medesimo colore? Se la carrozza è cesellata in oro? I veloci cavalli bardati di porpora e con coperte variopinte: sui loro petti pendono ondeggiando ornamenti d'oro; coperti d'oro, masticano sotto i denti fulvo oro. Questi fregi non possono rendere migliore né il padrone, né la cavalcatura
[9] M. Cato Censorius, quem tam e re publica fuit nasci quam Scipionem (alter enim cum hostibus nostris bellum, alter cum moribus gessit), cantherio vehebatur et hippoperis quidem inpositis, ut secum utilia portaret. O quam cuperem illi nunc occurrere aliquem ex his trossulis, in via divitibus, cursores et Numidas et multum ante se pulveris agentem! Hic sine dubio cultior comitatiorque quam M. Cato videretur, hic qui inter illos apparatus delicatos cum maxime dubitat utrum se ad gladium locet an ad cultrum. [10] O quantum erat saeculi decus, imperatorem, triumphalem, censorium, quod super omnia haec est, Catonem, uno caballo esse contentum et ne toto quidem; partem enim sarcinae ab utroque latere dependentes occupabant. Ita non omnibus obesis mannis et asturconibus et tolutariis praeferres unicum illum equum ab ipso Catone defrictum? [11] Video non futurum finem in ista materia ullum nisi quem ipse mihi fecero. Hic itaque conticiscam, quantum ad ista quae sine dubio talia divinavit futura qualia nunc sunt qui primus appellavit 'inpedimenta'. Nunc volo paucissimas adhuc interrogationes nostrorum tibi reddere ad virtutem pertinentes, quam satisfacere vitae beatae contendimus. [12] 'Quod bonum est bonos facit (nam et in arte musica quod bonum est facit musicum); fortuita bonum non faciunt; ergo non sunt bona.' Adversus hoc sic respondent Peripatetici ut quod primum proponimus falsum esse dicant. 'Ab eo' inquiunt 'quod est bonum non utique fiunt boni. In musica est aliquid bonum tamquam tibia aut chorda aut organum aliquod aptatum ad usus canendi; nihil tamen horum facit musicum.' [13] His respondebimus, 'non intellegitis quomodo posuerimus quod bonum est in musica. Non enim id dicimus quod instruit musicum, sed quod facit: tu ad supellectilem artis, non ad artem venis. Si quid autem in ipsa arte musica bonum est, id utique musicum faciet.' [14] Etiamnunc facere istuc planius volo. Bonum in arte musica duobus modis dicitur, alterum quo effectus musici adiuvatur, alterum quo ars: ad effectum pertinent instrumenta, tibiae et organa et chordae, ad artem ipsam non pertinent. Est enim artifex etiam sine istis: uti forsitan non potest arte. Hoc non est aeque duplex in homine; idem enim est bonum et hominis et vitae. [15] 'Quod contemptissimo cuique contingere ac turpissimo potest bonum non est; opes autem et lenoni et lanistae contingunt; ergo non sunt bona.' 'Falsum est' inquiunt 'quod proponitis; nam et in grammatice et in arte medendi aut gubernandi videmus bona humillimis quibusque contingere.' [16] Sed istae artes non sunt magnitudinem animi professae, non consurgunt in altum nec fortuita fastidiunt: virtus extollit hominem et super cara mortalibus conlocat; nec ea quae bona nec ea quae mala vocantur aut cupit nimis aut expavescit. Chelidon, unus ex Cleopatrae mollibus, atrimonium grande possedit. Nuper Natalis, tam inprobae linguae quam inpurae, in cuius ore feminae purgabantur, et multorum heres fuit et multos habuit heredes. Quid ergo? utrum illum pecunia inpurum effecit an ipse pecuniam inspurcavit? quae sic in quosdam homines quomodo denarius in cloacam cadit. [17] Virtus super ista consistit; suo aere censetur; nihil ex istis quolibet incurrentibus bonum iudicat. Medicina et gubernatio non interdicit sibi ac suis admiratione talium rerum; qui non est vir bonus potest nihilominus medicus esse, potest gubernator, potest grammaticus tam mehercules quam cocus. Cui contingit habere rem non quamlibet, hunc non quemlibet dixeris; qualia quisque habet, talis est. [18] Fiscus tanti est quantum habet; immo in accessionem eius venit quod habet. Quis pleno sacculo ullum pretium ponit nisi quod pecuniae in eo conditae numerus effecit? Idem evenit magnorum dominis patrimoniorum: accessiones illorum et appendices sunt. Quare ergo sapiens magnus est? quia magnum animum habet. Verum est ergo quod contemptissimo cuique contingit bonum non esse. [19] Itaque indolentiam numquam bonum dicam:habet illam cicada, habet pulex. Ne quietem quidem et molestia vacare bonum dicam: quid est otiosius verme? Quaeris quae res sapientem faciat? quae deum. Des oportet illi divinum aliquid, caeleste, magnificum: non in omnes bonum cadit nec quemlibet possessorem patitur.
9 M. Catone il Censore, la cui nascita giovò a Roma quanto quella di Scipione (l'uno combatté contro i nostri nemici, l'altro contro la corruzione), cavalcava un somaro e per di più carico delle bisacce, per portare con sé il necessario. Come vorrei che lo incontrasse uno di questi bellimbusti, che ostentano le loro ricchezze anche sulla via e hanno battistrada, e staffette numidiche a cavallo e sollevano un gran polverone davanti a loro. Senza dubbio sembrerebbe più raffinato di M. Catone e con un più folto seguito questo bel tipo che in mezzo a tanta lussuosa magnificenza è fortemente indeciso se si presterà a combattere con la spada o con il coltello. 10 Come erano belli quei tempi quando un condottiero, un comandante che aveva riportato il trionfo, un ex censore e soprattutto un Catone si contentava di un solo ronzino e neppure tutto per lui: parte lo occupavano i bagagli sospesi da entrambi i lati. A tutti questi puledri da trotto, ben pasciuti e di razza non preferiresti quell'unico cavallo strigliato dallo stesso Catone? 11 Mi rendo conto che su questo argomento si potrebbe continuare all'infinito, se non sarò io stesso a smetterla. Sui bagagli, perciò non aggiungerò più niente: chi per primo li ha chiamati "impedimenti" ha senza dubbio previsto come sarebbero diventati ai nostri giorni. Ora voglio riferirti ancora pochissimi sillogismi stoici sulla virtù che, sosteniamo, basta alla felicità. 12 "Ciò che è buono rende buoni (infatti anche in musica ciò che è buono rende musicisti); i beni fortuiti non rendono buoni, quindi non sono veri beni." I Peripatetici confutano questo sillogismo dicendo che la premessa è falsa. "Non sempre ciò che è buono rende buoni. In musica c'è qualcosa di buono come il flauto, la cetra o qualche strumento adatto per suonare; nessuno di questi, tuttavia, rende musicista." 13 Ecco la nostra risposta: "Voi non capite che cosa intendiamo con ciò che è buono in musica. Non definiamo così gli strumenti a disposizione del musicista, ma ciò che lo rende tale: tu parli di strumenti musicali, non di musica. Ma se c'è qualcosa di buono proprio nell'arte musicale, questo renderà senz'altro musicisti." 14 Voglio spiegarmi ancora più chiaramente. In musica "buono" si intende in due modi: una cosa utile all'esecuzione musicale o una cosa utile all'arte: gli strumenti, flauti, organi, cetre, riguardano l'esecuzione, non l'arte in se stessa. L'artista è tale anche senza di essi: anche se, forse, non può mettere in pratica la sua arte. Questa duplicità di aspetti manca nell'uomo; il bene dell'uomo e della sua vita coincidono. 15 "Quello che può capitare agli uomini più spregevoli e disonesti non è un bene; le ricchezze capitano anche a un lenone e a un maestro di gladiatori, quindi, non sono beni." "La premessa è falsa," dicono, "vediamo, infatti, che nella filologia, nella medicina, nell'arte nautica i beni càpitano anche alle persone più umili." 16 Ma queste arti non promettono grandezza d'animo, non si elevano verso l'alto, non disprezzano i beni fortuiti: la virtù innalza l'uomo e lo rende superiore alle cose care ai mortali; e non desidera troppo o teme i cosiddetti beni e mali. Chelidone, uno degli eunuchi di Cleopatra, possedeva un grande patrimonio. Non molto tempo fa, Natale, persona dalla lingua dissoluta e corrotta, nella cui bocca le donne si ripulivano, fu erede di molti ed ebbe molti eredi. E dunque? Fu il denaro a insozzare lui o fu lui a insozzare il denaro? La ricchezza cade su certuni come una moneta d'argento in una cloaca. 17 La virtù sta sopra tutto questo; viene valutata in base a quanto possiede veramente; non giudica un bene nessuno di quelli che possono capitare a chiunque. La medicina e l'arte di guidare una nave non impediscono a sé e a chi le pratica di ammirare tali beni; uno può non essere onesto e tuttavia essere medico o timoniere o letterato come, per bacco, essere cuoco. Se a uno capita di possedere una cosa fuori del comune, dirai che è fuori del comune; ognuno vale tanto quanto possiede. 18 Una cassetta vale in base al contenuto, anzi, ne diventa un elemento accessorio. Chi darebbe a un borsellino pieno un valore diverso da quello del denaro in esso contenuto? Lo stesso capita a chi possiede grandi patrimoni: ne è un elemento accessorio, un'appendice. Perché, dunque, il saggio è grande? Perché è grande interiormente. E allora è vero che quanto capita agli uomini più spregevoli non è un bene. 19 Perciò non dirò mai che l'insensibilità è un bene: ce l'ha la cicala, ce l'ha la pulce. E non dirò neppure che è un bene la tranquillità e il non avere fastidi: chi è più tranquillo di un verme? Chiedi qual è l'essenza del saggio? La stessa di dio. Devi riconoscergli qualcosa di divino, di celeste, di magnifico: il bene non capita a tutti e non ammette un possessore qualsiasi.
