Seneca De Providentia La provvidenza Libro V 6 - 11

Seneca - De Providentia (Sulla provvidenza)
LIBRO V 6, 7, 8, 9, 10, 11 passim
testo latino e traduzione

Nihil cogor, nihil patior inuitus, nec seruio deo sed assentior, eo quidem magis quod scio omnia certa et in aeternum dicta lege decurrere.

7. Fata nos ducunt et quantum cuique temporis restat prima nascentium hora disposuit. Causa pendet ex causa, priuata ac publica longus ordo rerum trahit: ideo fortiter omne patiendum est quia non, ut putamus, incidunt cuncta sed ueniunt. Olim constitutum est quid gaudeas, quid fleas, et quamuis magna uideatur uarietate singulorum uita distingui, summa in unum uenit: accipimus peritura perituri. 8. Quid itaque indignamur? quid querimur? ad hoc parati sumus. Vtatur ut uult suis natura corporibus: nos laeti ad omnia et fortes cogitemus nihil perire de nostro. Quid est boni uiri? praebere se fato. Grande solacium est cum uniuerso rapi; quidquid est quod nos sic uiuere, sic mori iussit, eadem necessitate et deos alligat. Inreuocabilis humana pariter ac diuina cursus uehit: ille ipse omnium conditor et rector scripsit quidem fata, sed sequitur;

semper paret, semel iussit. 9. 'Quare tamen deus tam iniquus in distributione fati fuit ut bonis uiris paupertatem et uulnera et acerba funera adscriberet?' Non potest artifex mutare materiam: ~hoc passa est~. Quaedam separari a quibusdam non possunt, cohaerent, indiuidua sunt. Languida ingenia et in somnum itura aut in uigiliam somno simillimam inertibus nectuntur elementis: ut efficiatur uir cum cura dicendus, fortiore fato opus est. Non erit illi planum iter: sursum oportet ac deorsum eat, fluctuetur ac nauigium in turbido regat. Contra fortunam illi tenendus est cursus; multa accident dura, aspera, sed quae molliat et conplanet ipse.

Ignis aurum probat, miseria fortes uiros. 10. Vide quam alte escendere debeat uirtus: scies illi non per secura uadendum. Ardua prima uia est et quam uix mane recentes enituntur equi; medio est altissima caelo, unde mare et terras ipsi mihi saepe uidere sit timor et pauida trepidet formidine pectus.ultima prona uia est et eget moderamine certo;tunc etiam quae me subiectis excipit undis,ne ferar in praeceps, Tethys solet ima uereri. 11. Haec cum audisset ille generosus adulescens, 'placet' inquit 'uia, escendo; est tanti per ista ire casuro.' Non desinit acrem animum metu territare:utque uiam teneas nulloque errore traharis,per tamen aduersi gradieris cornua auri Haemoniosque arcus uiolentique ora leonis.Post haec ait: 'iunge datos currus: his quibus deterreri me putas incitor; libet illic stare ubi ipse Sol trepidat.' Humilis et inertis est tuta sectari: per alta uirtus it.

Io non mi sento né sono costretto ad alcunché da niente e da nessuno, nulla patisco o faccio contro la mia volontà inquanto il mio volere è il volere di Dio, con cui concordo pienamente e di cui quindi non sono schiavo, perché so che tutto si svolge secondo una legge ben precisa e progettata per l'eternità.

È il destino che ci guida e tutta la nostra vita è stata già stabilita, sin dal momento della nascita, tutte le cause, tutte le situazioni, umane e non umane, sono interdipendenti, concatenate, l'una legata all'altra, in una lunga serie che determina i fatti, sia pubblici che privati. Bisogna dunque accettare tutto con coraggio, giacché, contrariamente a quel che noi crediamo, le cose non capitano a caso ma vengono tutte da una causa. Fin dal tempo dei tempi è stabilito di che uno goda o pianga e benché le vite dei singoli individui siano all'apparenza così diverse fra loro la conclusione, nell'insieme, è una sola: tutto è mortale, noi come le cosse che ci sono date. Perché dunque indignarsi? Perché lamentarsi? Siamo nati alla morte: la natura disponga dunque a suo piacimento di queste vite materiali che appartengono a lei, ma ciò ch'è nostro - l'anima, voglio dire - non morirà, ed è questa convinzione che deve renderci forti e sereni di fronte a tutto. L'uomo buono s'affida al destino: è un grande conforto, e anche un risarcimento, sentirsi trascinati con l'intero universo, suoi compartecipi in tutto. Consoliamoci, pensando come a quella legge di necessità, quale che essa sia, che ha stabilito per noi questa vita e questa morte, sia soggetto Dio stesso: un corso irrevocabile trascina con sé, parimenti, le cose umane e le cose divine.

Dio, padre e reggitore di tutto il creato e di tutti i destini, non può non seguire le leggi ch'egli stesso ha fissato: una volta che le ha ordinate deve rispettarle sino alla fine. "Ma Dio", tu mi chiedi, "nel distribuire agli uomini le varie sorti, ha assegnato ai buoni povertà, ferite e morti premature: non è ingiustizia questa?" Ti rispondo subito. Il punto fondamentale è questo: l'artefice non può cambiare la materia, che per essere tale è soggetta a delle leggi precise, in virtù delle quali certe cose non si possono separare da altre, ma formano insieme ad esse come un tutt'uno, organico e indivisibile. Così, ad esempio, nell'uomo i caratteri deboli, portati al sonno, o ad una veglia molto simile ad esso, sono costituiti, necessariamente, da elementi inerti; per un uomo forte, invece, e degno di rispetto, ci vuole un tessuto più solido, giacché per lui è previsto un cammino difficile, dovrà salire, scendere, essere sballottato dalle onde, reggere la nave nella burrasca, mantenere dritta la rotta contro la sorte avversa, dovrà affrontare molti ostacoli, molti pericoli, ch'egli stesso però riuscirà a rimuovere e ad appianare, proprio perché tale è la sua costituzione.

Come il fuoco prova l'oro, così la sventura gli uomini fortti. Ascolta sino a che punto il valore dell'uomo sia destinato a salire e vedrai perché il suo cammino non può andare per vie sicure e tranquille. Ardua è la strada all'inizio e tale che al primo mattino, anche se freschi, già stanchi sono i cavalli. La cima splende nel cielo più alto tanto ch'io stesso, se appena guardo la terra e il mare, son preso da un vile terrore. L'ultimo tratto discende, ma vuole una guida sicura: Teti, anche lei, nel profondo del mare che sempre m'accoglie palpita allora per me, temendo ch'io possa cadere. Quando quel valoroso giovinetto udì queste parole: "Salgo", esclamò: "mi piace questo cammino; vale la pena di farlo anche a costo di cadere". Ma il padre non cessò d'intimorire quell'animo ardimentoso: Quando tu voglia tenere, senza sbagliare, la strada, tieni diritto il corso conntro le corna del Toro, sino all'arco di Emonio, alle fauci del truce Leone. A queste parole: "Aggioga il carro", fece il giovinetto. "Ciò che dici per spaventarmi mi eccita ancora di più. Voglio salire là, dove lo stesso Sole si sgomenta." Lasciamo ai pigri e ai vili le vie piane e sicure: i valorosi salgono alle vette.

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