SENECA - Lettere a Lucilio Libro VII Testo latino e traduzione


L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM VII
LETTERE A LUCILIO DI SENECA VII
Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione

LIBER SEPTIMUS - LIBRO SETTIMO
LXIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Moleste fero decessisse Flaccum, amicum tuum, plus tamen aequo dolere te nolo. Illud, ut non doleas, vix audebo exigere; et esse melius scio. Sed cui ista firmitas animi continget nisi iam multum supra fortunam elato? illum quoque ista res vellicabit, sed tantum vellicabit. Nobis autem ignosci potest prolapsis ad lacrimas, si non nimiae decucurrerunt, si ipsi illas repressimus. Nec sicci sint oculi amisso amico nec fluant; lacrimandum est, non plorandum. [2] Duram tibi legem videor ponere, cum poetarum Graecorum maximus ius flendi dederit in unum dumtaxat diem, cum dixerit etiam Niobam de cibo cogitasse? Quaeris unde sint lamentationes, unde immodici fletus? per lacrimas argumenta desiderii quaerimus et dolorem non sequimur sed ostendimus; nemo tristis sibi est. O infelicem stultitiam! est aliqua et doloris ambitio. [3] 'Quid ergo?' inquis 'obliviscar amici?' Brevem illi apud te memoriam promittis, si cum dolore mansura est: iam istam frontem ad risum quaelibet fortuita res transferet. Non differo in longius tempus quo desiderium omne mulcetur, quo etiam acerrimi luctus residunt: cum primum te observare desieris, imago ista tristitiae discedet. Nunc ipse custodis dolorem tuum; sed custodienti quoque elabitur, eoque citius quo est acrior desinit. [4] Id agamus ut iucunda nobis amissorum fiat recordatio. Nemo libenter ad id redit quod non sine tormento cogitaturus est, sicut illud fieri necesse est, ut cum aliquo nobis morsu amissorum quos amavimus nomen occurrat; sed hic quoque morsus habet suam voluptatem. [5] Nam, ut dicere solebat Attalus noster, 'sic amicorum defunctorum memoria iucunda est quomodo poma quaedam sunt suaviter aspera, quomodo in vino nimis veteri ipsa nos amaritudo delectat; cum vero intervenit spatium, omne quod angebat exstinguitur et pura ad nos voluptas venit'. [6] Si illi credimus, 'amicos incolumes cogitare melle ac placenta frui est: eorum qui fuerunt retractatio non sine acerbitate quadam iuvat. Quis autem negaverit haec acria quoque et habentia austeritatis aliquid stomachum excitare?' [7] Ego non idem sentio: mihi amicorum defunctorum cogitatio dulcis ac blanda est; habui enim illos tamquam amissurus, amisi tamquam habeam. Fac ergo, mi Lucili, quod aequitatem tuam decet, desine beneficium fortunae male interpretari: abstulit, sed dedit.
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1 Mi dispiace molto per la morte del tuo amico Flacco, ma non vorrei che tu ne soffrissi più del giusto. Non oso pretendere che tu non ti addolori, anche se so che sarebbe meglio. Ma una fermezza del genere può averla solo chi è ormai molto al di sopra della fortuna. La morte pungerà la sua anima, ma la pungerà solamente. Se scoppiamo in lacrime, è perdonabile, purché le lacrime non scorrano a fiotti, e siamo noi stessi a reprimerle. Morto un amico, gli occhi non devono gonfiarsi di pianto, ma neanche esserne privi; bisogna versare qualche lacrima, non singhiozzare disperatamente. 2 Credi che ti imponga una dura legge? Eppure il più grande poeta greco concede il diritto di piangere, ma per un solo giorno, e racconta che anche Niobe si preoccupò del cibo. Domandi da dove nascano i lamenti e i pianti sfrenati? Attraverso le lacrime vogliamo dimostrare il nostro rimpianto e non ci conformiamo al dolore, lo ostentiamo; nessuno è triste per se stesso; che misera stupidità! c'è un'ostentazione anche del dolore. 3 "Come?" chiedi. "Dovrò dimenticarmi di un amico?" È breve il ricordo che gli prometti se dura in te quanto il dolore; alla prima occasione ti si spianerà la fronte al riso. E non rimando a un tempo più lontano, quando si mitiga ogni pena e si attenuano anche i lutti più lancinanti. Appena avrai smesso di spiarti, quest'ombra di tristezza svanirà. Ora sei proprio tu a custodire il tuo dolore; ma esso sfugge anche a chi lo custodisce: più è forte, più rapidamente finisce. 4 Rendiamoci gradevole il ricordo dei nostri morti. Nessuno ripensa volentieri a una cosa che gli procura sofferenza ed è inevitabile che il nome delle persone amate e perdute ci provochi una fitta di angoscia: ma questa fitta comporta un suo piacere. 5 Diceva spesso il nostro Attalo: "Il ricordo degli amici defunti ci è gradito come certi frutti sono gradevolmente acerbi, come nel vino troppo invecchiato non disdegnamo proprio quel suo sapore amarognolo; quando è passato un po' di tempo si spegne ogni sofferenza e subentra un piacere puro." 6 Se vogliamo credergli: "Pensare agli amici che sono in vita è come gustare focaccia e miele: il ricordo di quelli scomparsi, invece, è dolce e amaro al tempo stesso. Chi può negare che anche i cibi acri al palato e asprigni stuzzicano l'appetito?" 7 Non sono d'accordo: per me il pensiero degli amici morti è dolce e gradevole; li avevo e pensavo che li avrei perduti, li ho perduti e penso di averli ancòra.Comportati, dunque, mio caro, in modo adatto al tuo equilibrio, non interpretare in maniera distorta un beneficio della fortuna: ti ha tolto, ma ti ha dato
[8] Ideo amicis avide fruamur quia quamdiu contingere hoc possit incertum est. Cogitemus quam saepe illos reliquerimus in aliquam peregrinationem longinquam exituri, quam saepe eodem morantes loco non viderimus: intellegemus plus nos temporis in vivis perdidisse. [9] Feras autem hos qui neglegentissime amicos habent, miserrime lugent, nec amant quemquam nisi perdiderunt? ideoque tunc effusius maerent quia verentur ne dubium sit an amaverint; sera indicia affectus sui quaerunt. [10] Si habemus alios amicos, male de iis et meremur et existimamus, qui parum valent in unius elati solacium; si non habemus, maiorem iniuriam ipsi nobis fecimus quam a fortuna accepimus: illa unum abstulit, nos quemcumque non fecimus. [11] Deinde ne unum quidem nimis amavit qui plus quam unum amare non potuit. Si quis despoliatus amissa unica tunica complorare se malit quam circumspicere quomodo frigus effugiat et aliquid inveniat quo tegat scapulas, nonne tibi videatur stultissimus? Quem amabas extulisti: quaere quem ames. Satius est amicum reparare quam flere.
8 Godiamo, perciò avidamente della presenza degli amici, perché non sappiamo per quanto tempo ci possa toccare. Basta riflettere a quante volte li abbiamo lasciati per qualche lungo viaggio o come siamo stati tanto senza vederli pur abitando nello stesso luogo; è facile rendersi conto che abbiamo perduto più tempo quando erano vivi. 9 Come si fa a tollerare che uomini tanto trascurati con gli amici piangano poi disperatamente e non amino nessuno, se non dopo averlo perduto? Temono che si dubiti del loro amore e allora si abbandonano alla disperazione, cercano tardive testimonianze del loro affetto. 10 Se abbiamo altri amici e non possono esserci di conforto per la perdita di uno solo, ci comportiamo male con loro e li stimiamo poco; se non ne abbiamo altri, il male che ci siamo inflitti da noi stessi è superiore a quello che ci viene dalla sorte: essa ci ha tolto un solo amico, noi tutti quelli che non ci siamo fatti. 11 E poi chi non sa amare più di uno, non ama eccessivamente neppure quel solo. Se un tale, rimasto a sèguito di un furto sprovvisto dell'unica veste che possedeva, preferisce piangere nudo invece che cercare un modo per scampare al freddo e trovare qualcosa con cui coprirsi le spalle, non ti sembrerebbe completamente pazzo? Hai seppellito una persona che amavi? Cercane un'altra da amare. Invece di piangere, è meglio farsi un nuovo amico.
[12] Scio pertritum iam hoc esse quod adiecturus sum, non ideo tamen praetermittam quia ab omnibus dictum est: finem dolendi etiam qui consilio non fecerat tempore invenit. Turpissimum autem est in homine prudente remedium maeroris lassitudo maerendi: malo relinquas dolorem quam ab illo relinquaris; et quam primum id facere desiste quod, etiam si voles, diu facere non poteris. [13] Annum feminis ad lugendum constituere maiores, non ut tam diu lugerent, sed ne diutius: viris nullum legitimum tempus est, quia nullum honestum. Quam tamen mihi ex illis mulierculis dabis vix retractis a rogo, vix a cadavere revulsis, cui lacrimae in totum mensem duraverint? Nulla res citius in odium venit quam dolor, qui recens consolatorem invenit et aliquos ad se adducit, inveteratus vero deridetur, nec immerito; aut enim simulatus aut stultus est.
12 Quello che sto per aggiungere è trito e ritrito, lo so; ma non voglio tralasciarlo solo perché lo hanno già detto tutti: "Col passare del tempo sente esaurirsi il proprio dolore anche chi non vi ha posto fine volontariamente." Ma è proprio una vergogna per un individuo assennato che il rimedio al dolore sia la stanchezza di soffrire: è meglio che sia tu a lasciare il dolore, non il dolore te; rinuncia subito a un atteggiamento che, anche volendo, non sarai in grado di sostenere a lungo. 13 I nostri padri stabilirono un anno di lutto per le donne, ma come limite massimo, non minimo, al pianto; per gli uomini, invece, la legge non fissa nessun periodo, perché non sarebbe dignitoso. Puoi menzionarmi una sola di quelle donnette che, tirate via a forza dal rogo, allontanate a stento dal cadavere del marito, abbia pianto per tutto un mese? Niente viene più rapidamente a noia del dolore e, se è recente, trova un consolatore e attira qualcuno a sé, ma se è di vecchia data, è deriso, e a ragione: o è simulato o è stupido.
[14] Haec tibi scribo, is qui Annaeum Serenum carissimum mihi tam immodice flevi ut, quod minime velim, inter exempla sim eorum quos dolor vicit. Hodie tamen factum meum damno et intellego maximam mihi causam sic lugendi fuisse quod numquam cogitaveram mori eum ante me posse. Hoc unum mihi occurrebat, minorem esse et multo minorem - tamquam ordinem fata servarent! [15] Itaque assidue cogitemus de nostra quam omnium quos diligimus mortalitate. Tunc ego debui dicere, 'minor est Serenus meus: quid ad rem pertinet? post me mori debet, sed ante me potest'. Quia non feci, imparatum subito fortuna percussit. Nunc cogito omnia et mortalia esse et incerta lege mortalia; hodie fieri potest quidquid umquam potest. [16] Cogitemus ergo, Lucili carissime, cito nos eo perventuros quo illum pervenisse maeremus; et fortasse, si modo vera sapientium fama est recipitque nos locus aliquis, quem putamus perisse praemissus est. Vale.
14 A scriverti queste cose sono proprio io che ho pianto il mio carissimo amico Anneo Sereno senza nessun ritegno e così, mio malgrado, sono da mettere tra gli esempi di uomini sopraffatti dal dolore. Oggi, però condanno il mio comportamento e capisco: non aver mai considerato la possibilità che lui morisse prima di me è stato il motivo fondamentale di quel mio pianto eccessivo. Avevo davanti agli occhi solo questo, che lui era più giovane, molto più giovane di me; come se il destino rispettasse l'ordine di anzianità! 15 Riflettiamo, perciò sempre che tanto noi, quanto tutti i nostri cari, siamo mortali. Allora avrei dovuto dire: "Il mio Sereno è più giovane di me: che importa? Dovrebbe morire dopo di me, ma può anche morire prima." Non l'ho fatto e la sventura si è abbattuta all'improvviso su di me senza che me lo aspettassi. Ora penso che tutto è mortale e che, come tale, non obbedisce a una legge precisa: potrebbe accadere oggi quello che può capitare un giorno qualsiasi. 16 Riflettiamo su questo, carissimo Lucilio: toccherà presto a noi di arrivare là dove lui è già arrivato e noi ce ne affliggiamo; e forse, se i sapienti dicono la verità e c'è un luogo che ci accoglie tutti, l'amico, per noi scomparso, ci ha solo preceduti. Stammi bene. 
LXIV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Fuisti here nobiscum. Potes queri, si here tantum; ideo adieci 'nobiscum'; mecum enim semper es. Intervenerant quidam amici propter quos maior fumus fieret, non hic qui erumpere ex lautorum culinis et terrere vigiles solet, sed hic modicus qui hospites venisse significet. [2] Varius nobis fuit sermo, ut in convivio, nullam rem usque ad exitum adducens sed aliunde alio transiliens. Lectus est deinde liber Quinti Sextii patris, magni, si quid mihi credis, viri, et licet neget Stoici. [3] Quantus in illo, di boni, vigor est, quantum animi! Hoc non in omnibus philosophis invenies: quorundam scripta clarum habentium nomen exanguia sunt. Instituunt, disputant, cavillantur, non faciunt animum quia non habent: cum legeris Sextium, dices, 'vivit, viget, liber es, supra hominem est, dimittit me plenum ingentis fiduciae'. [4] In qua positione mentis sim cum hunc lego fatebor tibi: libet omnis casus provocare, libet exclamare, 'quid cessas, fortuna? congredere: paratum vides'. Illius animum induo qui quaerit ubi se experiatur, ubi virtutem suam ostendat, spumantemque dari pecora inter inertia votis optat aprum aut fulvum descendere monte leonem.
