Seneca De Providentia La provvidenza Libro III 1-3

Seneca - De Providentia (Sulla provvidenza) testo latino e traduzione italiana LIBRO III 1, 2, 3 passim

1. Sed iam procedente oratione ostendam quam non sint quae videntur mala: nunc illud dico, ista quae tu vocas aspera, quae adversa et abominanda, primum pro ipsis esse quibus accidunt, deinde pro universis, quorum maior dis cura quam singulorum est, post hoc volentibus accidere ac dignos malo esse si nolint.

His adiciam fato ista sic ire et eadem lege bonis evenire qua sunt boni. Persuadebo deinde tibi ne umquam boni viri miserearis; potest enim miser dici, non potest esse. 2. Difficillimum ex omnibus quae proposui videtur quod primum dixi, pro ipsis esse quibus eveniunt ista quae horremus ac tremimus. 'Pro ipsis est' inquis 'in exilium proici, in egestatem deduci, liberos coniugem ecferre, ignominia adfici, debilitari?' Si miraris haec pro aliquo esse, miraberis quosdam ferro et igne curari, nec minus fame ac siti.

Sed si cogitaveris tecum remedii causa quibusdam et radi ossa et legi et extrahi venas et quaedam amputari membra quae sine totius pernicie corporis haerere non poterant, hoc quoque patieris probari tibi, quaedam incommoda pro iis esse quibus accidunt, tam mehercules quam quaedam quae laudantur atque adpetuntur contra eos esse quos delectaverunt, simillima cruditatibus ebrietatibusque et ceteris quae necant per voluptatem.

3. Inter multa magnifica Demetri nostri et haec vox est, a qua recens sum; sonat adhuc et vibrat in auribus meis: 'nihil' inquit 'mihi videtur infelicius eo cui nihil umquam evenit aduersi.' Non licuit enim illi se experiri. Ut ex voto illi fluxerint omnia, ut ante votum, male tamen de illo di iudicaverunt: indignus visus est a quo vinceretur aliquando fortuna, quae ignavissimum quemque refugit, quasi dicat: 'quid ergo? istum mihi adversarium adsumam? Statim arma summittet; non opus est in illum tota potentia mea, levi comminatione pelletur, non potest sustinere vultum meum. Alius circumspiciatur cum quo conferre possimus manum: pudet congredi cum homine vinci parato.

Ma, proseguendo nel mio discorso, ti dimostrerò come e perchè quelli che noi chiamiamo mali siano tali solo all'aspetto.

Per ora ti dico questo, che quegli eventi che tu definisci difficili, avversi e detestabili, sono utili in primo luogo a quelle stesse persone che li subiscono e poi anche all'umanità, alla quale Dio guarda più nell'insieme che nei suoi singoli componenti; inoltre, che essi capitano a coloro che sono disposti ad accettarli, ché se non fossero accettati, allora sì sarebbero veramente dei mali e come tali sarebbero meritati. A chiarimento di questa mia affermazione aggiungerò che tali eventi, regolati dal destino, toccano ai buoni proprio perchè sono buoni. Poi ti convincerò a non compiangere mai un uomo buono, giacché egli è compassionevole solo all'apparenza, a chi lo guardi superficialmente, ma in realtà non lo è. Di tutti i punti della questione il più difficile a comprendersi mi sembra il primo, il fatto, cioè, che degli avvenimenti spaventosi e tremendi possano giovare a chi li riceve. "È forse un bene", mi dirai, "essere cacciati in esilio, ridursi in povertà, veder morti i propri figli, la moglie, essere tacciati d'infamia, cadere ammalati?" Ascolta: se ti meravigli che simili accidenti possano giovare a qualcuno, devi anche stupirti del fatto che in certi casi i malati vengano curati col fuoco e col ferro, oppure con la fame e con la sete.

Se poi pensi che ad alcuni , per guarirli, vengono raschiate od asportate ossa, sfilate vene e tolte delle membra, che restano attaccate al corpo lo ucciderebbero, devi convenire che anche certe disgrazie sono di vantaggio a chi le subisce, così come certi piaceri, che pur sono lodati e desiderati, finiscono per nuocere a chi li ha goduti, simili alle indigestioni, alle ubriacature e ad altre cose del genere che uccidono proprio attraverso il piacere.

Fra i detti memorabili del mio amico Demetrio c'è anche questo, fresco fresco, che ancor più infelice che una felicità senza disgrazie". Chi infatti non ha mai messo alla prova la sua felicità non è propriamente felice. Dio non si fa buon concetto di un uomo a cui tutto fili liscio, secondo i suoi desideri o addirittura anticipandoli; non può ritenerlo degno se non ha affrontato e vinto almeno una volta le avversità della sorte, la quale fugge i vigliacchi, quasi dicesse: "Perchè dovrei scegliermi costui come rivale? Non c'è gusto : deporrebbe subito le armi. Non potrei sperimentare contro di lui tutte le mie forze, quando una mia semplice minaccia lo abbatterebbe. Non reggerebbe neppure il mio sguardo. È meglio che mi cerchi qualcun altro con cui attaccar battaglia. Mi vergogno di battermi con chi rinuncia alla lotta e si dichiara vinto in partenza".

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