[20] Vide et quid quaeque ferat regio et quid quaeque recuset: hic segetes, illic veniunt felicius uvae, arborei fetus alibi atque iniussa virescunt gramina. Nonne vides, croceos ut Tmolus odores, India mittit ebur, molles sua tura Sabaei, at Chalybes nudi ferrum? [21] Ista in regiones discripta sunt, ut necessarium mortalibus esset inter ipsos commercium, si invicem alius aliquid ab alio peteret. Summum illud bonum habet et ipsum suam sedem; non nascitur ubi ebur, nec ubi ferrum. Quis sit summi boni locus quaeris? animus. Hic nisi purus ac sanctus est, deum non capit. [22] 'Bonum ex malo non fit; divitiae [autem fiunt] fiunt autem ex avaritia; divitiae ergo non sunt bonum.' 'Non est' inquit 'verum, bonum ex malo non nasci; ex sacrilegio enim et furto pecunia nascitur. Itaque malum quidem est sacrilegium et furtum, sed ideo quia plura mala facit quam bona; dat enim lucrum, sed cum metu, sollicitudine, tormentis et animi et corporis.' [23] Quisquis hoc dicit, necesse est recipiat sacrilegium, sicut malum sit quia multa mala facit, ita bonum quoque ex aliqua parte esse, quia aliquid boni facit: quo quid fieri portentuosius potest? Quamquam sacrilegium, furtum, adulterium inter bona haberi prorsus persuasimus. Quam multi furto non erubescunt, quam multi adulterio gloriantur! nam sacrilegia minuta puniuntur, magna in triumphis feruntur. [24] Adice nunc quod sacrilegium, si omnino ex aliqua parte bonum est, etiam honestum erit et recte factum vocabitur, ~nostra enim actio est~ quod nullius mortalium cogitatio recipit. Ergo bona nasci ex malo non possunt. Nam si, ut dicitis, ob hoc unum sacrilegium malum est, quia multum mali adfert, si remiseris illi supplicia, si securitatem spoponderis, ex toto bonum erit. Atqui maximum scelerum supplicium in ipsis est. [25] Erras, inquam, si illa ad carnificem aut carcerem differs: statim puniuntur cum facta sunt, immo dum fiunt. Non nascitur itaque ex malo bonum, non magis quam ficus ex olea: ad semen nata respondent, bona degenerare non possunt. Quemadmodum ex turpi honestum non nascitur, ita ne ex malo quidem bonum; nam idem est honestum et bonum. [26] Quidam ex nostris adversus hoc sic respondent: 'putemus pecuniam bonum esse undecumque sumptam; non tamen ideo ex sacrilegio pecunia est, etiam si ex sacrilegio sumitur. Hoc sic intellege. In eadem urna et aurum est et vipera: si aurum ex urna sustuleris, non ideo sustuleris quia illic et vipera est; non ideo, inquam, mihi urna aurum dat quia viperam habet, sed aurum dat, cum et viperam habeat. Eodem modo ex sacrilegio lucrum fit, non quia turpe et sceleratum est sacrilegium, sed quia et lucrum habet. Quemadmodum in illa urna vipera malum est, non aurum quod cum vipera iacet, sic in sacrilegio malum est scelus, non lucrum.' [27] A quibus ; dissimillima enim utriusquerei condicio est. Illic aurum possum sine vipera tollere, hic lucrum sine sacrilegio facere non possum; lucrum istud non est adpositum sceleri sed inmixtum.
20
Guarda quello che un terreno produce e quello che non fa attecchire: qui crescono più rigogliose le messi, qui l'uva, altrove gli alberi da frutto e la verde erba spontanea. Non vedi come il Tmolo ci mandi il profumato zafferano, l'India l'avorio, gli effeminati Sabei i loro incensi e i nudi Calibi il ferro? 21 Questi prodotti sono stati distribuiti in regioni diverse perché gli scambi commerciali fossero per gli uomini un'attività necessaria, dovendo cercare gli uni i prodotti degli altri. Anche il sommo bene ha una propria dimora; non nasce dove c'è l'avorio o il ferro. Chiedi qual è questa dimora? L'anima. Ma se non è pura e santa non può accogliere dio. 22 "Il bene non nasce dal male; la ricchezza nasce dall'avidità; quindi, la ricchezza non è un bene." "Non è vero," ribattono, "che il bene non nasce dal male; il denaro può provenire da un sacrilegio o da un furto; pertanto il sacrilegio e il furto sono mali, ma perché producono più mali che beni; procurano sì un guadagno, ma unito a paura, preoccupazioni, tormenti spirituali e fisici." 23 Chiunque faccia queste affermazioni deve necessariamente considerare il sacrilegio un male, perché causa molti mali, e in parte anche un bene, perché causa qualche bene: ma che cosa può esserci di più mostruoso? Eppure siamo proprio convinti che il sacrilegio, il furto, l'adulterio si debbano considerare beni. Quanti non si vergognano di rubare, quanti si vantano di essere adulteri! Le colpe piccole vengono punite, quelle grandi sono addirittura celebrate trionfalmente. 24 Inoltre se il sacrilegio è in parte senz'altro un bene, sarà anche una cosa onesta e verrà considerato un'azione virtuosa [...], ma nessun uomo può pensarlo. Quindi, da un male non possono nascere beni. Se, infatti, come dite, il sacrilegio è un male solo perché causa molto male, se gli condoniamo la pena e gli assicuriamo l'impunità, sarà sotto ogni aspetto un bene. Ma i delitti hanno in se stessi la loro più grave punizione. 25 Sbagli, ti dico, a rinviare la pena al boia o al carcere: i delitti vengono puniti subito appena sono commessi, anzi, mentre vengono commessi. Da un male non nasce un bene, come un fico non nasce da un ulivo: ogni seme dà i suoi frutti, e i beni non possono degenerare. Da un'azione turpe non ne deriva una onesta, così da un male non deriva un bene; perché bene e onestà coincidono. 26 Certi Stoici ribattono così: "Supponiamo che il denaro sia un bene, da qualunque parte provenga; perciò anche se deriva da un sacrilegio, il denaro non è sacrilego. Eccoti un esempio. In uno stesso scrigno c'è dell'oro e una vipera: se dallo scrigno prendi l'oro, non lo prendi perché lì c'è anche una vipera; voglio dire, lo scrigno mi dà l'oro non perché contiene una vipera, ma mi dà l'oro, pur contenendo anche una vipera. Allo stesso modo da un furto sacrilego si ricava un guadagno, non perché il sacrilegio è un'azione infame e scellerata, ma perché procura anche un guadagno. Come in quello scrigno il male è la vipera e non l'oro che le sta accanto, così nel sacrilegio il male è l'azione delittuosa, non il guadagno." 27 Non sono d'accordo; le due situazioni sono molto diverse. Nel primo caso posso prendere l'oro senza la vipera, nel secondo non posso ricavare un guadagno senza commettere il sacrilegio; questo guadagno non è vicino al delitto: vi è strettamente unito.