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1 Ieri sei stato insieme a noi. Potresti lamentarti, se si fosse trattato solo di ieri; perciò ho aggiunto "con noi": con me ci sei sempre. Sono venuti certi amici e per loro il fumo è aumentato; non quel fumo che erompe dalle cucine dei ricchi e mette in allarme i vigili, ma quello moderato che indica l'arrivo di ospiti. 2 Abbiamo parlato di tanti argomenti, come si fa durante un banchetto, senza esaurirne nessuno, ma saltando dall'uno all'altro. Poi abbiamo letto il libro di Quinto Sestio padre, un grande uomo, parola mia, e uno stoico, anche se lui non si riconosce tale. 3 Che vigore, buon dio, che temperamento! Non in tutti i filosofi lo troverai: certi, che pure sono famosi, hanno scritto pagine senza nerbo. Ammaestrano, discutono, cavillano, non infondono energia: non ne hanno; se leggi Sestio, dirai: "È vivo, è vigoroso, è libero, è superiore agli altri, mi lascia una notevole carica di fiducia." 4 Ti confesserò qual è il mio stato d'animo quando lo leggo: ho voglia di sfidare tutti gli eventi, ho voglia di gridare: "Perché questo indugio, o sorte? Attacca, sono pronto." Mi rivesto dello spirito di uno che, cercando di dar prova del proprio valore e di sperimentare se stesso, desidera ardentemente di imbattersi tra imbelli armenti in un cinghiale con la bava alla bocca, o che scenda dai monti un fulvo leone.
[5] Libet aliquid habere quod vincam, cuius patientia exercear. Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet tibi beatae vitae magnitudinem et desperationem eius non faciet: scies esse illam in excelso, sed volenti penetrabilem. [6] Hoc idem virtus tibi ipsa praestabit, ut illam admireris et tamen speres. Mihi certe multum auferre temporis solet contemplatio ipsa sapientiae; non aliter illam intueor obstupefactus quam ipsum interim mundum, quem saepe tamquam spectator novus video. [7] Veneror itaque inventa sapientiae inventoresque; adire tamquam multorum hereditatem iuvat. Mihi ista acquisita, mihi laborata sunt. Sed agamus bonum patrem familiae, faciamus ampliora quae accepimus; maior ista hereditas a me ad posteros transeat. Multum adhuc restat operis multumque restabit, nec ulli nato post mille saecula praecludetur occasio aliquid adhuc adiciendi. [8] Sed etiam si omnia a veteribus inventa sunt, hoc semper novum erit, usus et inventorum ab aliis scientia ac dispositio. Puta relicta nobis medicamenta quibus sanarentur oculi: non opus est mihi alia quaerere, sed haec tamen morbis et temporibus aptanda sunt. Hoc asperitas oculorum collevatur; hoc palpebrarum crassitudo tenuatur; hoc vis subita et umor avertitur; hoc acuetur visus: teras ista oportet et eligas tempus, adhibeas singulis modum. Animi remedia inventa sunt ab antiquis; quomodo autem admoveantur aut quando nostri operis est quaerere. [9] Multum egerunt qui ante nos fuerunt, sed non peregerunt. Suspiciendi tamen sunt et ritu deorum colendi. Quidni ego magnorum virorum et imagines habeam incitamenta animi et natales celebrem? quidni ego illos honoris causa semper appellem? Quam venerationem praeceptoribus meis debeo, eandem illis praeceptoribus generis humani, a quibus tanti boni initia fluxerunt. [10] Si consulem videro aut praetorem, omnia quibus honor haberi honori solet faciam: equo desiliam, caput adaperiam, semita cedam. Quid ergo? Marcum Catonem utrumque et Laelium Sapientem et Socraten cum Platone et Zenonem Cleanthenque in animum meum sine dignatione summa recipiam ? Ego vero illos veneror et tantis nominibus semper assurgo. Vale.
5 Avere qualche ostacolo da vincere ed esercitarvi la mia fermezza: ecco quello che mi piace. Sestio ha quest'altra straordinaria dote: ti mostra la grandezza della felicità, ma non ti fa disperare di ottenerla: comprenderai che la felicità si trova molto in alto, ma è accessibile, se uno vuole. 6 Ed è proprio quello che la virtù ti darà: un senso di ammirazione nei suoi confronti e la speranza di raggiungerla. A me la semplice contemplazione della saggezza porta via molto tempo; la guardo stupefatto, come guardo talvolta l'universo che spesso vedo con occhi nuovi. 7 Nutro, perciò venerazione per le scoperte della saggezza e per chi le opera. Mi piace venirne in possesso come se fossero eredità di molti. Queste conquiste, questi sforzi sono stati fatti per me. Ma comportiamoci come un buon padre di famiglia, ampliamo il patrimonio ricevuto; quest'eredità passi accresciuta da me ai posteri. Da fare resta ancora molto e molto ne resterà, e a nessuno, sia pure fra mille secoli, sarà negata la possibilità di aggiungere qualche cosa ancora. 8 Ma anche se gli antichi hanno scoperto tutto, l'applicazione, la conoscenza e l'organizzazione delle scoperte altrui sarà sempre nuova. Supponi che ci siano stati lasciati dei farmaci per sanare gli occhi: non ho bisogno di cercarne altri; ma quelli che ho devo adattarli alle malattie e alle circostanze. Uno allevia il bruciore agli occhi; un altro attenua il gonfiore delle palpebre; con questo si può stroncare uno spasmo improvviso e l'eccessiva lacrimazione, quest'altro acuisce la vista; bisogna poi triturare le erbe mediche, scegliere il momento giusto per la cura e dosarle secondo le necessità del paziente. Gli antichi hanno trovato farmaci per i mali dell'anima; come o quando vanno adoperati spetta a noi ricercarlo. 9 I nostri predecessori hanno fatto molto, ma non hanno fatto tutto. Pure vanno rispettati e venerati come dèi. Perché non dovrei tenere i ritratti dei grandi uomini come sprone morale e non dovrei celebrarne l'anniversario della nascita? Perché non dovrei menzionarli sempre a titolo di onore? Devo un'identica venerazione ai miei maestri e a loro, maestri dell'umanità: sono stati loro la fonte di un bene così prezioso. 10 Se incontro un console o un pretore, gli tributo l'onore dovuto alla sua carica: balzo giù da cavallo, mi scopro il capo, cedo il passo. Ma come? I due Catoni, Lelio il saggio, Socrate e Platone, Zenone e Cleante li accoglierò nel mio animo senza il massimo rispetto? Anzi, li venero e mi alzo sempre in piedi di fronte a nomi tanto importanti. Stammi bene. 
LXV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Hesternum diem divisi cum mala valetudine: antemeridianum illa sibi vindicavit, postmeridiano mihi cessit. Itaque lectione primum temptavi animum; deinde, cum hanc recepisset, plus illi imperare ausus sum, immo permittere: aliquid scripsi et quidem intentius quam soleo, dum cum materia difficili contendo et vinci nolo, donec intervenerunt amici qui mihi vim afferrent et tamquam aegrum intemperantem coercerent. [2] In locum stili sermo successit, ex quo eam partem ad te perferam quae in lite est. Te arbitrum addiximus. Plus negotii habes quam existimas: triplex causa est. Dicunt, ut scis, Stoici nostri duo esse in rerum natura ex quibus omnia fiant, causam et materiam. Materia iacet iners, res ad omnia parata, cessatura si nemo moveat; causa autem, id est ratio, materiam format et quocumque vult versat, ex illa varia opera producit. Esse ergo debet unde fiat aliquid, deinde a quo fiat: hoc causa est, illud materia. [3] Omnis ars naturae imitatio est; itaque quod de universo dicebam ad haec transfer quae ab homine facienda sunt. Statua et materiam habuit quae pateretur artificem, et artificem qui materiae daret faciem; ergo in statua materia aes fuit, causa opifex. Eadem condicio rerum omnium est: ex eo constant quod fit, et ex eo quod facit.
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1 Ieri la giornata l'ho divisa con la malattia: il mattino se l'è preso lei, nel pomeriggio ho avuto la meglio io. E così, dapprima ho messo alla prova il mio spirito con la lettura, poi, visto che l'aveva accolta bene, ho osato imporgli, anzi, permettergli di più: ho scritto qualcosa e con più zelo del solito, alle prese con un argomento difficile senza volermi arrendere; ma poi sono arrivati degli amici e con la forza mi hanno costretto a smettere come se fossi un malato recalcitrante. 2 Allo scrivere è subentrata la conversazione: te ne riferirò la parte controversa. Come arbitro abbiamo designato te. Hai più daffare di quanto immagini: la controversia è triplice. I nostri Stoici, ti è ben noto, sostengono che in natura ci sono due elementi da cui deriva tutto, la causa e la materia. La materia giace inerte, una cosa pronta a ogni trasformazione, ma destinata alla stasi se nessuno la muove; la causa, invece, cioè la ragione, plasma la materia, la modifica come vuole e ne ricava opere diverse. Deve esserci quindi un elemento di cui una cosa è fatta e uno da cui è fatta: materia e causa. 3 Ogni arte è imitazione della natura; perciò quello che dicevo dell'universo trasferiscilo al campo operativo umano. Una statua ha avuto e la materia a disposizione dell'artista e l'artista che ha dato una forma alla materia; dunque nella statua la materia è stata il bronzo, la causa lo scultore. Identico è il modo di essere di tutte le cose: risultano dalla somma di ciò che subisce l'azione e di ciò che agisce.
[4] Stoicis placet unam causam esse, id quod facit. Aristoteles putat causam tribus modis dici: 'prima' inquit 'causa est ipsa materia, sine qua nihil potest effici; secunda opifex; tertia est forma, quae unicuique operi imponitur tamquam statuae'. Nam hanc Aristoteles 'idos' vocat. 'Quarta quoque' inquit 'his accedit, propositum totius operis.' [5] Quid sit hoc aperiam. Aes prima statuae causa est; numquam enim facta esset, nisi fuisset id ex quo funderetur ducereturve. Secunda causa artifex est; non potuisset enim aes illud in habitum statuae figurari, nisi accessissent peritae manus. Tertia causa est forma; neque enim statua ista 'doryphoros' aut 'diadumenos' vocaretur, nisi haec illi esset impressa facies. Quarta causa est faciendi propositum; nam nisi hoc fuisset, facta non esset. [6] Quid est propositum? quod invitavit artificem, quod ille secutus fecit: vel pecunia est haec, si venditurus fabricavit, vel gloria, si laboravit in nomen, vel religio, si donum templo paravit. Ergo et haec causa est propter quam fit: an non putas inter causas facti operis esse numerandum quo remoto factum non esset?
4 Per gli Stoici la causa è una sola, precisamente ciò che agisce. Aristotele ritiene che la causa si articoli in tre modi: "La prima causa," dice, "è proprio la materia, senza la quale non può essere creato nulla; la seconda l'artefice; la terza è la forma, che viene imposta alle singole opere come alla statua." Aristotele la chiama idos. "A queste se ne aggiunge una quarta, il fine dell'intera opera." 5 Mi spiego meglio. La prima causa della statua è il bronzo; poiché la statua non avrebbe mai potuto venire alla luce se non fosse esistita la materia da cui essere fusa o ricavata. La seconda causa è l'artefice: il bronzo non avrebbe potuto configurarsi in una statua, se non fossero intervenute mani esperte. La terza causa è la forma: la statua non si chiamerebbe "Doriforo" o "Diadumeno" se non le fosse stato conferito quell'aspetto. La quarta causa è il fine, senza il quale la statua non sarebbe stata plasmata. 6 Cos'è il fine? La spinta che ha sollecitato l'artefice e a cui egli ha obbedito per creare la sua opera: può essere il denaro, se ha lavorato per vendere; o la gloria, se ha faticato per farsi un nome; o la devozione religiosa, se ha preparato un dono per un tempio. Quindi c'è anche questa tra le cause motivanti: o ti rifiuti di includere tra le cause di una opera anche quell'elemento senza il quale non sarebbe stata fatta?
[7] His quintam Plato adicit exemplar, quam ipse 'idean' vocat; hoc est enim ad quod respiciens artifex id quod destinabat effecit. Nihil autem ad rem pertinet utrum foris habeat exemplar ad quod referat oculos an intus, quod ibi ipse concepit et posuit. Haec exemplaria rerum omnium deus intra se habet numerosque universorum quae agenda sunt et modos mente complexus est; plenus his figuris est quas Plato 'ideas' appellat, immortales, immutabiles, infatigabiles. Itaque homines quidem pereunt, ipsa autem humanitas, ad quam homo effingitur, permanet, et hominibus laborantibus, intereuntibus, illa nihil patitur. [8] Quinque ergo causae sunt, ut Plato dicit: id ex quo, id a quo, id in quo, id ad quod, id propter quod; novissime id quod ex his est. Tamquam in statua - quia de hac loqui coepimus - id ex quo aes est, id a quo artifex est, id in quo forma est quae aptatur illi, id ad quod exemplar est quod imitatur is qui facit, id propter quod facientis propositum est, id quod ex istis est ipsa statua . [9] Haec omnia mundus quoque, ut ait Plato, habet: facientem, hic deus est; ex quo fit, haec materia est; formam, haec est habitus et ordo mundi quem videmus; exemplar, scilicet ad quod deus hanc magnitudinem operis pulcherrimi fecit; propositum, propter quod fecit. [10] Quaeris quod sit propositum deo? bonitas. Ita certe Plato ait: 'quae deo faciendi mundum fuit causa? bonus est; bono nulla cuiusquam boni invidia est; fecit itaque quam optimum potuit'. Fer ergo iudex sententiam et pronuntia quis tibi videatur verisimillimum dicere, non quis verissimum dicat; id enim tam supra nos est quam ipsa veritas. 7 A queste Platone ne aggiunge una quinta, il modello, che egli chiama idea; guardando a esso l'artista ha realizzato quanto si proponeva. È assolutamente secondario se tale modello sia esterno, visivo, o se sia interno, concettuale e precostituito. Dio ha dentro di sé i modelli di tutti gli esseri e ha abbracciato con la mente le misure e i modi di tutto il creabile; egli è pieno di questi modelli che Platone chiama idee immortali, immutabili, instancabili. Gli uomini muoiono, ma l'umanità su cui l'uomo è modellato, continua a esistere; e mentre gli uomini si affannano e scompaiono, essa non subisce nessuna perdita. 8 Cinque sono, dunque, le cause, come dice Platone: ciò da cui (materia), ciò dal quale (agente), ciò in cui (forma), ciò a cui (idea), ciò per cui (fine). In ultimo c'è il risultato che ne scaturisce. Nella statua (visto che siamo partiti da questo esempio) la materia è il bronzo, l'agente è lo scultore, la forma è la figura che le viene data, l'idea è il modello imitato dallo scultore, il fine è la ragione di chi agisce, il risultato è la statua stessa. 9 Anche l'universo, secondo Platone, presenta tutte queste componenti: l'artefice, cioè dio; il sostrato, cioè la materia; la forma, cioè l'aspetto e l'ordine del mondo che abbiamo sotto gli occhi; il modello, su cui dio ha creato un'opera tanto bella e grandiosa; il fine per cui l'ha creata. 10 Mi chiedi che cosa ha mosso dio? La bontà. Dice Platone: "Per quale motivo dio ha creato il mondo? Egli è buono e se uno è buono non è geloso di nessun bene; di conseguenza l'ha creato nel miglior modo possibile." Pronuncia nella tua veste di giudice la sentenza e dichiara chi secondo te sostiene la tesi più verisimile, non quella vera in assoluto; ciò è al di sopra di noi quanto la verità stessa.
