Seneca De Providentia - La Provvidenza Libro IV 9-16

Seneca - De Providentia Sulla provvidenza
LIBRO IV 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 passim
testo latino  traduzione italiana

9. Fugite delicias, fugite enervantem felicitatem qua animi permadescunt et, nisi aliquid intervenit quod humanae sortis admoneat, marcent velut perpetua ebrietate sopiti.

Quem specularia semper ab adflatu uindicaverunt, cuius pedes inter fomenta subinde mutata tepuerunt, cuius cenationes subditus et parietibus circumfusus calor temperauit, hunc levis aura non sine periculo stringet. 10. Cum omnia quae excesserunt modum noceant, periculosissima felicitatis intemperantia est: movet cerebrum, in vanas mentem imagines euocat, multum inter falsum ac verum mediae caliginis fundit. Quidni satius sit perpetuam infelicitatem advocata virtute sustinere quam infinitis atque inmodicis bonis rumpi? lenior ieiunio mors est, cruditate dissiliunt. 11. Hanc itaque rationem di sequuntur in bonis viris quam in discipulis suis praeceptores, qui plus laboris ab iis exigunt in quibus certior spes est. Numquid tu invisos esse Lacedaemoniis liberos suos credis, quorum experiuntur indolem publice verberibus admotis? Ipsi illos patres adhortantur ut ictus flagellorum fortiter perferant, et laceros ac semianimes rogant, perseverent vulnera praebere vulneribus. 12. Quid mirum, si dure generosos spiritus deus temptat?

numquam virtutis molle documentum est. Verberat nos et lacerat fortuna: patiamur. Non est saevitia, certamen est, quod saepius adierimus, fortiores erimus: solidissima corporis pars est quam frequens usus agitavit. Praebendi fortunae sumus, ut contra illam ab ipsa duremur: paulatim nos sibi pares faciet, contemptum periculorum adsiduitas periclitandi dabit. 13. Sic sunt nauticis corpora ferendo mari dura, agricolis manus tritae, ad excutienda tela militares lacerti valent, agilia sunt membra cursoribus: id in quoque solidissimum est quod exercuit. Ad contemnendam patientiam malorum animus patientia pervenit; quae quid in nobis efficere possit scies, si aspexeris quantum nationibus nudis et inopia fortioribus labor praestet.

14. Omnes considera gentes in quibus Romana pax desinit, Germanos dico et quidquid circa Histrum vagarum gentium occursat: perpetua illos hiemps, triste caelum premit, maligne solum sterile sustentat; imbrem culmo aut fronde defendunt, super durata glacie stagna persultant, in alimentum feras captant. 15. Miseri tibi videntur? nihil miserum est quod in naturam consuetudo perduxit; paulatim enim voluptati sunt quae necessitate coeperunt. Nulla illis domicilia nullaeque sedes sunt nisi quas lassitudo in diem posuit; uilis et hic quaerendus manu victus, horrenda iniquitas caeli, intecta corpora: hoc quod tibi calamitas videtur tot gentium vita est. 16. Quid miraris bonos viros, ut confirmentur, concuti? non est arbor solida nec fortis nisi in quam frequens ventus incursat; ipsa enim vexatione constringitur et radices certius figit: fragiles sunt quae in aprica valle creverunt. Pro ipsis ergo bonis viris est, ut esse interriti possint, multum inter formidolosa versari et aequo animo ferre quae non sunt mala nisi male sustinenti.

Così parlano costoro.

Fuggite, o uomini, i piaceri, fuggite la molle prosperità che svigorisce l'animo, stordito come in un'eterna ebbrezza, se non s'imbatte in qualcosa che lo risvegli, che lo faccia riflettere sulla fragilità del nostro destino mortale! Chi tiene sempre chiusi i vetri delle finestre perché non passi un filo d'aria, chi si ripara i piedi dal freddo con pannicelli o scaldini rinnovati continuamente e pranza in sale riscaldate da tubature che passano sulle pareti e sotto il pavimento, è fatale che si ammali al minimo soffio di vento. Come ogni eccesso nuoce, così anche una smodata felicità è dannosissima: fa infatti girare la testa, evoca nella mente fantasie strane, frammette una diffusa nebbia tra il falso e il vero. Meglio sopportare un'infelicità senza fine sostenuti dalla virtù, piuttosto che schiattare tra infiniti e sfrenati piaceri. Meglio morire di fame che non d'indigestione. Dio si comporta con i buoni come un maestro con i suoi scolari: pretende di più da coloro qui quali conta di più. Non è certo per odio che gli Spartani fanno frustare pubblicamente i loro figliuoli, ma per temprarne il carattere. E i padri stessi, del resto, li esortano a sopportare le nerbate con forza e con coraggio, e anche quando i loro corpi sono già pieni di piaghe e come privi di vita li persuadono a nuovi colpi e a nuove ferite. Che c'è di strano, dunque, se Dio tenta con dure prove gli animi generosi? Non è facile dar segno della propria virtù. Sopportiamo le piaghe della sorte, quando essa ci assale e ci flagella, non per masochismo, ma perché si tratta di una battaglia, e saremo tanto più forti quanto più spesso la sosterremo.

La parte più robusta del nostro corpo è quella sottoposta a stimoli maggiori e più frequenti. Dobbiamo esporci agli assalti della cattiva sorte per uscire rafforzati dalle sue stesse percosse: sarà lei a poco a poco a farci uguali a sè e la continua familiarità col rischio ce ne darà anche il disprezzo.È cosí che il fisico dei marinai s'incallisce alla rigida vita del mare e le mani dei contadini s'induriscono al lavoro. Non c'è disprezzo del male se prima non lo si sopporta, e se si vuole avere un'idea di quanta pazienza sia capace l'uomo si guardi quanto renda la fatica a quei popoli che sono privi di ogni cosa e fatti duri dal bisogno. Osserva tutte quelle genti a cui si è spinta la pace romana, intendo dire i Germani e quanti altri s'incontrano errabondi nella regione dell'Istro: un inverno continuo, interminabile, un cielo grigio li opprime, una terra infeconda li nutre a malapena;

si riparano dalla pioggia in capanne di paglia e di rami, camminano su acque stagnanti indurite dal gelo e vanno a caccia di belve, loro unico cibo. Ti sembrano infelici? No, non c'è infelicità in ciò che l'abitudine ha trasformato in una condizione di vita naturale, tanto che quel che s'è cominciato a fare per necessità a poco a poco diventa persino piacevole. Quei nomadi non hanno altra casa, altra dimora che quella occasionale in cui li porta di giorno in giorno, per riposarsi, il loro spostarsi continuo e senza meta. Perdipiù vanno a corpo nudo, in un clima così rigidamente ostile, mangiano poco e quel poco devono procurarselo con le proprie mani. Ebbene, questa che a te sembra una disgrazia, per tanti popoli è la vita. Non ti stupire, dunque, se gli uomini buoni sono così tartassati, in ciò sta appunto la loro forza. Un albero non diventa solido e robusto se non è continuamente investito dal vento e sono queste raffiche che ne fanno il fusto compatto e ne rinsaldano le radici, che si abbarbicano con maggior forza al terreno; fragili sono invece quegli alberi che crescono in una valle tranquilla, esposta solo ai raggi del sole. Perciò nel loro stesso interesse, affinchè nulla possa atterrirli, è necessario che i buoni attraversino spesso esperienze dolorose, sopportando con animo sereno ciò che non è di per se stesso un male ma che diventa tale solo per chi non è disposto a sopportarlo.

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