[28] 'Quod dum consequi volumus in multa mala incidimus, id bonum non est; dum divitias autem consequi volumus, in multa mala incidimus; ergo divitiae bonum non sunt.' 'Duas' inquit 'significationes habet propositio vestra: unam, dum divitias consequi volumus, in multa nos mala incidere. In multa autem mala incidimus et dum virtutem consequi volumus: aliquis dum navigat studii causa, naufragium fecit, aliquis captus est. [29] Altera significatio talis est: per quod in mala incidimus bonum non est. Huic propositioni non erit consequens per divitias nos aut per voluptates in mala incidere; aut si per divitias in multa mala incidimus, non tantum bonum non sunt divitiae sed malum sunt; vos autem illas dicitis tantum bonum non esse. Praeterea' inquit 'conceditis divitias habere aliquid usus: inter commoda illas numeratis. Atqui eadem ratione commodum quidem erunt; per illas enim multa nobis incommoda eveniunt.' [30] His quidam hoc respondent: 'erratis, qui incommoda divitis inputatis. Illae neminem laedunt: aut sua nocet cuique stultitia aut aliena nequitia, sic quemadmodum gladius neminem occidit: occidentis telum est. Non ideo divitiae tibi nocent si propter divitias tibi nocetur.' [31] Posidonius, ut ego existimo, melius, qui ait divitias esse causam malorum, non quia ipsae faciunt aliquid, sed quia facturos inritant. Alia est enim causa efficiens, quae protinus necessest noceat, alia praecedens. Hanc praecedentem causam divitiae habent: inflant animos, superbiam pariunt, invidiam contrahunt, et usque eo mentem alienant ut fama pecuniae nos etiam nocitura delectet. [32] Bona autem omnia carere culpa decet; pura sunt, non corrumpunt animos, non sollicitant; extollunt quidem et dilatant, sed sine tumore. Quae bona sunt fiduciam faciunt, divitiae audaciam; quae bona sunt magnitudinem animi dant, divitiae insolentiam. Nihil autem aliud est insolentia quam species magnitudinis falsa. [33] 'Isto modo' inquit 'etiam malum sunt divitiae, non tantum bonum non sunt.' Essent malum si ipsae nocerent, si, ut dixi, haberent efficientem causam: nunc praecedentem habent et quidem non inritantem tantum animos sed adtrahentem; speciem enim boni offundunt veri similem ac plerisque credibilem. [34] Habet virtus quoque praecedentem causam ad invidiam; multis enim propter sapientiam, multis propter iustitiam invidetur. Sed nec ex se hanc causam habet nec veri similem; contra enim veri similior illa species hominum animis obicitur a virtute, quae illos in amorem et admirationem vocet.
28 "Quello che conseguiamo a prezzo di molti mali, non è un bene; la ricchezza la conseguiamo a prezzo di molti mali; quindi, la ricchezza non è un bene." "La vostra premessa," dicono, "può significare due cose: primo, che conseguiamo la ricchezza a prezzo di molti mali. Ma anche la virtù la conseguiamo a prezzo di molti mali: qualcuno durante un viaggio per motivi di studio ha fatto naufragio, qualche altro è stato fatto prigioniero. 29 Il secondo significato è questo: non è un bene ciò che è causa di mali. Dalla vostra premessa non consegue che la ricchezza o i piaceri sono per noi causa di mali; oppure, se la ricchezza è causa di molti mali, la ricchezza non solo non è un bene, ma è addirittura un male; voi, invece, sostenete soltanto che non è un bene. Inoltre," continuano, "ammettete che la ricchezza abbia una certa utilità e la considerate tra i vantaggi. Ma per la stessa ragione non sarà neppure un vantaggio, perché ci causa molti mali." 30 Alcuni controbattono così: "Sbagliate imputando i mali alla ricchezza. In realtà essa non danneggia nessuno: a ciascuno il danno lo porta o la propria stoltezza o la malvagità degli altri, così come la spada di per sé non uccide nessuno: è un'arma per l'assassino. Perciò se la ricchezza ti danneggia, la colpa non è della ricchezza." 31 Più giusta, a mio parere, la tesi di Posidonio: egli afferma che la ricchezza causa il male, non perché sia essa stessa a produrlo, ma perché spinge gli altri a farlo. Una cosa è la causa efficiente, che di necessità provoca direttamente il male, un'altra è la causa antecedente. La ricchezza è la causa antecedente: esalta gli animi, genera arroganza, provoca l'invidia e fa uscire di senno al punto che il credito derivante dal denaro, anche se ci danneggerà, ci riesce gradito. 32 Tutti i beni, invece, devono essere immuni da colpa; sono puri, non corrompono l'anima, non la turbano; ci innalzano e ci dilatano, ma senza renderci superbi. I veri beni ci rendono sicuri, la ricchezza arroganti; i veri beni generano grandezza d'animo, la ricchezza tracotanza. La tracotanza non è altro che una falsa apparenza di grandezza. 33 "In questo modo," dicono, "la ricchezza, non soltanto non è un bene, ma è anche un male." Sarebbe un male se essa stessa provocasse il male, se, come ho detto, fosse la causa efficiente: invece, è la causa antecedente che non solo eccita gli animi, ma li trascina; diffonde del bene un'immagine verosimile cui la maggioranza presta fede. 34 Anche la virtù è una causa antecedente: suscita invidia; molti sono invidiati per la loro saggezza, molti per la loro giustizia. Ma questa causa non ce l'ha in sé la virtù e non è verosimile; al contrario la virtù offre all'anima umana quell'aspetto più verosimile che la richiama all'amore e all'ammirazione.
[35] Posidonius sic interrogandum ait: 'quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem non sunt bona; divitiae autem et bona valetudo et similia his nihil horum faciunt; ergo non sunt bona'. Hanc interrogationem magis etiamnunc hoc modo intendit: 'quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem, contra autem insolentiam, tumorem, arrogantiam creant, mala sunt; a fortuitis autem in haec inpellimur; ergo non sunt bona'. [36] 'Hac' inquit 'ratione ne commoda quidem ista erunt.' Alia est commodorum condicio, alia bonorum: commodum est quod plus usus habet quam molestiae; bonum sincerum esse debet et ab omni parte innoxium. Non est id bonum quod plus prodest, sed quod tantum prodest. [37] Praeterea commodumet ad animalia pertinet et ad inperfectos homines et ad stultos. Itaque potest ei esse incommodum mixtum, sed commodum dicitur a maiore sui parte aestimatum: bonum ad unum sapientem pertinet; inviolatum esse oportet. [38] Bonum animum habe: unus tibi nodus, sed Herculaneus restat: 'ex malis bonum non fit; ex multis paupertatibus divitiae fiunt; ergo divitiae bonum non sunt'. Hanc interrogationem nostri non agnoscunt, Peripatetici et fingunt illam et solvunt. Ait autem Posidonius hoc sophisma, per omnes dialecticorum scholas iactatum, sic ab Antipatro refelli: [39] 'paupertas non per possessionem dicitur, sed per detractionem' (vel, ut antiqui dixerunt, orbationem; Graeci kata steresin dicunt); 'non quod habeat dicit, sed quod non habeat. Itaque ex multis inanibus nihil impleri potest: divitias multae res faciunt, non multae inopiae. Aliter' inquit 'quam debes paupertatem intellegis. Paupertas enim est non quae pauca possidet, sed quae multa non possidet; ita non ab eo dicitur quod habet, sed ab eo quod ei deest.' [40] Facilius quod volo exprimerem, si Latinum verbum esset quo anuparxia significaretur. Hanc paupertati Antipater adsignat: ego non video quid aliud sit paupertas quam parvi possessio. De isto videbimus, si quando valde vacabit, quae sit divitiarum, quae paupertatis substantia; sed tunc quoque considerabimus numquid satius sit paupertatem permulcere, divitiis demere supercilium quam litigare de verbis, quasi iam de rebus iudicatum sit. [41] Putemus nos ad contionem vocatos: lex de abolendis divitis fertur. His interrogationibus suasuri aut dissuasuri sumus? his effecturi ut populus Romanus paupertatem, fundamentum et causam imperii sui, requirat ac laudet, divitias autem suas timeat, ut cogitet has se apud victos repperisse, hinc ambitum et largitiones et tumultus in urbem sanctissimam temperatissimam inrupisse, nimis luxuriose ostentari gentium spolia, quod unus populus eripuerit omnibus facilius ab omnibus uni eripi posse? Haec satius est suadere, et expugnare adfectus, non circumscribere. Si possumus, fortius loquamur; si minus, apertius. Vale.