[11] Haec quae ab Aristotele et Platone ponitur turba causarum aut nimium multa aut nimium pauca comprendit. Nam si quocumque remoto quid effici non potest, id causam iudicant esse faciendi, pauca dixerunt. Ponant inter causas tempus: nihil sine tempore potest fieri. Ponant locum: si non fuerit ubi fiat aliquid, ne fiet quidem. Ponant motum: nihil sine hoc nec fit nec perit; nulla sine motu ars, nulla mutatio est. [12] Sed nos nunc primam et generalem quaerimus causam. Haec simplex esse debet; nam et materia simplex est. Quaerimus quid sit causa? ratio scilicet faciens, id est deus; ista enim quaecumque rettulistis non sunt multae et singulae causae, sed ex una pendent, ex ea quae facit. [13] Formam dicis causam esse? hanc imponit artifex operi: pars causae est, non causa. Exemplar quoque non est causa, sed instrumentum causae necessarium. Sic necessarium est exemplar artifici quomodo scalprum, quomodo lima: sine his procedere ars non potest, non tamen hae partes artis aut causae sunt. [14] 'Propositum' inquit 'artificis, propter quod ad faciendum aliquid accedit, causa est.' Ut sit causa, non est efficiens causa, sed superveniens. Hae autem innumerabiles sunt: nos de causa generali quaerimus. Illud vero non pro solita ipsis subtilitate dixerunt, totum mundum et consummatum opus causam esse; multum enim interest inter opus et causam operis.
11 Questa massa di cause enunciate da Platone e Aristotele pecca per eccesso o per difetto. Per difetto, se essi ritengono causa efficiente qualunque elemento senza il quale non può farsi niente. Tra le cause devono mettere il tempo: niente può farsi senza il tempo. Lo spazio: se manca il luogo dove una cosa può avvenire, non avverrà neppure. Il moto: senza di esso niente nasce o muore; senza il moto non c'è nessuna attività, nessun mutamento. 12 Ma noi ora cerchiamo la causa prima e universale. Deve essere semplice, poiché anche la materia è semplice. La domanda è: qual è la causa? Ovviamente la ragione creatrice, cioè dio; tutte quelle che hai riferito non sono molteplici e singole cause, ma dipendono tutte da una sola, da quella efficiente. 13 Dici che la forma è una causa? È l'artista che la imprime all'opera: dunque, è una parte della causa, non la causa. Anche il modello non è una causa, ma un mezzo indispensabile alla causa. Il modello è indispensabile all'artista come lo scalpello, come la lima: senza di essi l'arte non può procedere e tuttavia non sono parti o cause dell'arte. 14 "Il fine," si dice, "per cui l'artista si accinge a fare qualcosa è una causa." Sarà una causa, ma accessoria, non efficiente. Le cause accessorie sono innumerevoli: noi cerchiamo la causa universale. Platone e Aristotele venendo meno al loro consueto acume hanno affermato che l'intero universo, in quanto opera perfetta, è una causa; ma c'è una grande differenza fra l'opera e la causa dell'opera.
[15] Aut fer sententiam aut, quod facilius in eiusmodi rebus est, nega tibi liquere et nos reverti iube. 'Quid te' inquis 'delectat tempus inter ista conterere, quae tibi nullum affectum eripiunt, nullam cupiditatem abigunt?' Ego quidem [peiora] illa ago ac tracto quibus pacatur animus, et me prius scrutor, deinde hunc mundum. [16] Ne nunc quidem tempus, ut existimas, perdo; ista enim omnia, si non concidantur nec in hanc subtilitatem inutilem distrahantur, attollunt et levant animum, qui gravi sarcina pressus explicari cupit et reverti ad illa quorum fuit. Nam corpus hoc animi pondus ac poena est; premente illo urguetur, in vinclis est, nisi accessit philosophia et illum respirare rerum naturae spectaculo iussit et a terrenis ad divina dimisit. Haec libertas eius est, haec evagatio; subducit interim se custodiae in qua tenetur et caelo reficitur. [17] Quemadmodum artifices [ex] alicuius rei subtilioris quae intentione oculos defetigat, si malignum habent et precarium lumen, in publicum prodeunt et in aliqua regione ad populi otium dedicata oculos libera luce delectant, sic animus in hoc tristi et obscuro domicilio clusus, quotiens potest, apertum petit et in rerum naturae contemplatione requiescit. [18] Sapiens assectatorque sapientiae adhaeret quidem in corpore suo, sed optima sui parte abest et cogitationes suas ad sublimia intendit. Velut sacramento rogatus hoc quod vivit stipendium putat; et ita formatus est ut illi nec amor vitae nec odium sit, patiturque mortalia quamvis sciat ampliora superesse. [19] Interdicis mihi inspectione rerum naturae, a toto abductum redigis in partem? Ego non quaeram quae sint initia universorum? quis rerum formator? quis omnia in uno mersa et materia inerti convoluta discreverit? Non quaeram quis sit istius artifex mundi? qua ratione tanta magnitudo in legem et ordinem venerit? quis sparsa collegerit, confusa distinxerit, in una deformitate iacentibus faciem diviserit? unde lux tanta fundatur? ignis sit, an aliquid igne lucidius? [20] Ego ista non quaeram? ego nesciam unde descenderim? semel haec mihi videnda sint, an saepe nascendum? quo hinc iturus sim? quae sedes exspectet animam solutam legibus servitutis humanae? Vetas me caelo interesse, id est iubes me vivere capite demisso? [21] Maior sum et ad maiora genitus quam ut mancipium sim mei corporis, quod equidem non aliter aspicio quam vinclum aliquod libertati meae circumdatum; hoc itaque oppono fortunae, in quo resistat, nec per illud ad me ullum transire vulnus sino. Quidquid in me potest iniuriam pati hoc est in hoc obnoxio domicilio animus liber habitat. [22] Numquam me caro ista compellet ad metum, numquam ad indignam bono simulationem; numquam in honorem huius corpusculi mentiar. Cum visum erit, distraham cum illo societatem; et nunc tamen, dum haeremus, non erimus aequis partibus socii: animus ad se omne ius ducet. Contemptus corporis sui certa libertas est.
15 A questo punto pronunciati, oppure - in casi simili è più facile - di' che la faccenda non è chiara e aggiorna la discussione. "Che gusto ci provi," potresti dire, "a passare il tempo in codeste dispute che non ti liberano di nessuna passione, non allontanano nessun desiderio?" Generalmente mi occupo di quegli argomenti più degni che acquietano l'anima, e prima studio me stesso, poi questo mondo. 16 Ma nemmeno ora perdo tempo, come pensi tu; tutte queste discussioni, se non si spezzettano e non si disperdono in inutili sottigliezze, sollevano e alleviano l'anima che, oppressa da un grave fardello, desidera liberarsene e ritornare alle sue origini. Il corpo è il fardello e la pena dell'anima: sotto il suo peso l'anima è oppressa, in catene, se non interviene la filosofia e non la induce a riprendere fiato di fronte allo spettacolo della natura e la allontana dalle cose terrene verso quelle divine. Questa è la sua libertà, questa la sua evasione; si sottrae al carcere in cui è prigioniera e si rigenera nel cielo. 17 Come gli artigiani, quando fanno un lavoro di precisione e di attenzione che stanca la vista, se hanno un lume debole e incerto, escono tra la gente e ristorano gli occhi in piena luce in qualche luogo destinato al pubblico svago; così l'anima chiusa in questa triste e buia dimora, tutte le volte che può esce all'aperto e si riposa nella contemplazione della natura. 18 Il saggio e chi coltiva la saggezza sono vincolati strettamente al proprio corpo, ma la parte migliore di se stessi è lontana e rivolge i propri pensieri a cose elevate. Come un soldato che ha prestato giuramento, egli considera la vita un servizio militare; e la sua formazione è tale che non ama la vita e non la odia, e si adatta al suo destino mortale pur sapendo che lo aspetta un destino migliore. 19 Mi proibisci l'osservazione della natura e mi allontani dal tutto, limitandomi alla parte? Non cercherò quali siano i principî dell'universo? Chi ha dato forma alle cose? Chi ha separato l'insieme degli elementi immersi in un tutt'uno e avviluppati in una materia inerte? Non cercherò chi è l'artefice di questo mondo? Per quale disegno tanta grandezza è arrivata a una legge e a un ordine? Chi ha raccolto gli elementi sparsi, ha distinto quelli confusi, ha dato un'identità a ciò che giaceva in un'unica massa informe? Da dove si diffonde tanto fulgore di luce? Se è fuoco o qualcosa più splendente del fuoco? 20 Non ricercherò tutto questo? Non conoscerò la mia origine? Se è destino che io veda una sola volta questo mondo o che rinasca più volte? Dove andrò allontanandomi da qui? Quale sede attende l'anima libera dalle leggi dell'umana schiavitù? Mi proibisci di essere partecipe del cielo, ossia mi imponi di vivere a testa bassa? 21 Sono troppo grande e nato per un destino troppo alto per essere schiavo del mio corpo: lo vedo unicamente come una catena che limita la mia libertà; lo oppongo alla sorte, perché vi si arresti contro e non permetto che nessun colpo, trapassandolo, arrivi a me. Il corpo è la sola parte di me che può subire danno: in questa fragile dimora risiede un'anima libera. 22 Mai questa carne mi indurrà alla paura, mai alla simulazione, indegna di un uomo onesto; non mentirò mai per riguardo a questo corpiciattolo. Quando mi sembrerà opportuno, romperò ogni rapporto con esso; ma anche ora, finché siamo uniti, non saremo soci alla pari: l'anima reclamerà per sé ogni diritto. Il disprezzo del proprio corpo è garanzia di libertà.
[23] Ut ad propositum revertar, huic libertati multum conferet et illa de qua modo loquebamur inspectio; nempe universa ex materia et ex deo constant. Deus ista temperat quae circumfusa rectorem sequuntur et ducem. Potentius autem est ac pretiosius quod facit, quod est deus, quam materia patiens dei. [24] Quem in hoc mundo locum deus obtinet, hunc in homine animus; quod est illic materia, id in nobis corpus est. Serviant ergo deteriora melioribus; fortes simus adversus fortuita; non contremescamus iniurias, non vulnera, non vincula, non egestatem. Mors quid est? aut finis aut transitus. Nec desinere timeo - idem est enim quod non coepisse -, nec transire, quia nusquam tam anguste ero. Vale.
23 Per ritornare al nostro tema, a questa libertà servirà molto anche quella osservazione della natura di cui parlavamo or ora; tutto è formato appunto di materia e di dio. Dio regola gli esseri che, sparsi tutt'intorno, seguono colui che li governa e li guida. Chi agisce, cioè dio, è più potente e prezioso della materia, la quale subisce l'azione di dio. 24 La posizione che dio occupa nell'universo, l'anima la occupa nell'uomo; in noi il corpo rappresenta quello che là rappresenta la materia. Le cose inferiori siano sottomesse a quelle superiori; siamo forti contro la sorte; non temiamo le offese, le ferite, il carcere, la povertà. Cos'è la morte? O la fine o un passaggio. E io non temo di finire (è lo stesso che non aver cominciato) e nemmeno di passare; in nessun luogo avrò confini tanto ristretti. Stammi bene. 
