SENECA - Consolazione alla madre Elvia Libro XII - Testo latino e traduzione

CONSOLAZIONE ALLA MADRE ELVIA XII
Consolatio ad Helvia matrem XII
Testo latino e traduzione italiana  LIBRO XII

1.Ne me putes ad eleVanda incommoda paupertatis, quam nemo graVem sentit nisi qui putat, uti tantum praeceptis sapientium, primum aspice quanto maior pars sit pauperum, quos nihilo notabis tristiores sollicitioresque diuitibus: immo nescio an eo laetiores sint quo animus illorum in pauciora distringitur.

2. Transeamus [a pauperibus, ueniamus] ad locupletes: quam multa tempora sunt quibus pauperibus similes sint! Circumcisae sunt peregrinantium sarcinae, et quotiens festinationem necessitas itineris exegit, comitum turba dimittitur. Militantes quotam partem rerum suarum secum habent, cum omnem apparatum castrensis disciplina summoueat! 3. Nec tantum condicio illos temporum aut locorum inopia pauperibus exaequat: sumunt quosdam dies, cum iam illos diuitiarum taedium cepit, quibus humi cenent et remoto auro argentoque fictilibus utantur. Dementes! hoc quod aliquando concupiscunt semper timent. O quanta illos caligo mentium, quanta ignorantia ueritatis * * * exercet, quam uoluptatis causa imitantur!

4. Me quidem, quotiens ad antiqua exempla respexi, paupertatis uti solaciis pudet, quoniam quidem eo temporum luxuria prolapsa est ut maius uiaticum exulum sit quam olim patrimonium principum fuit. Vnum fuisse Homero seruum, tres Platoni, nullum Zenoni, a quo coepit Stoicorum rigida ac uirilis sapientia, satis constat: num ergo quisquam eos misere uixisse dicet ut non ipse miserrimus ob hoc omnibus uideatur? 5. Menenius Agrippa, qui inter patres ac plebem publicae gratiae sequester fuit, aere conlato funeratus est. Atilius Regulus, cum Poenos in Africa funderet, ad senatum scripsit mercennarium suum discessisse et ab eo desertum esse rus, quod senatui publice curari dum abesset Regulus placuit: fuitne tanti seruum non habere ut colonus eius populus Romanus esset?

6. Scipionis filiae ex aerario dotem acceperunt, quia nihil illis reliquerat pater: aequum mehercules erat populum Romanum tributum Scipioni semel conferre, cum a Carthagine semper exigeret. O felices uiros puellarum quibus populus Romanus loco soceri fuit! Beatioresne istos putas quorum pantomimae deciens sestertio nubunt quam Scipionem, cuius liberi a senatu, tutore suo, in dotem aes graue acceperunt? 7. Dedignatur aliquis paupertatem, cuius tam clarae imagines sunt? Indignatur exul aliquid sibi deesse, cum defuerit Scipioni dos, Regulo mercennarius, Menenio funus, cum omnibus illis quod deerat ideo honestius suppletum sit quia defuerat? His ergo aduocatis non tantum tuta est sed etiam gratiosa paupertas

(1) E perché tu non creda che per ridurre gli inconvenienti della povertà che, del resto, nessuno sente gravosa se non chi la ritiene tale, io mi serva soltanto dei precetti dei saggi, guarda in primo luogo la gran parte dei poveri che, se osservi bene, non sono per nulla più infelici e preoccupati dei ricchi.

Anzi, non so se non siano forse più allegri dal momento che il loro animo è meno turbato dalle preoccupazioni. (2) Lasciamo i poveri e veniamo ai ricchi: quante sono le circostanze in cui essi sono simili ai poveri! Quando viaggiano sono costretti a dimezzare i loro bagagli e, ogni qual volta per necessità di viaggio sono costretti ad affrettarsi, licenziano la schiera dei portatori. Sotto le armi quanta parte dei loro beni portano con sé dal momento che la disciplina militare vieta ogni cosa superflua? (3) Non sono soltanto le circostanze dei tempi e l'aridità dei territori a renderli uguali ai poveri; in certi giorni, quando li prende la noia di tante ricchezze, decidono di mangiare per terra e, sdegnando l'oro e l'argento, adoperano recipienti di argilla. Pazzi! Hanno sempre il terrore di quello che, di quando in quando, desiderano. O quanta nebbia nelle loro menti, quanta ignoranza li acceca della verità, che essi imitano per divertirsi!

(4) Io, ogni volta che ripenso agli esempi antichi, provo vergogna di consolare chi è povero, perché il lusso dei nostri tempi è giunto a tal punto che il viatico di un esule è maggiore di quanto non fosse una volta il patrimonio di un principe. È abbastanza risaputo che Omero aveva un solo schiavo, Platone tre e neanche uno Zenone, il fondatore della rigorosa e virile filosofia stoica. Che, forse, qualcuno potrebbe dire che essi siano vissuti miseramente, senza, per questo, sembrare a tutti egli stesso l'ultimo dei miserabili? (5) Menenio Agrippa, che fu l'intermediario di pace tra il senato e la plebe, fu sepolto col denaro di una sottoscrizione. Attilio Regolo, mentre era in Africa e sconfiggeva i Cartaginesi, scrisse al senato che il suo lavorante se n'era andato e aveva lasciato il suo podere in abbandono;

al che il senato dispose che sarebbe stato coltivato a spese dello Stato finché Regolo fosse stato assente. Era poi tanto grave non avere uno schiavo quando fu suo colono il popolo romano? (6) Le figlie di Scipione s'ebbero la dote dal pubblico erario perché il padre non aveva lasciato nulla: era giusto, per Ercole, che il popolo romano pagasse, per una volta, un tributo a Scipione quando lo riscuoteva costantemente dai Cartaginesi. Fortunati gli sposi di quelle ragazze che s'ebbero per suocero il popolo romano! O credi che siano più felici questi le cui danzatrici si sposano con un milione di sesterzi, anziché Scipione le cui figlie ricevettero per dote, dal Senato, loro tutore, una moneta di rame? (7) E qualcuno disdegna ancora la povertà che ha esempi così fulgidi? Come può sdegnarsi un esule se gli manca qualcosa quando a Scipione mancava la dote per le figlie, a Regolo il bracciante per il suo podere, a Menenio i soldi per il funerale, quando a tutti costoro fu dato onorevolmente ciò che a loro mancava, proprio perché ne erano privi? Con questi esempi la povertà non solo è al sicuro, ma è anche gradita.

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