35 Posidonio dice che il sillogismo bisogna formularlo così: "Le cose che non danno all'anima né grandezza, né sicurezza, né tranquillità non sono beni; la ricchezza, la salute e altre cose simili non dànno niente di tutto questo; dunque, non sono beni." Egli dà a questo sillogismo un senso ancora più ampio: "Le cose che non dànno all'anima né grandezza, né sicurezza, né tranquillità, anzi provocano superbia, orgoglio, arroganza, sono mali; ad essi ci spingono i doni della fortuna, quindi non sono beni." 36 "Secondo questo ragionamento," si ribatte, "non saranno neppure dei vantaggi." Vantaggi e beni sono due cose diverse: per vantaggio si intende ciò che porta più utilità che fastidio; il bene, invece, deve essere genuino e completamente innocuo. Non è un bene quello che è più utile, ma quello che è solamente utile. 37 Il vantaggio, inoltre, tocca agli animali, agli uomini imperfetti, agli stolti. Può essere perciò unito a uno svantaggio, ma viene definito un vantaggio in base agli elementi predominanti: il bene riguarda solo il saggio e deve essere incontaminato. 38 Coraggio: ti resta un solo nodo, anche se difficile, da sciogliere: "Dai mali non nasce il bene; da molte povertà nasce la ricchezza; dunque la ricchezza non è un bene." I filosofi stoici non riconoscono questo sillogismo, i peripatetici, invece, lo formulano e lo risolvono. Dice Posidonio che questo sofisma trattato in tutte le scuole dai dialettici, viene così confutato da Antipatro: 39 "La povertà non viene definita per possesso, ma per detrazione (o, come dicevano gli antichi, per privazione; i Greci dicono kat¦ stšrhsin), non indica quello che si possiede, ma quello che non si possiede. Con molti vuoti non si può riempire niente: la ricchezza la formano molti beni, non molte carenze. Voi non intendete la povertà nel modo dovuto. Povertà non è possedere poche cose, ma non possederne molte; non viene definita da quanto possiede, ma da quanto le manca." 40 Quello che intendo, l'esprimerei più facilmente se ci fosse una parola latina per indicare $Píõðáñîßá$. Antipatro la ascrive alla povertà: secondo me la povertà è unicamente possedere poco. Se un giorno avremo tempo, esamineremo che cosa siano in sostanza la ricchezza e la povertà, ma anche allora considereremo se non sia meglio mitigare la povertà e togliere superbia alla ricchezza piuttosto che discutere sulle parole, come se sulla sostanza si fosse già formulato un giudizio. 41 Supponiamo di partecipare a una adunanza popolare: viene proposta una legge per l'abolizione della ricchezza. La sosterremo o la combatteremo con questi sillogismi? Otterremo con essi che il popolo romano ricerchi e apprezzi la povertà, base e origine del suo impero, e tema la sua ricchezza; che pensi di averla trovata presso i popoli vinti e che da qui intrighi, corruzione, disordini si siano riversati in una città modello assoluto di purezza e di temperanza; che le prede di guerra vengano ostentate con troppa superbia, che i beni strappati da un solo popolo a tutti gli altri, possano più facilmente essere strappati da tutti i popoli a uno solo? È meglio persuaderlo di ciò e vincere le passioni che esprimersi con giri di parole. Parliamo, se è possibile, con più forza; se no, con maggiore chiarezza. Stammi bene.
LXXXVIII. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] De liberalibus studiis quid sentiam scire desideras: nullum suspicio, nullum in bonis numero quod ad aes exit. Meritoria artificia sunt, hactenus utilia si praeparant ingenium, non detinent. Tamdiu enim istis inmorandum est quamdiu nihil animus agere maius potest; rudimenta sunt nostra, non opera. [2] Quare liberalia studia dicta sint vides: quia homine libero digna sunt. Ceterum unum studium vere liberale est quod liberum facit, hoc est sapientiae, sublime, forte, magnanimum: cetera pusilla et puerilia sunt. An tu quicquam in istis esse credis boni quorum professores turpissimos omnium ac flagitiosissimos cernis? Non discere debemus ista, sed didicisse. Quidam illud de liberalibus studiis quaerendum iudicaverunt, an virum bonum facerent: ne promittunt quidem nec huius rei scientiam adfectant. [3] Grammatice circa curam sermonis versatur et, si latius evagari vult, circa historias, iam ut longissime fines suos proferat, circa carmina. Quid horum ad virtutem viam sternit? Syllabarum enarratio et verborum diligentia et fabularum memoria et versuum lex ac modificatio -- quid ex his metum demit, cupiditatem eximit, libidinem frenat? [4] Ad geometriam transeamus et ad musicen: nihil apud illas invenies quod vetet timere, vetet cupere. Quae quisquis ignorat, alia frustra scit. * * * utrum doceant isti virtutem an non: si non docent, ne tradunt quidem; si docent, philosophi sunt. Vis scire quam non ad docendam virtutem consederint? aspice quam dissimilia inter se omnium studia sint: atqui similitudo esset idem docentium. [5] Nisi forte tibi Homerum philosophum fuisse persuadent, cum his ipsis quibus colligunt negent; nam modo Stoicum illum faciunt, virtutem solam probantem et voluptates refugientem et ab honesto ne inmortalitatis quidem pretio recedentem, modo Epicureum, laudantem statum quietae civitatis et inter convivia cantusque vitam exigentis, modo Peripateticum, tria bonorum genera inducentem, modo Academicum, omnia incerta dicentem. Apparet nihil horum esse in illo, quia omnia sunt; ista enim inter se dissident. Demus illis Homerum philosophum fuisse: nempe sapiens factus est antequam carmina ulla cognosceret; ergo illa discamus quae Homerum fecere sapientem. [6] Hoc quidem me quaerere, uter maioraetate fuerit, Homerus an Hesiodus, non magis ad rem pertinet quam scire, cum minor Hecuba fuerit quam Helena, quare tam male tulerit aetatem. Quid, inquam, annos Patrocli et Achillis inquirere ad rem existimas pertinere? [7] Quaeris Ulixes ubi erraverit potius quam efficias ne nos semper erremus? Non vacat audire utrum inter Italiam et Siciliam iactatus sit an extra notum nobis orbem (neque enim potuit in tam angusto error esse tam longus): tempestates nos animi cotidie iactant et nequitia in omnia Ulixis mala inpellit. Non deest forma quae sollicitet oculos, non hostis; hinc monstra effera et humano cruore gaudentia, hinc insidiosa blandimenta aurium, hinc naufragia et tot varietates malorum. Hoc me doce, quomodo patriam amem, quomodo uxorem, quomodo patrem, quomodo ad haec tam honesta vel naufragus navigem. [8] Quid inquiris an Penelopa inpudica fuerit, an verba saeculo suo dederit? an Ulixem illum esse quem videbat, antequam sciret, suspicata sit? Doce me quid sit pudicitia et quantum in ea bonum, in corpore an in animo posita sit.
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1 Tu vuoi sapere che cosa penso degli studi liberali: non stimo, non considero un bene studi che sfociano in un guadagno. Sono arti venali, utili se esercitano la mente, ma non la occupano del tutto. Bisogna dedicarvisi finché l'animo non è in grado di trattare una materia più impegnativa; sono il nostro tirocinio, non il nostro lavoro. 2 Perché si chiamano studi liberali lo capisci: perché sono degni di un uomo libero. Ma l'unico studio veramente liberale è quello che rende liberi, cioè lo studio della saggezza, sublime, forte, nobile: gli altri sono insignificanti e puerili. Pensi che in questi studi di cui sono maestri gli uomini più infami e dissoluti ci sia qualcosa di buono? Queste cose non dobbiamo impararle, ma averle imparate. Secondo certi filosofi bisogna chiedersi se gli studi liberali possono formare l'uomo virtuoso: in realtà essi non se lo ripromettono né aspirano a questa scienza. 3 La filologia si rivolge allo studio della lingua e, se vuole spaziare di più, alla storia; e arriva, come limite estremo, alla poesia. Quale di queste materie spiana la via alla virtù? La scansione delle sillabe, la proprietà di linguaggio, la tradizione mitica, le leggi e la misura dei versi? Che cosa di tutto questo cancella la paura, libera dalle passioni, frena l'intemperanza? 4 Passiamo alla geometria e alla musica: non vi troverai niente che inibisca timori, desideri: se uno ignora questo, è inutile che conosca altro. ‹Bisogna vedere› se costoro insegnano la virtù o no: se non la insegnano, non possono neppure trasmetterla; se la insegnano, sono filosofi. Vuoi renderti conto come non si siano mai soffermati a insegnare la virtù? Guarda come sono dissimili tra loro gli studi di tutti questi: se insegnassero la stessa cosa, dovrebbe esserci somiglianza. 5 A meno che, per caso, non ti persuadano che Omero fu un filosofo, quando lo negano i fatti in base ai quali traggono le loro conclusioni; ora lo presentano come uno stoico che apprezza solamente la virtù, fugge i piaceri e non si allontana dalla rettitudine neppure a prezzo dell'immortalità; ora come un epicureo, che loda la condizione di una città tranquilla dove si vive tra banchetti e canti; ora come un peripatetico, che elenca tre tipi di beni; ora come un accademico, che sostiene che tutto è incerto. È chiaro che in lui non è radicato nessuno di questi sistemi filosofici, dal momento che compaiono tutti e sono in contrasto tra loro. Ammettiamo che Omero fu un filosofo: certo divenne saggio prima di conoscere la poesia; e allora impariamo la disciplina che ha reso Omero saggio. 6 Secondo me non è importante chiedersi se nacque prima Omero o Esiodo, come non è importante sapere perché Ecuba, pur essendo più giovane di Elena, portasse tanto male gli anni. Perché, dico, ritieni di grande interesse indagare sugli anni di Patroclo e di Achille? 7 Vuoi sapere in che paesi andò errando Ulisse invece di fare in modo che noi non andiamo sempre errando? Non c'è tempo di ascoltare se fu sbattuto fra l'Italia e la Sicilia, oppure oltre i confini del mondo a noi conosciuto, visto che non avrebbe potuto vagare così a lungo in uno spazio tanto ristretto: tempeste interiori ci sballottano quotidianamente e la dissolutezza ci caccia in tutti i guai di Ulisse. Non manca certo la bellezza a turbare i nostri occhi, né i nemici; da una parte mostri feroci bramosi di sangue umano, dall'altra voci lusinghiere e insidiose, più avanti naufragi e sventure di ogni tipo. Insegnami piuttosto come amare la patria, la moglie, il padre, come, pur avendo fatto naufragio, possa dirigermi verso il porto della virtù. 8 Perché cerchi di sapere se Penelope fosse una donna impudica e avesse ingannato i suoi contemporanei? Se prima di saperlo sospettasse già di essere di fronte a Ulisse? Insegnami che cos'è la pudicizia e quanto bene vi è racchiuso, se ha sede nel corpo o nell'anima.