LXVI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Claranum condiscipulum meum vidi post multos annos: non, puto, exspectas ut adiciam senem, sed mehercules viridem animo ac vigentem et cum corpusculo suo colluctantem. Inique enim se natura gessit et talem animum male collocavit; aut fortasse voluit hoc ipsum nobis ostendere, posse ingenium fortissimum ac beatissimum sub qualibet cute latere. Vicit tamen omnia impedimenta et ad cetera contemnenda a contemptu sui venit. [2] Errare mihi visus est qui dixit gratior et pulchro veniens e corpore virtus .Non enim ullo honestamento eget: ipsa magnum sui decus est et corpus suum consecrat. Aliter certe Claranum nostrum coepi intueri: formosus mihi videtur et tam rectus corpore quam est animo. [3] Potest ex casa vir magnus exire, potest et ex deformi humilique corpusculo formosus animus ac magnus. Quosdam itaque mihi videtur in hoc tales natura generare, ut approbet virtutem omni loco nasci. Si posset per se nudos edere animos, fecisset; nunc quod amplius est facit: quosdam enim edit corporibus impeditos, sed nihilominus perrumpentis obstantia. [4] Claranus mihi videtur in exemplar editus, ut scire possemus non deformitate corporis foedari animum, sed pulchritudine animi corpus ornari. Quamvis autem paucissimos una fecerimus dies, tamen multi nobis sermones fuerunt, quos subinde egeram et ad te permittam. [5] Hoc primo die quaesitum est, quomodo possint paria bona esse, si triplex eorum condicio est. Quaedam, ut nostris videtur, prima bona sunt, tamquam gaudium, pax, salus patriae; quaedam secunda, in materia infelici expressa, tamquam tormentorum patientia et in morbo gravi temperantia. Illa bona derecto optabimus nobis, haec, si necesse erit. Sunt adhuc tertia, tamquam modestus incessus et compositus ac probus vultus et conveniens prudenti viro gestus. [6] Quomodo ista inter se paria esse possunt, cum alia optanda sint, alia aversanda? Si volumus ista distinguere, ad primum bonum revertamur et consideremus id quale sit. Animus intuens vera, peritus fugiendorum ac petendorum, non ex opinione sed ex natura pretia rebus imponens, toti se inserens mundo et in omnis eius actus contemplationem suam mittens, cogitationibus actionibusque intentus ex aequo, magnus ac vehemens, asperis blandisque pariter invictus, neutri se fortunae summittens, supra omnia quae contingunt acciduntque eminens, pulcherrimus, ordinatissimus cum decore tum viribus, sanus ac siccus, imperturbatus intrepidus, quem nulla vis frangat, quem nec attollant fortuita nec deprimant - talis animus virtus est
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1 Ho rivisto dopo molti anni un mio compagno di scuola, Clarano: vecchio, è superfluo aggiungerlo, ma energico e vigoroso di spirito e in perpetua lotta col suo fragile corpo. La natura è stata ingiusta e ha alloggiato male un'anima come la sua; o forse ci ha voluto dimostrare proprio questo: che sotto qualsiasi spoglia può nascondersi un ingegno straordinariamente forte e fecondo. Lui comunque ha superato ogni ostacolo e dal disprezzo di sé è arrivato a disprezzare tutto il resto. 2 Secondo me Virgilio sbaglia quando scrive: La virtù è più gradita se proviene da un bel corpo. Alla virtù non servono ornamenti: è bella di per sé e rende sacro il corpo in cui risiede. Il nostro Clarano ho cominciato a guardarlo con occhi diversi: mi sembra bello e perfetto di corpo come lo è di anima. 3 Un grand'uomo può sbucare da una capanna e un'anima bella e generosa da un corpiciattolo deforme e debole. La natura, ritengo, vuol dimostrare che la virtù nasce dovunque e perciò genera degli individui come questi. Potendolo, avrebbe creato anime senza corpo; ma fa di più: crea uomini menomati nel fisico, eppure capaci di abbattere ogni ostacolo. 4 Per me Clarano è stato generato come esempio: possiamo così capire che non è la deformità del corpo a rendere brutta l'anima, ma la bellezza dell'anima a far bello il corpo. Siamo stati insieme solo pochissimi giorni, e tuttavia abbiamo parlato di molti argomenti: a mano a mano li trascriverò per mandarteli. 5 Ecco la discussione del primo giorno: come possono i beni essere sullo stesso piano se si distinguono in tre categorie. Alcuni, secondo gli Stoici, appartengono alla prima categoria, come la gioia, la pace, la salvezza della patria; altri alla seconda e si manifestano in situazioni difficili, come la capacità di sopportare i supplizi e un sereno equilibrio nelle malattie gravi. Ai primi aspireremo senz'altro, ai secondi solo in caso di necessità. Vi è poi la terza categoria: come la compostezza del portamento, una faccia serena e onesta, un modo di muoversi adatto al saggio. 6 Se alcuni di questi beni si devono desiderare e altri respingere, come possono essere sullo stesso piano? Se vogliamo distinguerli, ritorniamo al bene primo ed esaminiamo quale sia. Un'anima rivolta alla verità, consapevole di ciò che va fuggito e di ciò che va cercato, capace di valutare le cose non in base a pregiudizi, ma in base alla natura, un'anima che s'inserisce nella totalità dell'universo, che ne scruta ogni manifestazione, ugualmente attenta ai pensieri e alle opere, grande e impetuosa, non domata né da minacce, né da lusinghe e neanche schiava della buona o della cattiva sorte, al di sopra del contingente e dell'accidentale, un'anima di straordinaria bellezza, con un perfetto equilibrio di dignità e di forza, sana e vigorosa, imperturbabile e intrepida, che nessuna forza riesce a spezzare, che non si lascia esaltare né deprimere dagli imprevisti: un'anima così, ecco la virtù
. [7] Haec eius est facies, si sub unum veniat aspectum et semel tota se ostendat. Ceterum multae eius species sunt, quae pro vitae varietate et pro actionibus explicantur: nec minor fit aut maior ipsa. Decrescere enim summum bonum non potest nec virtuti ire retro licet; sed in alias atque alias qualitates convertitur, ad rerum quas actura est habitum figurata. [8] Quidquid attigit in similitudinem sui adducit et tinguit; actiones, amicitias, interdum domos totas quas intravit disposuitque condecorat; quidquid tractavit, id amabile, conspicuum, mirabile facit. Itaque vis eius et magnitudo ultra non potest surgere, quando incrementum maximo non est: nihil invenies rectius recto, non magis quam verius vero, quam temperato temperatius. [9] Omnis in modo est virtus; modo certa mensura est; constantia non habet quo procedat, non magis quam fiducia aut veritas aut fides. Quid accedere perfecto potest? nihil, aut perfectum non erat cui accessit; ergo ne virtuti quidem, cui si quid adici potest, defuit. Honestum quoque nullam accessionem recipit; honestum est enim propter ista quae rettuli. Quid porro? decorum et iustum et legitimum non eiusdem esse formae putas, certis terminis comprehensum? Crescere posse imperfectae rei signum est. [10] Bonum omne in easdem cadit leges: iuncta est privata et publica utilitas, tam mehercules quam inseparabile est laudandum petendumque. Ergo virtutes inter se pares sunt et opera virtutis et omnes homines quibus illae contigere. [11] Satorum vero animaliumque virtutes, cum mortales sint, fragiles quoque caducaeque sunt et incertae; exsiliunt residuntque et ideo non eodem pretio aestimantur. Una inducitur humanis virtutibus regula; una enim est ratio recta simplexque. Nihil est divino divinius, caelesti caelestius. [12] Mortalia minuuntur cadunt, deteruntur crescunt, exhauriuntur implentur; itaque illis in tam incerta sorte inaequalitas est: divinorum una natura est. Ratio autem nihil aliud est quam in corpus humanum pars divini spiritus mersa; si ratio divina est, nullum autem bonum sine ratione est, bonum omne divinum est. Nullum porro inter divina discrimen est; ergo nec inter bona. Paria itaque sunt et gaudium et fortis atque obstinata tormentorum perpessio; in utroque enim eadem est animi magnitudo, in altero remissa et laxa, in altero pugnat et intenta. [13] Quid? tu non putas parem esse virtutem eius qui fortiter hostium moenia expugnat, et eius qui obsidionem patientissime sustinet? [et] Magnus Scipio, qui Numantiam cludit et comprimit cogitque invictas manus in exitium ipsas suum verti, magnus ille obsessorum animus, qui scit non esse clusum cui mors aperta est, et in complexu libertatis exspirat. Aeque reliqua quoque inter se paria sunt, tranquillitas, simplicitas, liberalitas, constantia, aequanimitas, tolerantia; omnibus enim istis una virtus subest, quae animum rectum et indeclinabilem praestat.
Questo sarebbe il suo aspetto, se mai potesse assumere un'unica figura e mostrarsi una volta in tutto il suo insieme. E invece molte sono le sembianze della virtù, determinate dalle azioni e dai molteplici casi della vita: di per sé non diventa più grande o più piccola. Il sommo bene non può decrescere e la virtù non può retrocedere; le sue caratteristiche le muta di volta in volta, adeguandosi al tipo di azioni che deve compiere. 8 Trasforma a propria somiglianza e colora di sé tutto ciò che tocca; adorna azioni, amicizie, talvolta le case in cui è penetrata e nelle quali ha riportato l'armonia; tutto ciò che tocca lo rende piacevole, stupendo, straordinario. Perciò la sua forza e la sua grandezza non possono aumentare: il massimo non comporta crescita; non puoi trovare nulla di più giusto della giustizia, di più vero della verità, di più moderato della moderazione. 9 Ogni virtù consiste nella misura; e la misura ha una sua grandezza ben definita; la costanza non può andare oltre se stessa, come la fiducia o la verità o la fede. Che cosa può aggiungersi a ciò che è perfetto? Niente. O non sarebbe perfetto se comportasse una qualche aggiunta; lo stesso è per la virtù: se le si può aggiungere qualcosa, vuol dire che le mancava. Anche l'onestà non comporta aggiunte; è onestà per i motivi che ho detto. E allora? Non pensi che dignità, giustizia, legittimità, abbiano la stessa caratteristica, siano, cioè, comprese entro precisi limiti? Essere suscettibile di crescita è indizio di una cosa imperfetta. 10 Ogni bene obbedisce alle stesse leggi: utile pubblico e utile privato sono uniti, per dio, come è inseparabile ciò che è lodevole da ciò cui bisogna aspirare. Quindi le virtù sono tutte sullo stesso piano, come le azioni dettate dalla virtù e tutti gli uomini che esercitano la virtù. 11 Le virtù delle piante e degli animali sono mortali e perciò sono fragili, caduche e incerte, conoscono impennate e flessioni, perciò ne oscilla il valore. Una sola è la regola che si applica alle virtù umane: una sola, difatti, è la ragione retta e semplice. Niente è più divino del divino, più celeste del celeste. 12 Le cose mortali decadono e si estinguono, si logorano, si sviluppano, si esauriscono, si colmano; sono diseguali perché hanno una sorte tanto incerta: la natura delle cose divine, invece, è una sola. La ragione non è che una scintilla dello spirito divino che si trova nel corpo umano; se la ragione è divina, e non esiste bene senza ragione, ogni bene è divino. Tra le cose divine, inoltre, non c'è nessuna differenza, quindi, non c'è neppure tra i beni. Perciò la gioia e la sopportazione coraggiosa e ferma dei supplizi sono sullo stesso piano; in entrambe è insita la stessa grandezza d'animo, nell'una mite e pacata, nell'altra pugnace e veemente. 13 E allora? Secondo te il soldato che espugna coraggiosamente le mura nemiche non è valoroso come il soldato che sostiene un assedio con incrollabile fermezza? È grande Scipione che stringe d'assedio Numanzia e ne obbliga i cittadini invitti a darsi la morte, ma è grande anche il coraggio degli assediati: sanno che se uno può darsi la morte ha una via d'uscita e spirano abbracciando la libertà. Ugualmente anche le altre virtù sono sullo stesso piano, serenità, lealtà, liberalità, costanza, moderazione, tolleranza; hanno tutte come base la virtù, garanzia di un'anima onesta e incrollabile.
[14] 'Quid ergo? nihil interest inter gaudium et dolorum inflexibilem patientiam?' Nihil, quantum ad ipsas virtutes: plurimum inter illa in quibus virtus utraque ostenditur; in altero enim naturalis est animi remissio ac laxitas, in altero contra naturam dolor. Itaque media sunt haec quae plurimum intervalli recipiunt: virtus in utroque par est. [15] Virtutem materia non mutat: nec peiorem facit dura ac difficilis nec meliorem hilaris et laeta; necessest ergo par sit. In utraque enim quod fit aeque recte fit, aeque prudenter, aeque honeste; ergo aequalia sunt bona, ultra quae nec hic potest se melius in hoc gaudio gerere nec ille melius in illis cruciatibus; duo autem quibus nihil fieri melius potest paria sunt. [16] Nam si quae extra virtutem posita sunt aut minuere illam aut augere possunt, desinit unum bonum esse quod honestum. Si hoc concesseris, omne honestum per;t. Quare ? dicam: quia nihil honestum est quod ab invito, quod a coacto fit; omne honestum voluntarium est. Admisce illi pigritiam, querelam, tergiversationem, metum: quod habet in se optimum perdidit, sibi placere. Non potest honestum esse quod non est liberum; nam quod timet servit. [17] Honestum omne securum est, tranquillum est: si recusat aliquid, si complorat, si malum iudicat, perturbationem recepit et in magna discordia volutatur; hinc enim species recti vocat, illinc suspicio mali retrahit. Itaque qui honeste aliquid facturus est, quidquid opponitur, id etiam si incommodum putat, malum non putet, velit, libens faciat. Omne honestum iniussum incoactumque est, sincerum et nulli malo mixtum.
14 "Ma come? Non c'è nessuna differenza tra la gioia e la capacità di sopportare con fermezza il dolore?" Nessuna, quanto a virtù: moltissima nelle manifestazioni dei due tipi di virtù; in un caso c'è un naturale rilassamento e distensione dello spirito, nell'altro un dolore innaturale. Perciò queste cose che sono agli antipodi risultano indifferenti: la virtù è uguale in entrambi i casi. 15 Non la cambiano le situazioni; quelle spiacevoli e difficili non la rendono peggiore, come non la rendono migliore quelle gioiose e liete; la virtù è, dunque, necessariamente uguale. In entrambi i tipi di virtù le azioni che si compiono sono giuste, sagge, oneste allo stesso modo; i beni sono, quindi, uguali e al di là di essi non può comportarsi meglio né chi è nel pieno della gioia, né chi si trova nella sofferenza; e quando di due cose non c'è niente di meglio, queste sono sullo stesso piano. 16 Se c'è qualcosa al di fuori della virtù che può sminuirla o accrescerla, l'onestà cessa di essere l'unico bene. Ammettendo questo, scomparirebbe la categoria di onesto. Perché? Te lo dico subito: perché non sono oneste le azioni compiute contro voglia o per costrizione; tutto ciò che è onesto parte dalla volontà. Mischiaci pigrizia, querimonie, esitazioni, paura: perde la sua qualità migliore: l'essere contento di sé. Non c'è onestà, se non c'è libertà; il timore genera la schiavitù. 17 L'uomo onesto è sempre tranquillo, sereno: se rifiuta qualcosa, se la deplora, se la giudica un male, si turba e si dibatte in profondi contrasti; da una parte lo attira la bellezza del bene, dall'altra lo respinge il sospetto del male. Perciò chi vuole agire onestamente, giudichi pure contrarietà, ma non mali, tutti gli impedimenti che si frappongono: abbia una volontà costante, agisca volentieri. Ogni azione onesta non obbedisce a comandi o a costrizioni: è schietta e non è unita a nessun male.