[9] Ad musicum transeo. Doces me quomodo inter se acutae ac graves consonent, quomodo nervorum disparem reddentium sonum fiat concordia: fac potius quomodo animus secum meus consonet nec consilia mea discrepent. Monstras mihi qui sint modi flebiles: monstra potius quomodo inter adversa non emittam flebilem vocem. [10] Metiri me geometres docet latifundia potius quam doceat quomodo metiar quantum homini satis sit; numerare docet me et avaritiae commodat digitos potius quam doceat nihil ad rem pertinere istas conputationes, non esse feliciorem cuius patrimonium tabularios lassat, immo quam supervacua possideat qui infelicissimus futurus est si quantum habeat per se conputare cogetur. [11] Quid mihi prodest scire agellum in partes dividere, si nescio cum fratre dividere? Quid prodest colligere subtiliter pedes iugeri et conprendere etiam si quid decempedam effugit, si tristem me facit vicinus inpotens et aliquid ex meo abradens? Docet quomodo nihil perdam ex finibus meis: at ego discere volo quomodo totos hilaris amittam. 'Paterno agro et avito' inquit 'expellor.' [12] Quid? ante avum tuum quis istum agrum tenuit? cuius, non dico hominis, sed populi fuerit potes expedire? Non dominus isto, sed colonus intrasti. Cuius colonus es? si bene tecum agitur, heredis. Negant iurisconsulti quicquam usu capi publicum: hoc quod tenes, quod tuum dicis, publicum est et quidem generis humani. [13] O egregiam artem! scis rotunda metiri, in quadratum redigis quamcumque acceperis formam, intervalla siderum dicis, nihil est quod in mensuram tuam non cadat: si artifex es, metire hominis animum, dic quam magnus sit, dic quam pusillus sit. Scis quae recta sit linea: quid tibi prodest, si quid in vita rectum sit ignoras?
9 Passo alla musica. Tu mi insegni come le note gravi si accordino a quelle acute, come si armonizzino i suoni diversi emessi dalle corde degli strumenti: fa' piuttosto in modo che il mio animo sia coerente con se stesso, che le mie decisioni non siano in contrasto. Tu mi indichi quali sono i suoni lamentosi: mostrami piuttosto come non debba lamentarmi in mezzo alle sventure. 10 Il geometra mi insegna a misurare i latifondi, invece che insegnarmi quanto basta a un uomo. Mi insegna a fare i conti prestando le dita alla mia avidità: mi insegni piuttosto che questi calcoli non hanno nessuna importanza, che non è più felice chi possiede un patrimonio tale da stancare i ragionieri; anzi possiede beni superflui e sarà infelicissimo se è costretto a contare da sé i suoi averi. 11 A che mi serve saper dividere un podere, se non so dividerlo con mio fratello? A che mi serve misurare con precisione i piedi di un iugero e accorgermi di una differenza sfuggita al metro, se basta ad amareggiarmi un vicino prepotente che si appropria di un po' del mio terreno? Mi insegna come non perdere niente dei miei possedimenti: ma io voglio imparare come perderli tutti senza perdere il buonumore. 12 "Vengo scacciato dal campo che fu di mio padre e dei miei nonni." E allora? Prima di tuo nonno chi ne era il padrone? Sei in grado di scoprire non dico a che uomo, ma a quale popolo appartenne? Ci sei entrato come colono non come padrone. Di chi sei colono? Se ti va bene, dell'erede. I giuristi sostengono che il diritto di usucapione non vale per i beni pubblici: la terra che occupi, che definisci tua, è pubblica e precisamente appartiene al genere umano. 13 Che scienza straordinaria! Sai misurare il cerchio, fai la quadratura di una qualsiasi figura geometrica, calcoli la distanza delle stelle, non c'è niente che tu non sia capace di misurare: se sei veramente esperto, misura l'anima dell'uomo, di' quanto è grande e quanto è meschina. Sai qual è la linea retta: a che ti serve, se ignori cos'è retto nella vita?
[14] Venio nunc ad illum qui caelestium notitia gloriatur: frigida Saturni sese quo stella receptet, quos ignis caeli Cyllenius erret in orbes. Hoc scire quid proderit? ut sollicitus sim cum Saturnus et Mars ex contrario stabunt aut cum Mercurius vespertinum faciet occasum vidente Saturno, potius quam hoc discam, ubicumque sunt ista, propitia esse nec posse mutari? [15] Agit illa continuus ordo fatorum et inevitabilis cursus; per statas vices remeant et effectus rerum omnium aut movent aut notant. Sed sive quidquid evenit faciunt, quid inmutabilis rei notitia proficiet? sive significant, quid refert providere quod effugere non possis? Scias ista, nescias: fient. [16] Si vero solem ad rapidum stellasque sequentes ordine respicies, numquam te crastina fallet hora, nec insidiis noctis capiere serenae. Satis abundeque provisum est ut ab insidiis tutus essem. [17] 'Numquid me crastina non fallit hora? fallit enim quod nescienti evenit.' Ego quid futurum sit nescio: quid fieri possit scio. Ex hoc nihil deprecabor, totum expecto: si quid remittitur, boni consulo. Fallit me hora si parcit, sed ne sic quidem fallit. Nam quemadmodum scio omnia accidere posse, sic scio et non utique casura; itaque secunda expecto, malis paratus sum. [18] In illo feras me necesse est non per praescriptum euntem; non enim adducor ut in numerum liberalium artium pictores recipiam, non magis quam statuarios aut marmorarios aut ceteros luxuriae ministros. Aeque luctatores et totam oleo ac luto constantem scientiam expello ex his studiis liberalibus; aut et unguentarios recipiam et cocos et ceteros voluptatibus nostris ingenia accommodantes sua. [19] Quid enim, oro te, liberale habent isti ieiuni vomitores, quorum corpora in sagina, animi in macie et veterno sunt? An liberale studium istuc esse iuventuti nostrae credimus, quam maiores nostri rectam exercuerunt hastilia iacere, sudem torquere, equum agitare, arma tractare? Nihil liberos suos docebant quod discendum esset iacentibus. Sed nec hae nec illae docent aluntve virtutem; quid enim prodest equum regere et cursum eius freno temperare, adfectibus effrenatissimis abstrahi? quid prodest multos vincere luctatione vel caestu, ab iracundia vinci? [20] 'Quid ergo? nihil nobis liberalia conferunt studia?' Ad alia multum, ad virtutem nihil; nam et hae viles ex professo artes quae manu constant ad instrumenta vitae plurimum conferunt, tamen ad virtutem non pertinent. 'Quare ergo liberalibus studiis filios erudimus?' Non quia virtutem dare possunt, sed quia animum ad accipiendam virtutem praeparant. Quemadmodum prima illa, ut antiqui vocabant, litteratura, per quam pueris elementa traduntur, non docet liberales artes sed mox percipiendis locum parat, sic liberales artes non perducunt animum ad virtutem sed expediunt.
14 Veniamo ora all'astrologia che si vanta di conoscere i corpi celesti: dove si ritiri la gelida stella di Saturno, quali orbite percorra nel cielo il pianeta Mercurio. A che serve conoscere tutto questo? Per preoccuparmi quando Saturno e Marte saranno in opposizione o quando Mercurio tramonterà la sera in vista di Saturno? È meglio che impari che gli astri, dovunque si trovino, sono propizi e immutabili. 15 Li spinge un ordine continuo e fatale e una corsa ineluttabile; l'uno dopo l'altro ritornano periodicamente e determinano tutti gli eventi o li preannunciano. Ma se sono la causa diretta di qualunque avvenimento, a che servirà la conoscenza di un fatto ineluttabile? E se lo preannunciano solamente, che importa prevedere una cosa a cui non si può sfuggire? Lo sai, non lo sai; accadrà lo stesso. 16 Ma se osserverai il sole nella sua rapida corsa e le stelle nel loro ordinato cammino, non ti ingannerà mai il domani e non verrai sorpreso dalle insidie di una notte serena. Ho preso precauzioni più che sufficienti per mettermi al sicuro dalle insidie. 17 "Il domani non mi ingannerà? Gli imprevisti ingannano." Non so che cosa accadrà, ma so che cosa può accadere. Non cercherò di scongiurare nulla, mi aspetto tutto: se qualche disgrazia mi viene risparmiata, me ne rallegro. L'ora che mi risparmia, mi inganna, ma neppure così mi inganna. Io so che tutto può accadere, come so che non è sicuro che accada. Perciò aspetto gli eventi propizi e sono pronto a quelli sfavorevoli. 18 Non seguo la via già tracciata, concedimelo; non mi va di comprendere tra le arti liberali i pittori, gli scultori, i marmisti o gli altri servi del lusso. Analogamente escludo da queste occupazioni liberali i lottatori e l'arte che consiste interamente nel lordarsi d'olio e di fango; oppure dovrei includere anche i profumieri, i cuochi e tutti gli altri che mettono il loro acume al servizio dei nostri piaceri. 19 Ma, via, che hanno di liberale questi vomitatori a digiuno, grassi di corpo, emaciati e torpidi nello spirito? Oppure pensiamo che in questo consista lo studio liberale per la gioventù di oggi, mentre i nostri antenati la esercitavano a scagliare le lance in posizione eretta, a vibrare il bastone, a spronare il cavallo, a maneggiare le armi? Non insegnavano ai loro figli niente che potessero imparare standosene coricati. Ma né le une, né le altre attività insegnano o alimentano la virtù; a che serve saper guidare un cavallo e frenare la sua corsa, se ci facciamo trascinare dalle passioni più sfrenate? A che serve vincere tanti atleti nella lotta o nel pugilato ed essere poi vinti dall'ira? 20 "E allora? Gli studi liberali non ci sono per niente utili?" In altri campi sì, molto, per la virtù no; anche le arti manuali chiaramente vili, benché servano moltissimo a corredare la vita, non riguardano la virtù. "Perché, dunque, insegniamo ai figli gli studi liberali?" Non perché possono dare la virtù, ma perché preparano l'anima ad accoglierla. Come i primi rudimenti di lingua che vengono dati ai fanciulli, gli antichi li chiamavano litteratura, non insegnano le arti liberali, ma ne predispongono l'apprendimento, così le arti liberali non conducono l'anima alla virtù, ma la preparano ad essa.
[21] Quattuor ait esse artium Posidonius genera: sunt vulgares et sordidae, sunt ludicrae, sunt pueriles, sunt liberales. Vulgares opificum, quae manu constant et ad instruendam vitam occupatae sunt, in quibus nulla decoris, nulla honesti simulatio est. [22] Ludicrae sunt quae ad voluptatem oculorum atque aurium tendunt; his adnumeres licet machinatores qui pegmata per se surgentia excogitant et tabulata tacite in sublime crescentia et alias ex inopinato varietates, aut dehiscentibus quae cohaerebant aut his quae distabant sua sponte coeuntibus aut his quae eminebant paulatim in se residentibus. His inperitorum feriuntur oculi, omnia subita quia causas non novere mirantium. [23] Pueriles sunt et aliquid habentes liberalibus simile hae artes quas egkuklious Graeci, nostri autem liberales vocant. Solae autem liberales sunt, immo, ut dicam verius, liberae, quibus curae virtus est. [24] 'Quemadmodum' inquit 'est aliqua pars philosophiae naturalis, est aliqua moralis, est aliqua rationalis, sic et haec quoque liberalium artium turba locum sibi in philosophia vindicat. Cum ventum est ad naturales quaestiones, geometriae testimonio statur; ergo eius quam adiuvat pars est.' [25] Multa adiuvant nos nec ideo partes nostri sunt; immo si partes essent, non adiuvarent. Cibus adiutorium corporis nec tamen pars est. Aliquod nobis praestat geometria ministerium: sic philosophiae necessaria est quomodo ipsi faber, sed nec hic geometriae pars est nec illa philosophiae. [26] Praeterea utraque fines suos habet; sapiens enim causas naturalium et quaerit et novit, quorum numeros mensurasque geometres persequitur et supputat. Qua ratione constent caelestia, quae illis sit vis quaeve natura sapiens scit: cursus et recursus et quasdam obversationes per quas descendunt et adlevantur ac speciem interdum stantium praebent, cum caelestibus stare non liceat, colligit mathematicus. [27] Quae causa in speculo imagines exprimat sciet sapiens: illud tibi geometres potest dicere, quantum abesse debeat corpus ab imagine et qualis forma speculi quales imagines reddat. Magnum esse solem philosophus probabit, quantus sit mathematicus, qui usu quodam et exercitatione procedit. Sed ut procedat, inpetranda illi quaedam principia sunt; non est autem ars sui iuris cui precarium fundamentum est. [28] Philosophia nil ab alio petit, totum opus a solo excitat: mathematice, ut ita dicam, superficiaria est, in alieno aedificat; accipit prima, quorum beneficio ad ulteriora perveniat. Si per se iret ad verum, si totius mundi naturam posset conprendere, dicerem multum conlaturam mentibus nostris, quae tractatu caelestium crescunt trahuntque aliquid ex alto. Una re consummatur animus, scientia bonorum ac malorum inmutabili; nihil autem ulla ars alia de bonis ac malis quaerit. Singulas lubet circumire virtutes. [29] Fortitudo contemptrix timendorum est; terribilia et sub iugum libertatem nostram mittentia despicit, provocat, frangit: numquid ergo hanc liberalia studia corroborant? Fides sanctissimum humani pectoris bonum est, nulla necessitate ad fallendum cogitur, nullo corrumpitur praemio: 'ure', inquit 'caede, occide: non prodam, sed quo magis secreta quaeret dolor, hoc illa altius condam'. Numquid liberalia studia hos animos facere possunt? Temperantia voluptatibus imperat, alias odit atque abigit, alias dispensat et ad sanum modum redigit nec umquam ad illas propter ipsas venit; scit optimum esse modum cupitorum non quantum velis, sed quantum debeas sumere. [30] Humanitas vetat superbum esse adversus socios, vetat amarum; verbis, rebus, adfectibus comem se facilemque omnibus praestat; nullum alienum malum putat, bonum autem suum ideo maxime quod alicui bono futurum est amat. Numquid liberalia studia hos mores praecipiunt? non magis quam simplicitatem, quam modestiam ac moderationem, non magis quam frugalitatem ac parsimoniam, non magis quam clementiam, quae alieno sanguini tamquam suo parcit et scit homini non esse homine prodige utendum.