[18] Scio quid mihi responderi hoc loco possit: 'hoc nobis persuadere conaris, nihil interesse utrum aliquis in gaudio sit an in eculeo iaceat ac tortorem suum lasset?'. Poteram respondere: Epicurus quoque ait sapientem, si in Phalaridis tauro peruratur, exclamaturum, 'dulce est et ad me nihil pertinet'. Quid miraris si ego paria bona dico ac pallidus. [22] Agedum pone ex alia parte virum bonum divitiis abundantem, ex altera nihil habentem, sed in se omnia: uterque aeque vir bonus erit, etiam si fortuna dispari utetur. Idem, ut dixi, in rebus iudicium est quod in hominibus: aeque laudabilis virtus est in corpore valido ac libero posita quam in morbido ac vincto. [23] Ergo tuam quoque virtutem non magis laudabis si corpus illi tuum integrum fortuna praestiterit quam si ex aliqua parte mutilatum: alioqui hoc erit ex servorum habitu dominum aestimare. Omnia enim ista in quae dominium casus exercet serva sunt, pecunia et corpus et honores, imbecilla, fluida, mortalia, possessionis incertae: illa rursus libera et invicta opera virtutis, quae non ideo magis appetenda sunt si benignius a fortuna tractantur, nec minus si aliqua iniquitate rerum premuntur. [24] Quod amicitia in hominibus est, hoc in rebus appetitio. Non, puto, magis amares virum bonum locupletem quam pauperem, nec robustum et lacertosum quam gracilem et languidi corporis; ergo ne rem quidem magis appetes aut amabis hilarem ac pacatam quam distractam et operosam. [25] Aut si hoc est, magis diliges ex duobus aeque bonis viris nitidum et unctum quam pulverulentum et horrentem; deinde hoc usque pervenies ut magis diligas integrum omnibus membris et illaesum quam debilem aut luscum; paulatim fastidium tuum illo usque procedet ut ex duobus aeque iustis ac prudentibus comatum et crispulum malis. Ubi par in utroque virtus est, non comparet aliarum rerum inaequalitas; omnia enim alia non partes sed accessiones sunt. [26] Num quis tam iniquam censuram inter, suos agit ut sanum filium quam aegrum magis diligat, procerumve et excelsum quam brevem aut modicum? Fetus suos non distinguunt ferae et se in alimentum pariter omnium sternunt; aves ex aequo partiuntur cibos. Ulixes ad Ithacae suae saxa sic properat quemadmodum Agamemnon ad Mycenarum nobiles muros; nemo enim patriam quia magna est amat, sed quia sua. [27] Quorsus haec pertinent? ut scias; virtutem omnia opera velut fetus suos isdem oculis intueri, aeque indulgere omnibus, et quidem impensius laborantibus, quoniam quidem etiam parentium amor magis in ea quorum miseretur inclinat. Virtus quoque opera sua quae videt affici et premi non magis amat, sed parentium bonorum more magis complectitur ac fovet.
18 So che cosa mi si può rispondere a questo punto: "Tenti di persuaderci che non c'è nessuna differenza se uno è immerso nella gioia, oppure se giace sul cavalletto di tortura e stanca il suo carnefice?" Potrei risponderti: anche secondo Epicuro il saggio, messo a bruciare nel toro di Falaride, griderebbe: "È piacevole, non mi tocca." Di che cosa ti stupisci, se sostengo che sono sullo stesso piano i beni di chi se ne sta sdraiato a mensa e di chi resiste con grande fermezza tra i supplizi, quando Epicuro fa un'affermazione ancora più incredibile, che è piacevole essere bruciati? 19 Ti rispondo, invece, che c'è una grandissima differenza tra la gioia e il dolore; messo di fronte a una scelta, ricercherei l'una ed eviterei l'altro: la prima è secondo natura, il secondo contro natura. Finché li consideriamo sotto questo aspetto, c'è tra loro una profonda differenza; ma quando si arriva alla virtù, essa è uguale in entrambi i casi: si riveli in circostanze liete o dolorose. 20 La sofferenza, il dolore e qualunque altro disagio non hanno nessun peso: sono annientati dalla virtù. Lo splendore del sole oscura le luci più fioche, così la virtù nella sua grandezza elimina e annulla i dolori, le pene, le offese; dovunque risplenda, tutto quello che in sua assenza aveva un rilievo, scompare e le contrarietà, quando si imbattono nella virtù, non hanno più importanza di un acquazzone sul mare. 21 Vuoi convincerti che le cose stanno così? L'uomo virtuoso si slancerà senza esitare verso ogni azione nobile: anche se gli sta di fronte il carnefice o l'aguzzino col fuoco, rimarrà saldo e non prenderà in considerazione quello che deve subire, ma quello che deve fare, e si affiderà a un'azione onorevole, come a un uomo onesto; la giudicherà utile, sicura e prospera. Avrà per un'azione onorevole, ma dolorosa e difficile, la stessa stima che ha per un uomo virtuoso, anche se povero oppure esule o gracile e smorto. 22 Metti da una parte un uomo onesto e ricco, dall'altra uno nullatenente ma che possieda tutto dentro di sé: entrambi saranno ugualmente uomini onesti, anche se godono di una diversa fortuna. Lo stesso metro di giudizio vale, come ho già detto, per le cose e per gli uomini: la virtù posta in un corpo robusto e libero è lodevole quanto in un corpo malato e in catene. 23 Quindi, se la fortuna ti ha concesso un corpo sano, non devi stimare la tua virtù maggiormente che se fossi mutilato in qualche parte: altrimenti sarà come giudicare il padrone dall'aspetto degli schiavi. Tutti questi beni soggetti al caso, denaro, corpo, onori, sono come schiavi, deboli, precari, mortali, di incerto possesso: le opere della virtù sono, invece, libere e invincibili e non bisogna ricercarle di più se la sorte le tratta benevolmente, oppure meno se sono oppresse da circostanze avverse. 24 Il desiderio per le cose è come l'amicizia per gli uomini. Non ameresti, credo, un uomo onesto se fosse ricco più che se fosse povero, o se fosse robusto e muscoloso più che se fosse gracile e debole; quindi, non ricercherai o amerai di più una condizione lieta e tranquilla di una straziante e gravosa. 25 Oppure, in questo caso, tra due uomini ugualmente onesti avrai più caro quello pulito e curato di quello impolverato e trasandato; poi arriverai al punto di apprezzare più un uomo integro in tutte le membra e sano di uno storpio o guercio; a poco a poco diventerai schifiltoso al punto da preferire, tra due uomini ugualmente giusti e saggi, quello con i capelli lunghi e ricci. Quando la virtù è uguale in entrambi, non ci sarà nessun'altra disuguaglianza; tutte le altre caratteristiche non sono elementi integranti, ma accessori. 26 C'è forse qualcuno che giudica in maniera tanto ingiusta i propri figli, da amare quello sano più di quello malato, quello alto e slanciato più di quello basso e tozzo? Le fiere non fanno distinzioni fra i loro piccoli e si stendono per nutrirli tutti allo stesso modo; gli uccelli distribuiscono il cibo in parti uguali. Ulisse brama tornare alla sua sassosa Itaca come Agamennone alle celebri mura di Micene; nessuno ama la patria perché è grande, ma perché è sua. 27 A che cosa mira questo mio discorso? A farti capire che la virtù guarda con gli stessi occhi, come se fossero figli suoi, tutte le sue opere e di tutte si compiace nella stessa maniera, anzi particolarmente di quelle che richiedono più fatica, poiché anche l'amore dei genitori indulge maggiormente verso i figli che più suscitano la loro compassione. Pure la virtù, come i buoni genitori, non ama di più le sue opere che vede in preda alle difficoltà e ai disagi, ma le segue con particolare interesse e le cura maggiormente.
[28] Quare non est ullum bonum altero maius? quia non est quicquam apto aptius, quia plano nihil est planius. Non potes dicere hoc magis par esse alicui quam illud; ergo nec honesto honestius quicquam est. [29] Quod si par omnium virtutum natura est, tria genera bonorum in aequo sunt. Ita dico: in aequo est moderate gaudere et moderate dolere. Laetitia illa non vincit hanc animi firmitatem sub tortore gemitus devorantem: illa bona optabilia, haec mirabilia sunt, utraque nihilominus paria, quia quidquid incommodi est vi tanto maioris boni tegitur. [30] Quisquis haec imparia iudicat ab ipsis virtutibus avertit oculos et exteriora circumspicit. Bona vera idem pendent, idem patent: illa falsa multum habent vani; itaque speciosa et magna contra visentibus, cum ad pondus revocata sunt, fallunt. [31] Ita est, mi Lucili: quidquid vera ratio commendat solidum et aeternum est, firmat animum attollitque semper futurum in excelso. illa quae temere laudantur et vulgi sententia bona sunt inflant inanibus laetos; rursus ea quae timentur tamquam mala iniciunt formidinem mentibus et illas non aliter quam animalia specie periculi agitant. [32] Utraque ergo res sine causa animum et diffundit et mordet: nec illa gaudio nec haec metu digna est. Sola ratio immutabilis et iudicii tenax est; non enim servit sed imperat sensibus. Ratio rationi par est, sicut rectum recto; ergo et virtus virtuti; nihil enim aliud est virtus quam recta ratio. Omnes virtutes rationes sunt; rationes sunt, si rectae sunt; si rectae sunt, et pares sunt. [33] Qualis ratio est, tales et actiones sunt; ergo omnes pares sunt; nam cum similes rationi sint, similes et inter se sunt. Pares autem actiones inter se esse dico qua honestae rectaeque sunt; ceterum magna habebunt discrimina variante materia, quae modo latior est, modo angustior, modo illustris, modo ignobilis, modo ad multos pertinens, modo ad paucos. In omnibus tamen istis id quod optimum est par est: honestae sunt. [34] Tamquam viri boni omnes pares sunt qua boni sunt, sed habent differentias aetatis: alius senior est, alius iunior; habent corporis: alius formosus, alius deformis est; habent fortunae: ille dives, hic pauper est, ille gratiosus, potens, urbibus notus et populis, hic ignotus plerisque et obscurus. Sed per illud quo boni sunt pares sunt.
28 Perché non esiste bene superiore all'altro? Perché non esiste nulla di più adatto dell'adatto, di più evidente dell'evidenza. Se due cose sono uguali a un'altra, non puoi dire che la prima è più uguale della seconda; quindi, non esiste niente di più onesto dell'onesto. 29 E se uguale è la natura di tutte le virtù, i tre generi di bene sono sullo stesso piano. Intendo dire: la moderazione nella gioia e la moderazione nel dolore sono sullo stesso piano. La gioia non è un bene superiore alla fermezza d'animo di chi reprime i gemiti sotto la tortura: quelli sono beni desiderabili, questi degni di ammirazione; e nondimeno sono entrambi sullo stesso piano, poiché quanto c'è di negativo scompare sotto il peso di un bene tanto più grande. 30 Se uno li ritiene diseguali, distoglie gli occhi dalla virtù in se stessa e ne guarda gli aspetti esteriori. I veri beni hanno medesimo peso, medesima grandezza: quelli falsi sono inconsistenti; splendidi e imponenti a guardarli, pesati rivelano le loro carenze. 31 È così, caro Lucilio: tutto quello che la vera ragione approva è solido ed eterno, rende forte l'anima e la innalza per sempre a una sfera superiore: quei beni che vengono apprezzati sconsideratamente e sono ritenuti tali dalla massa, inorgogliscono gli uomini che si compiacciono di vanità; viceversa i fatti temuti come mali incutono terrore negli animi e li sconvolgono come un apparente pericolo sconvolge gli animali. 32 Beni e mali, dunque, rallegrano e affliggono l'animo senza motivo: e invece gli uni non meritano gioia come gli altri non meritano timore. Solo la ragione è immutabile e ferma nel giudicare, poiché non è schiava, ma padrona dei sensi. La ragione è uguale alla ragione, come la rettitudine alla rettitudine; quindi, anche la virtù alla virtù; la virtù, difatti, non è altro che la retta ragione. Tutte le virtù sono ragione e sono ragione se sono rette; ma se sono rette sono anche uguali. 33 Le azioni sono tali e quali alla ragione; quindi sono tutte uguali, poiché se sono simili alla ragione, sono anche simili tra loro. Le azioni, dico, sono uguali tra loro in quanto sono oneste e rette; ma si differenzieranno molto col variare della materia: ora è più ampia, ora più ristretta, ora illustre, ora umile, ora riguardante molti, ora pochi. Tuttavia in tutti questi casi l'elemento migliore è uguale: sono azioni oneste. 34 Così come gli uomini virtuosi sono tutti uguali poiché sono virtuosi, ma hanno differenze di età: uno è più vecchio, un altro più giovane; di costituzione fisica: uno è bello, un altro brutto; di sorte: quello è ricco, questo povero; quello influente, potente, noto a città e nazioni, questo ignoto e sconosciuto ai più. E tuttavia sono uguali in quanto sono virtuosi.