21 Posidonio classifica le arti in quattro generi: quelle popolari e vili, quelle ricreative, quelle per i fanciulli, quelle liberali. Le arti popolari sono proprie degli artigiani e si basano sul lavoro manuale; servono alle necessità pratiche della vita: in esse non c'è riproduzione di bellezza morale, né di virtù. 22 Le arti ricreative tendono al piacere della vista e dell'udito; tra esse bisogna includere quella dei costruttori progettisti di macchine teatrali, che si sollevano da sole, e di palchi, che si alzano silenziosamente e compiono diversi altri spostamenti improvvisi, o perché si separano elementi prima uniti, o perché si uniscono da sé pezzi staccati, o perché a poco a poco si abbassano parti che stavano in alto. Questi macchinari colpiscono la gente ignorante che guarda ammirata, non conoscendone le cause, tutti gli improvvisi cambiamenti. 23 Sono per i ragazzi e assomigliano in qualcosa alle arti liberali, quelle che i greci chiamano $dãêýêëéïé$ e noi "liberali". Ma le sole arti liberali, anzi, per meglio dire, libere, sono quelle che si occupano della virtù. 24 "Come c'è una branca della filosofia - si dice - che studia la natura, una la morale, una la logica, così anche questa massa di arti liberali rivendica un posto nella filosofia. Quando si indaga sui fenomeni naturali, ci si basa sulle dimostrazioni geometriche; la geometria è utile alla filosofia, dunque ne fa parte." 25 Molte cose ci sono di aiuto, ma non per questo sono parte di noi; anzi, se lo fossero, non ci sarebbero di aiuto. Il cibo aiuta il corpo, ma non ne fa parte. La geometria ci presta un servizio: è necessaria alla filosofia, come alla geometria è necessario chi fabbrica gli strumenti; ma né costui è parte della geometria, né la geometria della filosofia. 26 Entrambe, inoltre, hanno fini propri; il saggio ricerca e conosce le cause dei fenomeni naturali, mentre il geometra ne determina e ne calcola la quantità e la grandezza. Il saggio sa su quali leggi si basino i corpi celesti, qual è la loro forza e la loro natura: il matematico calcola i loro corsi e ricorsi e certe orbite lungo le quali essi sorgono e tramontano e sembrano talvolta stare immobili, fenomeno impossibile per i corpi celesti. 27 Il saggio saprà perché un'immagine si rifletta nello specchio; il geometra può dirti quale deve essere la distanza tra un corpo e la sua immagine e quale forma di specchio restituisca una certa immagine. Il filosofo dimostrerà che il sole è grande; il matematico, basandosi sull'esperienza e la pratica, dirà quanto è grande. Ma per procedere deve impadronirsi di certi princìpî; e non è indipendente quella scienza priva di basi proprie. 28 La filosofia non chiede niente agli altri, erige interamente l'edificio fin dalle fondamenta: la matematica è, come dire, "usufruttuaria", costruisce su terreno altrui; da qui trae i primi elementi e grazie ad essi va avanti. Se si muovesse verso la verità con le sue forze, se fosse in grado di comprendere la natura dell'intero universo, direi che sarebbe apportatrice di un grande contributo al nostro spirito: esso si sviluppa trattando i fenomeni celesti e trae vantaggi dall'alto. C'è una sola cosa che può rendere l'animo perfetto, la scienza immutabile del bene e del male; nessun'altra arte indaga sul bene e sul male. 29 Prendiamo ora in considerazione le singole virtù. La fortezza disprezza le cose che spaventano; disdegna, sfida, vince le paure che soggiogano la nostra libertà: le arti liberali possono forse rafforzarla? La lealtà è il bene più sacro dell'anima umana, nessuna circostanza può costringerla all'inganno, non si lascia corrompere da nessuna ricompensa: "Brucia," grida, "colpisci, uccidi; non tradirò ma più si vorrà con la sofferenza scoprire i miei segreti, più li terrò nascosti." Possono forse gli studi liberali formare animi del genere? La temperanza domina i piaceri, alcuni li ha in odio e li elimina, altri li regola e li riconduce a una sana misura, e non vi si accosta mai per loro stessi; sa che la misura migliore dei nostri desideri è prendere non quanto vogliamo, ma quanto dobbiamo. 30 Il senso di umanità ci impedisce di essere superbi e sgarbati con il prossimo; nelle parole, nelle azioni, nei sentimenti si mostra cortese e disponibile con tutti; fa suoi i mali degli altri e ama il suo bene soprattutto quando può essere un bene per gli altri. Gli studi liberali ci insegnano forse un simile comportamento? No, e non ci insegnano la semplicità, la modestia, la moderazione e neppure la frugalità e la parsimonia, né la clemenza che risparmia il sangue altrui come se fosse il proprio e sa che l'uomo non deve abusare di un suo simile.
[31] 'Cum dicatis' inquit 'sine liberalibus studiis ad virtutem non perveniri, quemadmodum negatis illa nihil conferre virtuti?' Quia nec sine cibo ad virtutem pervenitur, cibus tamen ad virtutem non pertinet; ligna navi nihil conferunt, quamvis non fiat navis nisi ex lignis: non est, inquam, cur aliquid putes eius adiutorio fieri sine quo non potest fieri. [32] Potest quidem etiam illud dici, sine liberalibus studiis veniri ad sapientiam posse; quamvis enim virtus discenda sit, tamen non per haec discitur. Quid est autem quare existimem non futurum sapientem eum qui litteras nescit, cum sapientia non sit in litteris? Res tradit, non verba, et nescio an certior memoria sit quae nullum extra se subsidium habet. [33] Magna et spatiosa res est sapientia; vacuo illi loco opus est; de divinis humanisque discendum est, de praeteritis de futuris, de caducis de aeternis, de tempore. De quo uno vide quam multa quaerantur: primum an per se sit aliquid; deinde an aliquid ante tempus sit sine tempore; cum mundo coeperit an etiam ante mundum quia fuerit aliquid, fuerit et tempus. [34] Innumerabiles quaestiones sunt de animo tantum: unde sit, qualis sit, quando esse incipiat, quamdiu sit, aliunde alio transeat et domicilia mutet in alias animalium formas aliasque coniectus, an non amplius quam semel serviat et emissus vagetur in toto; utrum corpus sit an non sit; quid sit facturus cum per nos aliquid facere desierit, quomodo libertate sua usurus cum ex hac effugerit cavea; an obliviscatur priorum et illinc nosse se incipiat unde corpori abductus in sublime secessit. [35] Quamcumque partem rerum humanarum divinarumque conprenderis, ingenti copia quaerendorum ac discendorum fatigaberis. Haec tam multa, tam magna ut habere possint liberum hospitium, supervacua ex animo tollenda sunt. Non dabit se in has angustias virtus; laxum spatium res magna desiderat. Expellantur omnia, totum pectus illi vacet.
31 "Voi sostenete," ribattono, "che senza gli studi liberali non si raggiunge la virtù; come potete affermare allora che non contribuiscono alla virtù?" Perché neppure senza cibo si arriva alla virtù e tuttavia il cibo non è in relazione con la virtù; il legno non dà nessun apporto sostanziale alla nave, eppure non si può costruire una nave senza legno: non c'è motivo di credere, intendo dire, che una cosa sia di aiuto per un'altra, se senza di essa non la si può fare. 32 Si può anche affermare che possiamo raggiungere la saggezza senza gli studi liberali; difatti, sebbene la virtù si debba apprenderla, tuttavia non la si apprende per mezzo loro. Perché dovrei ritenere che non diventerà saggio chi ignora le lettere, quando la saggezza non consiste nelle lettere? Essa insegna cose, non parole, e non so se sia più affidabile quel tipo di memoria che non ha altro aiuto all'infuori di se stessa. 33 La saggezza è cosa grande e vasta; ha bisogno di uno spazio sgombro; si devono acquisire nozioni sull'umano e il divino, sul passato e il futuro, sull'effimero e l'eterno, sul tempo. E su questo solo argomento guarda quanti problemi sorgono: primo, se sia qualcosa di per sé; poi, se ci sia qualcosa prima del tempo e senza tempo; se è cominciato col mondo oppure, visto che dev'essere esistito qualcosa prima del mondo, se anche il tempo sia esistito prima del mondo. 34 Innumerevoli questioni si pongono poi solo intorno all'anima: la sua origine, la sua natura, quando cominci a esistere, quanto viva, se passi da un luogo all'altro e cambi sede, gettata nelle spoglie ora di uno, ora di un altro animale, oppure sia schiava solo una volta e, liberata, vaghi nell'universo; se sia o no corporea; che cosa farà quando finirà di agire per mezzo nostro, come farà uso della sua libertà una volta fuggita da questa gabbia; se dimentichi la vita precedente e cominci a conoscere se stessa dal momento in cui, distaccatasi dal corpo, sale in cielo. 35 Qualsiasi parte delle questioni umane e divine prenderai in considerazione, sarai spossato dall'ingente quantità di quesiti e di nozioni. Eliminiamo dal nostro animo le nozioni superflue perché questi problemi così numerosi e importanti possano trovare campo libero. La virtù non si va a rinchiudere in stretti confini; una cosa grande necessita di un ampio spazio. Bisogna scacciare tutto dal proprio petto e lasciarlo sgombro per la virtù.
[36] 'At enim delectat artium notitia multarum.' Tantum itaque ex illis retineamus quantum necessarium est. An tu existimas reprendendum qui supervacua usibus comparat et pretiosarum rerum pompam in domo explicat, non putas eum qui occupatus est in supervacua litterarum supellectile? Plus scire velle quam sit satis intemperantiae genus est. [37] Quid quod ista liberalium artium consectatio molestos, verbosos, intempestivos, sibi placentes facit et ideo non discentes necessaria quia supervacua didicerunt? Quattuor milia librorum Didymus grammaticus scripsit: misererer si tam multa supervacua legisset. In his libris de patria Homeri quaeritur, in his de Aeneae matre vera, in his libidinosior Anacreon an ebriosior vixerit, in his an Sappho publica fuerit, et alia quae erant dediscenda si scires. I nunc et longam esse vitam nega!
36 "Ma mi piace conoscere molte scienze." Rammentiamone solo lo stretto necessario. Oppure secondo te è riprovevole chi raccoglie oggetti superflui e in casa fa sfoggio di preziose suppellettili, e non chi ha la mente ingombra di inutili suppellettili letterarie? Voler conoscer più del necessario è una forma di intemperanza. 37 Che dire poi di questa avida ricerca delle arti liberali che ci rende importuni, prolissi, intempestivi, compiaciuti di noi stessi e incapaci di apprendere il necessario, perché abbiamo imparato il superfluo? Il grammatico Didimo scrisse quattromila libri: ne avrei compassione se solo avesse letto una simile mole di inutilità. In questi libri si discute sulla patria di Omero, sulla vera madre di Enea, se Anacreonte fu più dedito al sesso che al vino, se Saffo fu una donna di malaffare e altre questioni che, se si conoscessero, sarebbe bene disimparare. Su, e adesso nega che la vita sia lunga!
[38] Sed ad nostros quoque cum perveneris, ostendam multa securibus recidenda. Magno inpendio temporum, magna alienarum aurium molestia laudatio haec constat: 'o hominem litteratum!' Simus hoc titulo rusticiore contenti: 'o virum bonum!' [39] Itane est? annales evolvam omnium gentium et quis primus carmina scripserit quaeram? quantum temporis inter Orphea intersit et Homerum, cum fastos non habeam, conputabo? et Aristarchi notas quibus aliena carmina conpunxit recognoscam, et aetatem in syllabis conteram? Itane in geometriae pulvere haerebo? adeo mihi praeceptum illud salutare excidit: 'tempori parce'? Haec sciam? et quid ignorem? [40] Apion grammaticus, qui sub C. Caesare tota circulatus est Graecia et in nomen Homeri ab omnibus civitatibus adoptatus, aiebat Homerum utraque materia consummata, et Odyssia et Iliade, principium adiecisse operi suo quo bellum Troianum conplexus est. Huius rei argumentum adferebat quod duas litteras in primo versu posuisset ex industria librorum suorum numerum continentes. [41] Talia sciat oportet qui multa vult scire. Non vis cogitare quantum temporis tibi auferat mala valetudo, quantum occupatio publica, quantum occupatio privata, quantum occupatio cotidiana, quantum somnus? Metire aetatem tuam: tam multa non capit. [42] De liberalibus studiis loquor: philosophi quantum habent supervacui, quantum ab usu recedentis! Ipsi quoque ad syllabarum distinctiones et coniunctionum ac praepositionum proprietates descenderunt et invidere grammaticis, invidere geometris; quidquid in illorum artibus supervacuum erat transtulere in suam. Sic effectum est ut diligentius loqui scirent quam vivere. [43] Audi quantum mali faciat nimia subtilitas et quam infesta veritati sit. Protagoras ait de omni re in utramque partem disputari posse ex aequo et de hac ipsa, an omnis res in utramque partem disputabilis sit. Nausiphanes ait ex his quae videntur esse nihil magis esse quam non esse. [44] Parmenides ait ex his quae videntur nihil esse ~universo~. Zenon Eleates omnia negotia de negotio deiecit: ait nihil esse. Circa eadem fere Pyrrhonei versantur et Megarici et Eretrici et Academici, qui novam induxerunt scientiam, nihil scire. [45] Haec omnia in illum supervacuum studiorum liberalium gregem coice; illi mihi non profuturam scientiam tradunt, hi spem omnis scientiae eripiunt. Satius est supervacua scire quam nihil. Illi non praeferunt lumen per quod acies derigatur ad verum, hi oculos mihi effodiunt. Si Protagorae credo, nihil in rerum natura est nisi dubium; si Nausiphani, hoc unum certum est, nihil esse certi; si Parmenidi, nihil est praeter unum; si Zenoni, ne unum quidem. [46] Quid ergo nos sumus? quid ista quae nos circumstant, alunt, sustinent? Tota rerum natura umbra est aut inanis aut fallax. Non facile dixerim utris magis irascar, illis qui nos nihil scire voluerunt, an illis qui ne hoc quidem nobis reliquerunt, nihil scire. Vale.
38 Ma anche quando arriveremo alle dottrine stoiche, ti mostrerò che bisogna sfrondare molto a colpi di scure. Gran perdita di tempo e gran fastidio agli ascoltatori costa questo elogio: "Che uomo colto!" Accontentiamoci invece di questo titolo più semplice: "Che brav'uomo!" 39 Non è così? Sfoglierò gli annali di tutti i popoli per cercare chi fu il primo poeta? E non disponendo dei fasti, farò il conto di quanti anni intercorrono tra Orfeo e Omero? Esaminerò le note con cui Aristarco segnava i versi spuri e consumerò la mia vita sulle sillabe? Rimarrò lì a tracciare figure geometriche sulla polvere? Ho dimenticato fino a questo punto quel famoso salutare precetto: "Risparmia il tempo"? Dovrei conoscere questi argomenti? E che cosa dovrei ignorare? 40 Il grammatico Apione, che al tempo di Caligola girò per tutta la Grecia e fu accolto da tutte le città in nome di Omero, sosteneva che Omero, portate a termine sia l'Iliade che l'Odissea, aggiunse un proemio alla sua opera, in cui comprendeva tutta la guerra di Troia. Come prova di questa affermazione adduceva il fatto che il poeta aveva inserito di proposito nel primo verso due lettere che indicavano il numero dei suoi libri. 41 Se uno vuole sapere molto, deve saperle queste cose! Non vuoi pensare quanto tempo ti sottraggono le malattie, gli affari pubblici e privati, le occupazioni giornaliere, il sonno? Misura la tua vita: non può contenere tante cose. 42 Io parlo degli studi liberali: ma i filosofi, a quanti problemi superflui e inutili si dedicano! Anch'essi si sono abbassati a distinguere le sillabe e a studiare le proprietà delle congiunzioni e preposizioni, hanno avuto invidia dei grammatici e dei geometri; quanto c'era di inutile nelle discipline di quelli, l'hanno trasferito nella propria. Il risultato è che sanno parlare con più precisione di quanto vivono. 43 Senti come è dannosa l'eccessiva sottigliezza e come è nemica della verità. Protagora sostiene che si possono addurre argomentazioni ugualmente valide pro e contro su ogni questione, compresa questa: se su ogni questione si possono addurre argomentazioni pro e contro. Nausifane sostiene che di tutte le cose che sembrano esistere niente è più probabile che la loro non esistenza. 44 Parmenide afferma che di tutte le cose che appaiono, niente esiste se non l'uno. Zenone di Elea eliminò dal problema ogni problema: sostiene che non esiste niente. All'incirca dello stesso argomento si occupano i Pirroniani, i Megarici, gli Eretici, gli Accademici, che hanno introdotto una nuova scienza, non sapere niente. 45 Butta tutte queste teorie nello sterile branco degli studi liberali; gli uni mi insegnano una scienza inutile, gli altri mi tolgono ogni speranza di conoscenza. Conoscere il superfluo è meglio che non conoscere niente. Gli uni non portano una luce che indirizzi gli occhi alla verità, gli altri gli occhi me li cavano addirittura. Se credo a Protagora, nella natura esiste solo il dubbio; se credo a Nausifane, c'è una sola certezza, che niente è certo; se credo a Parmenide, niente esiste, se non l'uno; se credo a Zenone, non esiste neppure l'uno. 46 Che siamo noi, dunque? Che cosa sono le cose che ci circondano, ci nutrono, ci sostengono? Tutta la natura è un'ombra o vana o ingannevole. Non mi sarebbe facile dirti con chi ce l'ho di più, se con quei filosofi che ci hanno voluto privare di ogni conoscenza o con quelli che non ci hanno lasciato neppure questo: non avere nessuna conoscenza. Stammi bene.


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