[35] De bonis ac malis sensus non iudicat; quid utile sit, quid inutile, ignorat. Non potest ferre sententiam nisi in rem praesentem perductus est; nec futuri providus est nec praeteriti memor; quid sit consequens nescit. Ex hoc autem rerum ordo seriesque contexitur et unitas vitae per rectum iturae. Ratio ergo arbitra est bonorum ac malorum; aliena et externa pro vilibus habet, et ea quae neque bona sunt neque mala accessiones minimas ac levissimas iudicat; omne enim illi bonum in animo est. [36] Ceterum bona quaedam prima existimat, ad quae ex proposito venit, tamquam victoriam, bonos liberos, salutem patriae; quaedam secunda, quae non apparent nisi in rebus adversis, tamquam aequo animo pati morbum, ignem, exsilium; quaedam media, quae nihilo magis secundum naturam sunt quam contra naturam, tamquam prudenter ambulare, composite sedere. Non enim minus secundum naturam est sedere quam stare aut ambulare. [37] Duo illa bona superiora diversa sunt: prima enim secundum naturam sunt, gaudere liberorum pietate, patriae incolumitate; secunda contra naturam sunt, fortiter obstare tormentis et sitim perpeti morbo urente praecordia. [38] 'Quid ergo? aliquid contra naturam bonum est?' Minime; sed id aliquando contra naturam est in quo bonum illud exsistit. Vulnerari enim et subiecto igne tabescere et adversa valetudine affligi contra naturam est, sed inter ista servare animum infatigabilem secundum naturam est. [39] Et ut quod volo exprimam breviter, materia boni aliquando contra naturam est bonum numquam, quoniam bonum sine ratione nullum est, sequitur autem ratio naturam. 'Quid est ergo ratio?' Naturae imitatio. 'Quod est summum hominis bonum?' Ex naturae voluntate se gerere.
35 I sensi non possono giudicare sul bene e il male; non sanno che cosa sia utile e che cosa sia inutile. Non possono esprimere un giudizio se non sono messi di fronte alla realtà del momento; non prevedono il futuro, non ricordano il passato; ignorano il principio di concatenazione. Ma è in base a esso che si compone la serie e la successione degli eventi e l'unità di una vita istradata sulla retta via. Dunque è compito della ragione fare da arbitro tra il bene e il male; essa tiene in poco conto i fattori estranei ed esteriori, e quelli che non sono né beni né mali li giudica accessori e di nessuna importanza; per essa ogni bene è interiore. 36 Ma alcuni li considera beni primarî da ricercarsi di proposito, come la vittoria, i figli onesti, la salvezza della patria; altri secondari, che non si manifestano se non nelle avversità, come sopportare serenamente le malattie, il fuoco della tortura, l'esilio; altri indifferenti: non sono secondo natura più che contro natura, come camminare con contegno o sedere compostamente. Difatti, sedere è secondo natura quanto star fermi o camminare. 37 Le prime due categorie di beni sono, invece, diverse: gli uni sono secondo natura, gioire dell'amore dei figli, della salvezza della patria; gli altri contro natura, affrontare con coraggio la tortura e sopportare la sete quando la febbre brucia dentro. 38 "Ma come? È un bene una cosa contro natura?" No; ma a volte è contro natura la situazione in cui si manifesta quel bene. Essere feriti, bruciati dal fuoco, afflitti da una malattia, è contro natura, ma conservare un animo imperturbabile in queste circostanze è secondo natura. 39 E, per dirla in breve, la materia del bene è talvolta contro natura, il bene mai, poiché non esiste nessun bene senza ragione e la ragione segue la natura. "Che cos'è, dunque, la ragione?" È l'imitazione della natura. "Qual è il sommo bene dell'uomo?" Comportarsi secondo natura.
[40] 'Non est' inquit 'dubium quin felicior pax sit numquam lacessita quam multo reparata sanguine. Non est dubium' inquit 'quin felicior res sit inconcussa valetudo quam ex gravibus morbis et extrema minitantibus in tutum vi quadam et patientia educta. Eodem modo non erit dubium quin maius bonum sit gaudium quam obnixus animus ad perpetiendos cruciatus vulnerum aut ignium.' [41] Minime; illa enim quae fortuita sunt plurimum discriminis recipiunt; aestimantur enim utilitate sumentium. Bonorum unum propositum est consentire naturae; hoc [contingere] in omnibus par est. Cum alicuius in senatu sententiam sequimur, non potest dici: ille magis assentitur quam ille. Ab omnibus in eandem sententiam itur. Idem de virtutibus dico: omnes naturae assentiuntur. Idem de bonis dico: omnia naturae assentiuntur. [42] Alter adulescens decessit, alter senex, aliquis protinus infans, cui nihil amplius contigit quam prospicere vitam: omnes hi aeque fuere mortales, etiam si mors aliorum longius vitam passa est procedere, aliorum in medio flore praecidit, aliorum interrupit ipsa principia. [43] Alius inter cenandum solutus est; alterius continuata mors somno est; aliquem concubitus exstinxit. His oppone ferro transfossos aut exanimatos serpentium morsu aut fractos ruina aut per longam nervorum contractionem extortos minutatim. Aliquorum melior dici, aliquorum peior potest exitus: mors quidem omnium par est. Per quae veniunt diversa sunt; in [id] quod desinunt unum est. Mors nulla maior aut minor est; habet enim eundem in omnibus modum, finisse vitam. [44] Idem tibi de bonis dico: hoc bonum inter meras voluptates, hoc est inter tristia et acerba; illud fortunae indulgentiam rexit, hoc violentiam domuit: utrumque aeque bonum est, quamvis illud plana et molli via ierit, hoc aspera. Idem enim finis omnium est: bona sunt, laudanda sunt, virtutem rationemque comitantur; virtus aequat inter se quidquid agnoscit.
40 "Senza dubbio," si afferma, "una pace stabile è più prospera di una riconquistata a prezzo di molto sangue. Senza dubbio una salute di ferro è più prospera di una riacquistata a forza e con tenacia, scampando a malattie gravi e al pericolo di morte. Analogamente la gioia è senza dubbio un bene maggiore che un animo saldo nel sopportare i tormenti delle ferite o del fuoco." 41 Niente affatto: i beni fortuiti sono molto differenti tra loro poiché vengono valutati in base all'utilità che ne ricava chi se ne serve. I veri beni, invece, hanno un unico scopo: essere in sintonia con la natura; e questo è uguale in tutti. Quando in senato aderiamo alla proposta di qualcuno, non possiamo dire Tizio è più d'accordo di Caio. L'assenso è unanime. Per le virtù è lo stesso: tutte concordano con la natura. 42 Uno è morto giovane, un altro vecchio, un altro ancora bambino e ha potuto solo affacciarsi alla vita: tutti costoro erano ugualmente mortali, anche se la morte ha concesso che la vita di alcuni fosse più lunga, mentre ha reciso nel suo fiorire o addirittura all'inizio quella d'altri. 43 C'è chi è morto mentre cenava; chi è passato dal sonno alla morte; chi è morto facendo l'amore. A questi aggiungi le persone trafitte da una spada o uccise dal morso di serpenti o maciullate dal crollo di una casa o paralizzate a poco a poco da una lunga contrazione dei nervi. La fine di alcuni possiamo definirla migliore, peggiore quella di altri: ma la morte è uguale per tutti. Le vie sono diverse, la fine unica. Non c'è morte maggiore o minore; si comporta sempre nello stesso modo con tutti: mette fine alla vita. 44 Lo stesso è per i beni: un bene si manifesta nei puri piaceri, un altro in circostanze tristi e difficili; l'uno ha governato la benevolenza della sorte, l'altro ne ha domato la violenza: entrambi sono ugualmente beni, benché il primo abbia percorso una via piana e agevole, il secondo una via irta di difficoltà. Il fine di tutti i beni è unico: sono beni, sono lodevoli, si accompagnano alla virtù e alla ragione; la virtù uguaglia tutto ciò che riconosce.
[45] Nec est quare hoc inter nostra placita mireris: apud Epicurum duo bona sunt, ex quibus summum illud beatumque componitur, ut corpus sine dolore sit, animus sine perturbatione. Haec bona non crescunt si plena sunt: quo enim crescet quod plenum est? Dolore corpus caret: quid ad hanc accedere indolentiam potest? Animus constat sibi et placidus est: quid accedere ad hanc tranquillitatem potest? [46] Quemadmodum serenitas caeli non recipit maiorem adhuc claritatem in sincerissimum nitorem repurgata, sic hominis corpus animumque curantis et bonum suum ex utroque nectentis perfectus est status, et summam voti sui invenit si nec aestus animo est nec dolor corpori. Si qua extra blandimenta contingunt, non augent summum bonum, sed, ut ita dicam, condiunt et oblectant; absolutum enim illud humanae naturae bonum corporis et animi pace contentum est.
45 Non devi ammirare questo concetto come se appartenesse alla scuola stoica: secondo Epicuro i beni che formano la felicità suprema sono due: un corpo senza dolore e un'anima serena. Questi beni, se sono completi, non si accrescono: come potrebbe accrescersi una cosa completa? Il corpo non soffre: che cosa si può aggiungere a questa assenza di dolore? L'anima è imperturbabile e serena: che cosa si può aggiungere a questa serenità? 46 Il cielo quando è sereno e chiaro di un purissimo splendore non può diventare ancora più limpido; allo stesso modo la condizione dell'uomo che cura corpo e anima e costruisce su entrambi il suo bene è perfetta ed egli vede esaudito il più grande dei suoi desideri se l'anima è serena e il corpo non soffre. Gli allettamenti che arrivano dall'esterno non accrescono il sommo bene, ma lo rendono, per così dire, più gustoso e gradevole: il bene assoluto dell'uomo consiste nella pace dell'anima e del corpo.
[47] Dabo apud Epicurum tibi etiam nunc simillimam huic nostrae divisionem bonorum. Alia enim sunt apud illum quae malit contingere sibi, ut corporis quietem ab omni incommodo liberam et animi remissionem bonorum suorum contemplatione gaudentis; alia sunt quae, quamvis nolit accidere, nihilominus laudat et comprobat, tamquam illam quam paulo ante dicebam malae valetudinis et dolorum gravissimorum perpessionem, in qua Epicurus fuit illo summo ac fortunatissimo die suo. Ait enim se vesicae et exulcerati ventris tormenta tolerare ulteriorem doloris accessionem non recipientia, esse nihilominus sibi illum beatum diem. Beatum autem diem agere nisi qui est in summo bono non potest. [48] Ergo et apud Epicurum sunt haec bona, quae malles non experiri, sed, quia ita res tulit, et amplexanda et laudanda et exaequanda summis sunt. Non potest dici hoc non esse par maximis bonum quod beatae vitae clausulam imposuit, cui Epicurus extrema voce gratias egit.
47 Ti esporrò ora una divisione che Epicuro fa dei beni: è molto simile alla nostra. Secondo lui ci sono beni che vorrebbe gli toccassero, come un corpo tranquillo, libero da ogni fastidio e un'anima serena che goda di contemplare i suoi beni; ce ne sono altri che non vorrebbe gli capitassero, nondimeno li loda e li apprezza, come quello di cui parlavo prima: la sopportazione di malattie e di dolori atroci, ed Epicuro la dimostrò nel giorno estremo della sua vita, il più felice. Alla vescica e al ventre ulcerato lo tormentavano dolori che non avrebbero potuto essere più forti e tuttavia sosteneva che quello era per lui un giorno felice. Ma solo chi possiede il sommo bene può vivere un giorno felice. 48 Quindi, anche secondo Epicuro, ci sono beni che sarebbe preferibile non sperimentare, ma che, se si presenta la necessità, si devono abbracciare, apprezzare e giudicare uguali a quelli maggiori. Questo bene che pose fine a una vita felice è senza dubbio uguale ai beni maggiori ed Epicuro lo ringraziò con le sue ultime parole.
[49] Permitte mihi, Lucili virorum optime, aliquid audacius dicere: si ulla bona maiora esse aliis possent, haec ego quae tristia videntur mollibus illis et delicatis praetulissem, haec maiora dixissem. Maius est enim difficilia perfringere quam laeta moderari. [50] Eadem ratione fit, scio, ut aliquis felicitatem bene et ut calamitatem fortiter ferat. Aeque esse fortis potest qui pro vallo securus excubuit nullis hostibus castra temptantibus et qui succisis poplitibus in genua se excepit nec arma dimisit: 'macte virtute esto' sanguinulentis et ex acie redeuntibus dicitur. Itaque haec magis laudaverim bona exercitata et fortia et cum fortuna rixata. [51] Ego dubitem quin magis laudem truncam illam et retorridam manum Mucii quam cuiuslibet fortissimi salvam? Stetit hostium flammarumque contemptor et manum suam in hostili foculo destillantem perspectavit, donec Porsina cuius poenae favebat gloriae invidit et ignem invito eripi iussit. [52] Hoc bonum quidni inter prima numerem tantoque maius putem quam illa secura et intemptata fortunae quanto rarius est hostem amissa manu vicisse quam armata? 'Quid ergo?' inquis 'hoc bonum tibi optabis?' Quidni? hoc enim nisi qui potest et optare, non potest facere. [53] An potius optem ut malaxandos articulos exoletis meis porrigam? ut muliercula aut aliquis in mulierculam ex viro versus digitulos meos ducat? Quidni ego feliciorem putem Mucium, quod sic tractavit ignem quasi illam manum tractatori praestitisset? In integrum restituit quidquid erraverat: confecit bellum inermis ac mancus et illa manu trunca reges duos vicit. Vale.
49 Lascia, mio ottimo Lucilio, che io esprima un concetto un po' azzardato: se certi beni potessero essere maggiori di altri, a quelli piacevoli e dolci io preferirei quelli che appaiono dolorosi, li definirei migliori. Ha più valore superare le difficoltà che moderare le gioie. 50 Per la stessa ragione accade, lo so bene, che alcuni accolgano con moderazione la prosperità e con fermezza le disgrazie. Può essere ugualmente prode il soldato che tranquillo ha fatto la guardia all'accampamento senza che ci fosse nessun attacco da parte dei nemici e quello che, colpito alle gambe, si è retto sulle ginocchia e non ha abbandonato le armi; ma: "Gloria a voi!" si grida ai soldati che tornano insanguinati dalle battaglie. Perciò oserei apprezzare maggiormente quei beni sottoposti a dure prove e che esigono coraggio, in lotta con la fortuna. 51 Dovrei esitare a lodare la mano mutilata, bruciata dal fuoco di Muzio Scevola più di quella intatta di un uomo valorosissimo? Stette immobile disprezzando i nemici e il fuoco, e guardò la propria mano consumarsi sul braciere del nemico, finché Porsenna, che pure ne voleva il supplizio, fu geloso della sua gloria e comandò che gli togliessero il braciere contro la sua volontà. 52 Questo bene perché non dovrei annoverarlo tra i primi e ritenerlo tanto più grande di quelli che non creano affanni e non sono in contrasto con la fortuna, quanto è più raro vincere il nemico senza una mano che impugnando le armi? "Ma allora," mi chiedi, "ti augurerai questo bene?" Perché no? Può ottenerlo solo l'uomo che può anche desiderarlo. 53 O dovrei piuttosto desiderare di sottoporre il mio corpo al massaggio dei miei amasi? O che una donnetta o un eunuco mi stirasse le dita? Perché non dovrei considerare più fortunato Muzio? Col fuoco si è comportato come se avesse porto la mano al massaggiatore. Rimediò così all'errore commesso: senza armi e monco mise fine alla guerra e con quella mano mutilata vinse due re. Stammi bene. 
LXVII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Ut a communibus initium faciam, ver aperire se coepit, sed iam inclinatum in aestatem, quo tempore calere debebat, intepuit nec adhuc illi fides est; saepe enim in hiemem revolvitur. Vis scire quam dubium adhuc sit? nondum me committo frigidae verae, adhuc rigorem eius infringo. 'Hoc est' inquis 'nec calidum nec frigidum pati.' Ita est, mi Lucili: iam aetas mea contenta est suo frigore; vix media regelatur aestate. Itaque maior pars in vestimentis degitur. [2] Ago gratias senectuti quod me lectulo affixit: quidni gratias illi hoc nomine agam? Quidquid debebam nolle, non possum. Cum libellis mihi plurimus sermo est. Si quando intervenerunt epistulae tuae, tecum esse mihi videor et sic afficior animo tamquam tibi non rescribam sed respondeam. Itaque et de hoc quod quaeris, quasi colloquar tecum, quale sit una scrutabimur.
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1 Apro la lettera con un argomento banale: è arrivata la primavera; andiamo incontro all'estate e dovrebbe far caldo; la temperatura, invece, è scesa e non c'è ancora da fidarsi; spesso sembra si ripiombi nell'inverno. Vuoi avere una prova dell'attuale incertezza del tempo? Non mi arrischio ancora a fare il bagno nell'acqua completamente fredda: ne tempero il rigore. "Questo significa," tu dici, "non sopportare né il caldo, né il freddo." È vero, Lucilio mio: ormai agli anni miei basta il loro freddo; e a stento si sciolgono dal gelo in piena estate. Perciò la maggior parte del tempo la passo sotto le coperte. 2 Ringrazio la vecchiaia che mi costringe a letto: e perché non dovrei ringraziarla per questo? Prima mi costringevo a non fare determinate cose, ora non posso farle. Mi intrattengo soprattutto con i miei libri. Se a volte arrivano lettere tue, mi sembra di stare con te e ho la sensazione di risponderti a voce, non per iscritto. Sonderemo, perciò insieme, quasi parlassi con te, l'argomento su cui mi interroghi.
[3] Quaeris an omne bonum optabile sit. 'Si bonum est' inquis 'fortiter torqueri et magno animo uri et patienter aegrotare, sequitur ut ista optabilia sint; nihil autem video ex istis voto dignum. Neminem certe adhuc scio eo nomine votum solvisse quod flagellis caesus esset aut podagra distortus aut eculeo longior factus.' [4] Distingue, mi Lucili, ista, et intelleges esse in iis aliquid optandum. Tormenta abesse a me velim; sed si sustinenda fuerint, ut me in illis fortiter, honeste, animose geram optabo. Quidni ego malim non incidere bellum? sed si inciderit, ut vulnera, ut famem et omnia quae bellorum necessitas affert generose feram optabo. Ton sum tam demens ut aegrotare cupiam; sed si aegrotandum fuerit, ut nihil intemperanter, nihil effeminate faciam optabo. Ita non incommoda optabilia sunt, sed virtus qua perferuntur incommoda.
Chiedi se ogni bene è desiderabile. "Se è un bene," dici, "sopportare con fermezza la tortura, sottoporsi ai tormenti del fuoco con coraggio, tollerare con pazienza le malattie, ne consegue che questi beni siano desiderabili; ma io non ne vedo alcuno desiderabile. E certamente fino a oggi non ho conosciuto nessuno che abbia sciolto un voto per essere stato frustato o storpiato dalla podagra o tirato sul cavalletto." 4 Fa' una precisa distinzione, caro Lucilio, e comprenderai che in essi c'è qualcosa di desiderabile. Io vorrei evitare la tortura, ma se dovrò subirla, desidero comportarmi da forte, con dignità e coraggio. Certo, preferisco che non scoppi la guerra; ma se scoppia, desidero sopportare da valoroso le ferite, la fame e tutti quei disagi inevitabili in guerra. Non sono tanto pazzo da desiderare di ammalarmi, ma se mi ammalo, desidero essere misurato e virile. Così, desiderabili non sono le sofferenze, ma la virtù con cui si sopportano le sofferenze.
[5] Quidam ex nostris existimant omnium istorum fortem tolerantiam non esse optabilem, sed ne abominandam quidem, quia voto purum bonum peti debet et tranquillum et extra molestiam positum. Ego dissentio. Quare? primum quia fieri non potest ut aliqua res bona quidem sit sed optabilis non sit; deinde si virtus optabilis est, nullum autem sine virtute bonum, et omne bonum optabile est; deinde etiam si *** tormentorum fortis patientia optabilis est. [6] Etiam nunc interrogo: nempe fortitudo optabilis est? Atqui pericula contemnit et provocat; pulcherrima pars eius maximeque mirabilis illa est, non cedere ignibus, obviam ire vulneribus, interdum tela ne vitare quidem sed pectore excipere. Si fortitudo optabilis est, et tormenta patienter ferre optabile est; hoc enim fortitudinis pars est. Sed separa ista, ut dixi: nihil erit quod tibi faciat errorem. Non enim pati tormenta optabile est, sed pati fortiter: illud opto 'fortiter', quod est virtus. [7] 'Quis tamen umquam hoc sibi optavit?' Quaedam vota aperta et professa sunt, cum particulatim fiunt; quaedam latent, cum uno voto multa comprensa sunt. Tamquam opto mihi vitam honestam; vita autem honesta actionibus variis constat: in hac es Reguli arca, Catonis scissum manu sua vulnus, Rutili exsilium, calix venenatus qui Socraten transtulit e carcere in caelum. Ita cum optavi mihi vitam honestam, et haec optavi sine quibus interdum honesta non potest esse.
5 Certi Stoici ritengono che sopportare da forti tutte queste avversità non è desiderabile, anche se non è neppure da respingere, perché bisogna aspirare al bene puro, sereno e al di fuori di ogni turbamento. Non sono d'accordo. Perché? Primo: non è possibile che una cosa sia buona, ma non sia desiderabile; secondo: se la virtù è desiderabile, e non esiste bene senza virtù, ne consegue che ogni bene è desiderabile. Inoltre, anche se ‹i tormenti non sono desiderabili›, desiderabile è la sopportazione coraggiosa dei tormenti. 6 Ora chiedo: non è desiderabile il coraggio? Ebbene esso disprezza, sfida i pericoli; e la sua caratteristica più bella e più straordinaria è non arrendersi al fuoco, andare incontro alle ferite, certe volte non evitare neppure i colpi, ma offrire il petto. Se il coraggio è desiderabile, è desiderabile anche la sopportazione ferma dei tormenti: anch'essa fa parte del coraggio. Ma fai una distinzione, come ho già detto: non puoi sbagliare. Desiderabile non è subire i tormenti, bensì subirli da forte; desidero proprio quel "da forte": in esso consiste la virtù. 7 "Tuttavia chi mai si è augurato tutto questo?" Certi desideri sono palesi e manifesti, quando vengono formulati singolarmente; altri rimangono nascosti, se un unico voto ne comprende molti. Per esempio, quando mi auguro una vita onesta; ma una vita onesta è formata da azioni diverse: c'è la botte di Attilio Regolo, la ferita che Catone si aprì con le sue mani, l'esilio di Rutilio, la coppa avvelenata che portò Socrate dal carcere al cielo. Quindi, quando mi auguro una vita onesta, mi auguro anche queste azioni, senza le quali la vita non può essere onesta.
[8] O terque quaterque beati, quis ante ora patrum Troiae sub moenibus altis contigit oppetere! Quid interest, optes hoc alicui an optabile fuisse fatearis? [9] Decius se pro re publica devovit et in medios hostes concitato equo mortem petens irruit. Alter post hunc, paternae virtutis aemulus, conceptis sollemnibus ac iam familiaribus verbis in aciem confertissimam incucurrit, de hoc sollicitus tantum, ut litaret, optabilem rem putans bonam mortem. Dubitas ergo an optimum sit memorabilem mori et in aliquo opere virtutis? [10] Cum aliquis tormenta fortiter patitur, omnibus virtutibus utitur. Fortasse una in promptu sit et maxime appareat, patientia; ceterum illic est fortitudo, cuius patientia et perpessio et tolerantia rami sunt; illic est prudentia, sine qua nullum initur consilium, quae suadet quod effugere non possis quam fortissime ferre; illic est constantia, quae deici loco non potest et propositum nulla vi extorquente dimittit; illic est individuus ille comitatus virtutum. Quidquid honeste fit una virtus facit, sed ex consilii sententia; quod autem ab omnibus virtutibus comprobatur, etiam si ab una fieri videtur, optabile est.
8 Tre e quattro volte beati coloro ai quali toccò in sorte morire davanti agli occhi dei loro padri, sotto le alte mura di Troia. C'è differenza tra augurare a qualcuno questa sorte o affermare che era desiderabile? 9 Decio si sacrificò per la salvezza della patria: spronò il cavallo e irruppe tra i nemici cercando la morte. Dopo di lui il figlio, emulo del valore paterno, pronunziata la sacra formula a lui familiare, piombò nel folto dei nemici, preoccupato solo di offrirsi in sacrificio: giudicava desiderabile una morte da prode. E tu dubiti che morire gloriosamente e compiendo un atto di valore sia bellissimo? 10 Quando uno sopporta con fermezza i tormenti, mette in pratica tutte le virtù. Forse una sola virtù è evidente e manifesta più delle altre, la sopportazione; ma c'è anche il coraggio: sopportazione, resistenza, tolleranza ne sono le ramificazioni; c'è il senno, senza il quale non si possono prendere decisioni e che ci induce a sopportare con la maggiore forza possibile quello cui non ci si può sottrarre; c'è la costanza, incrollabile e ferma nei suoi propositi a dispetto di qualsiasi violenza; c'è tutto il corteggio inseparabile delle virtù. Ogni azione virtuosa è opera di una sola virtù, ma per decisione unanime di tutte le altre; quindi, ciò che è approvato da tutte le virtù, anche se è opera di una sola, è desiderabile.
[11] Quid? tu existimas ea tantum optabilia esse quae per voluptatem et otium veniunt, quae excipiuntur foribus ornatis? Sunt quaedam tristis vultus bona; sunt quaedam vota quae non gratulantium coetu, sed adorantium venerantiumque celebrantur. [12] Ita tu non putas Regulum optasse ut ad Poenos perveniret? Indue magni viri animum et ab opinionibus vulgi secede paulisper; cape, quantam debes, virtutis pulcherrimae ac magnificentissimae speciem, quae nobis non ture nec sertis, sed sudore ct sanguine colenda est. [13] Aspice M. Catonem sacro illi pectori purissimas manus admoventem et vulnera parum alte demissa laxantem. Utrum tandem illi dicturus es 'vellem quae velles' et 'moleste fero' an 'feliciter quod agis'? [14] Hoc loco mihi Demetrius noster occurrit, qui vitam securam et sine ullis fortunae incursionibus mare mortuum vocat. Nihil habere ad quod exciteris, ad quod te concites, cuius denuntiatione et incursu firmitatem animi tui temptes, sed in otio inconcusso iacere non est tranquillitas: malacia est. [15] Attalus Stoicus dicere solebat, 'malo me fortuna in castris suis quam in deliciis habeat. Torqueor, sed fortiter: bene est. Occidor, sed fortiter: bene est.' Audi Epicurum, dicet et 'dulce est'. Ego tam honestae rei ac severae numquam molle nomen imponam. [16] Uror, sed invictus: quidni hoc optabile sit? - non quod urit me ignis, sed quod non vincit. Nihil est virtute praestantius, nihil pulchrius; et bonum est et optabile quidquid ex huius geritur imperio. Vale.
11 Come? Secondo te è desiderabile solo quello che ci viene attraverso il piacere e la vita tranquilla, e quello che è accolto con grande festa? Ci sono beni dolorosi all'apparenza; ci sono voti la cui realizzazione non viene esaltata da una schiera di gente che si congratula, ma sono fatti oggetto di venerazione e rispetto. 12 Così tu non credi che Regolo desiderasse raggiungere i Cartaginesi? Mettiti nello stato d'animo di quel grande uomo e lascia un po' da parte i pregiudizi del volgo; cerca di comprendere, come devi, la bellezza e la magnificenza della virtù: non dobbiamo renderle omaggio con incenso e corone, ma con sudore e sangue. 13 Guarda Catone che porta al suo sacro petto le mani purissime e allarga le ferite troppo superficiali. Gli dirai: "Mi auguro che sia come vuoi tu" e "Mi dispiace"' oppure: "Che tutto ti vada bene"? 14 Mi viene in mente a questo punto il nostro Demetrio; definisce "mare morto" una vita tranquilla e senza attacchi da parte della fortuna. Non avere niente che ci infiammi e ci sproni, niente che metta alla prova la nostra fermezza d'animo con le sue minacce e i suoi assalti, ma giacere in una tranquillità imperturbata non è quiete: è apatia. 15 Diceva lo stoico Attalo: "Preferisco che la sorte mi costringa a combattere e non che mi faccia vivere tra i piaceri. Sono torturato, ma da forte: questo è bene. Sono colpito a morte, ma da forte: questo è bene." Ascolta Epicuro, egli dirà anche: "È piacevole." Io non potrei mai definire un atteggiamento così virtuoso e austero con un aggettivo tanto delicato. 16 Le fiamme mi consumano, ma non mi do per vinto: e perché non dovrebbe essere desiderabile? - non il fatto che il fuoco mi brucia, ma che io non mi piego. Non c'è niente di più nobile, niente di più bello della virtù; e tutto ciò che si fa per suo comando è buono e desiderabile. Stammi bene.
LXVIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Consilio tuo accedo: absconde te in otio, sed et ipsum otium absconde. Hoc te facturum Stoicorum etiam si non praecepto, at exemplo licet scias; sed ex praecepto quoque facies: et tibi et cui voles approbaris. [2] Nec ad omnem rem publicam mittimus nec semper nec sine ullo fine; praeterea, cum sapienti rem publicam ipso dignam dedimus, id est mundum, non est extra rem publicam etiam si recesserit, immo fortasse relicto uno angulo in maiora atque ampliora transit et caelo impositus intellegit, cum sellam aut tribunal ascenderet, quam humili loco sederit. Depone hoc apud te, numquam plus agere sapientem quam cum in conspectum eius divina atque humana venerunt.
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1 Condivido la tua risoluzione: vivi una vita ritirata, ma nascondila agli altri. Sappi che così agirai se non secondo gli insegnamenti, certo secondo l'esempio degli Stoici; e, tuttavia, anche secondo gli insegnamenti: e potrai provarlo a te stesso e a chi vorrai. 2 Noi non lasciamo che il saggio partecipi sempre e senza limiti di tempo a ogni forma di governo; inoltre, quando gli diamo uno stato degno di lui, cioè l'universo, egli non vive al di fuori della politica, anche se si è isolato; anzi forse, lasciato da parte un unico cantuccio, si dedica a questioni più importanti e vaste; collocato in cielo comprende come era sceso in basso quando saliva alla sedia curule o sulla tribuna. Racchiudi in te queste parole: mai il saggio è più operoso di quando si trova al cospetto delle cose divine e umane.
[3] Nunc ad illud revertor quod suadere tibi coeperam, ut otium tuum ignotum sit. Non est quod inscribas tibi philosophiam ac quietem: aliud proposito tuo nomen impone, valetudinem et imbecillitatem vocato et desidiam. Gloriari otio iners ambitio est. [4] Animalia quaedam, ne inveniri possint, vestigia sua circa ipsum cubile confundunt: idem tibi faciendum est, alioqui non deerunt qui persequantur. Multi aperta transeunt, condita et abstrusa rimantur; furem signata sollicitant. Vile videtur quidquid patet; aperta effractarius praeterit. Hos mores habet populus, hos imperitissimus quisque: in secreta irrumpere cupit. [5] Optimum itaque est non iactare otium suum; iactandi autem genus est nimis latere et a conspectu hominum secedere. Ille Tarentum se abdidit, ille Neapoli inclusus est, ille multis annis non transit domus suae limen: convocat turbam quisquis otio suo aliquam fabulam imposuit.
3 Torno ora al mio consiglio iniziale: tieni nascosto il tuo ritiro. Non dire che vuoi vivere una vita serena, dedita alla filosofia: definisci altrimenti la tua decisione; chiamala malattia, debolezza, chiamala anche peggio, pigrizia. È sciocca ambizione vantarsi di una vita ritirata. 4 Certi animali, per non essere scovati, confondono le loro orme intorno alla tana: devi fare lo stesso, altrimenti non mancheranno i seccatori. Molti oltrepassano i luoghi facilmente accessibili ed esplorano quelli nascosti e occulti; gli oggetti chiusi in cassaforte stimolano il ladro. Se una cosa è sotto gli occhi di tutti, sembra di poco valore; lo scassinatore tralascia quello che è a portata di mano. La massa e tutte le persone ignoranti hanno queste abitudini: vogliono violare i segreti. 5 La miglior cosa, perciò è non divulgare il proprio isolamento, anche se il nascondersi troppo e l'allontanarsi dalla vista degli altri è già un modo di divulgarlo. Uno si è ritirato a Taranto, un altro vive confinato a Napoli, un terzo da anni non varca la soglia di casa; chi circonda il suo ritiro di un alone di leggenda, richiama l'attenzione della massa.
[6] Cum secesseris, non est hoc agendum, ut de te homines loquantur, sed ut ipse tecum loquaris. Quid autem loqueris? quod homines de aliis libentissime faciunt, de te apud te male existima: assuesces et dicere verum et audire. Id autem maxime tracta quod in te esse infirmissimum senties. [7] Nota habet sui quisque corporis vitia. Itaque alius vomitu levat stomachum, alius frequenti cibo fulcit, alius interposito ieiunio corpus exhaurit et purgat; ii quorum pedes dolor repetit aut vino aut balineo abstinent: in cetera neglegentes huic a quo saepe infestantur occurrunt. Sic in animo nostro sunt quaedam quasi causariae partes quibus adhibenda curatio est. [8] Quid in otio facio? ulcus meum curo. Si ostenderem tibi pedem turgidum, lividam manum, aut contracti cruris aridos nervos, permitteres mihi uno loco iacere et fovere morbum meum: maius malum est hoc, quod non possum tibi ostendere: in pectore ipso collectio et vomica est. Nolo nolo laudes, nolo dicas, 'o magnum virum! contempsit omnia et damnatis humanae vitae furoribus fugit'. Nihil damnavi nisi me. [9] Non est quod proficiendi causa venire ad me velis. Erras, qui hinc aliquid auxili speras: non medicus sed aeger hic habitat. Malo illa, cum discesseris, dicas: 'ego istum beatum hominem putabam et eruditum, erexeram aures: destitutus sum, nihil vidi, nihil audivi quod concupiscerem, ad quod reverterer'. Si hoc sentis, si hoc loqueris, aliquid profectum est: malo ignoscas otio meo quam invideas. Se ti isoli, devi fare in modo non che gli uomini parlino di te, ma che tu parli con te stesso. E di che cosa? Fai quello che gli uomini fanno molto volentieri nei confronti degli altri: critica te stesso; ti abituerai a dire e ad ascoltare la verità. Considera soprattutto i lati più deboli del tuo carattere. 7 Ciascuno conosce bene i difetti del proprio corpo. Perciò c'è chi alleggerisce lo stomaco col vomito, chi lo sostiene con pasti frequenti, chi libera il corpo e lo purifica col digiuno; le persone che soffrono di podagra evitano di bere vino o di bagnarsi: trascurano tutto il resto e si premuniscono contro la malattia che spesso li fa tribolare. Allo stesso modo nella nostra anima ci sono delle parti - come dire? - inferme, e vanno curate. Che cosa faccio nel mio ritiro? Curo la mia piaga. 8 Se ti mostrassi un piede gonfio, una mano livida, i muscoli scarni di una gamba contratta, mi consentiresti di stare inoperoso in un angolo e di curare la mia malattia; più grave è il male che non posso mostrarti: la piaga ulcerata ce l'ho nell'anima. Non voglio, non voglio che tu mi lodi, non voglio che tu dica: "Che grand'uomo! Ha disprezzato ogni cosa ed è fuggito; ha ripudiato le follie della vita umana." Io non ripudio niente, solo me stesso. 9 Non c'è motivo che tu venga da me per trarne profitto. Sbagli, se speri di trovare in me un aiuto: qui non abita un medico, ma un ammalato. Preferisco che quando te ne andrai, tu dica: "Lo credevo un uomo felice e colto, avevo drizzato le orecchie. Sono deluso, non ho visto nulla, non ho udito nulla di quello che desideravo e che mi spinga a ritornare." Se pensi, se parli così, c'è stato un progresso: è meglio che tu abbia compassione, non invidia del mio ritiro.
[10] 'Otium' inquis 'Seneca, commendas mihi? ad Epicureas voces delaberis?' Otium tibi commendo, in quo maiora agas et pulchriora quam quae reliquisti: pulsare superbas potentiorum fores, digerere in litteram senes orbos, plurimum in foro posse invidiosa potentia ac brevis est et, si verum aestimes, sordida. [11] Ille me gratia forensi longe antecedet, ille stipendiis militaribus et quaesita per hoc dignitate, ille clientium turba. [cui in turba] Par esse non possum, plus habent gratiae: est tanti ab omnibus vinci, dum a me fortuna vincatur. [12] Utinam quidem hoc propositum sequi olim fuisset animus tibi! utinam de vita beata non in conspectu mortis ageremus! Sed nunc quoque non moramur; multa enim quae supervacua esse et inimica credituri fuimus rationi, nunc experientiae credimus. [13] Quod facere solent qui serius exierunt et volunt tempus celeritate reparare, calcar addamus. Haec aetas optime facit ad haec studia: iam despumavit, iam vitia primo fervore adulescentiae indomita lassavit; non multum superest ut exstinguat. [14] 'Et quando' inquis 'tibi proderit istud quod in exitu discis, aut in quam rem?' In hanc, ut exeam melior. Non est tamen quod existimes ullam aetatem aptiorem esse ad bonam mentem quam quae se multis experimentis, longa ac frequenti rerum paenitentia domuit, quae ad salutaria mitigatis affectibus venit. Hoc est huius boni tempus: quisquis senex ad sapientiam pervenit, annis pervenit. Vale.
10 "E proprio tu, Seneca," potresti obiettare, "mi raccomandi una vita ritirata? Stai forse scivolando verso la dottrina epicurea?" Ti raccomando una vita ritirata in cui svolgere attività più importanti e più belle di quelle che hai lasciato: bussare alle superbe porte degli uomini potenti, tenere un elenco dei vecchi privi di eredi, esercitare un grande potere nel foro, è indice di un'autorità che suscita invidia, di breve durata e, a ben guardare, spregevole. 11 Ci sarà qualcuno di molto superiore a me per il prestigio di cui gode nel foro, qualche altro per le imprese militari e per l'autorità così conquistata, un altro ancora per la folla dei clienti. Non posso essere uguale a loro, godono di più favore: vale la pena che tutti mi vincano, purché io vinca la fortuna. 12 Magari tu avessi deciso già da tempo di attuare questo proposito! Magari non discutessimo della felicità ora, al cospetto della morte! Ma non indugiamo anche adesso; avremmo potuto ricavare dalla ragione ciò che ora sappiamo per esperienza: che molte cose sono superflue e dannose. 13 Acceleriamo il passo come fanno le persone che si sono messe in cammino in ritardo e vogliono recuperare il tempo perduto andando veloci. La nostra età è la più adatta a questi studi: gli ardori si sono ormai spenti, i vizi, indomabili nel primo fervore della giovinezza, sono sopiti; e tra poco scompariranno del tutto. 14 "E quando," ribatti, "o a che fine ti gioverà quello che impari alle soglie della morte?" A questo: a uscire meglio dalla vita. Credimi, non c'è età più adatta alla saggezza di quella che è arrivata al dominio di sé attraverso svariate esperienze, dopo lunghi e frequenti pentimenti, di quella che, sedate le passioni, ha raggiunto ciò che dà la salvezza. È questa l'età che ci porta un simile bene: chiunque raggiunga la saggezza da vecchio, vi è arrivato attraverso gli anni. Stammi bene.
LXIX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Mutare te loca et aliunde alio transilire nolo, primum quia tam frequens migratio instabilis animi est: coalescere otio non potest nisi desit circumspicere et errare. Ut animum possis continere, primum corporis tui fugam siste. [2] Deinde plurimum remedia continuata proficiunt: interrumpenda non est quies et vitae prioris oblivio; sine dediscere oculos tuos, sine aures assuescere sanioribus verbis. Quotiens processeris, in ipso transitu aliqua quae renovent cupiditates tuas tibi occurrent. [3] Quemadmodum ei qui amorem exuere conatur evitanda est omnis admonitio dilecti corporis - nihil enim facilius quam amor recrudescit -, ita qui deponere vult desideria rerum omnium quarum cupiditate flagravit et oculos et aures ab iis quae reliquit avertat. [4] Cito rebellat affectus. Quocumque se verterit, pretium aliquod praesens occupationis suae aspiciet. Nullum sine auctoramento malum est: avaritia pecuniam promittit, luxuria multas ac varias voluptates, ambitio purpuram et plausum et ex hoc potentiam et quidquid potentia. [5] Mercede te vitia sollicitant: hic tibi gratis vivendum est. Vix effici toto saeculo potest ut vitia tam longa licentia tumida subigantur et iugum accipiant, nedum si tam breve tempus intervallis discindimus; unam quamlibet rem vix ad perfectum perducit assidua vigilia et intentio. [6] Si me quidem velis audire, hoc meditare et exerce, ut mortem et excipias et, si ita res suadebit, accersas: interest nihil, illa ad nos veniat an ad illam nos. Illud imperitissimi cuiusque verbum falsum esse tibi ipse persuade: 'bella res est mori sua morte'. Nemo moritur nisi sua morte. Illud praeterea tecum licet cogites: nemo nisi suo die moritur. Nihil perdis ex tuo tempore; nam quod relinquis alienum est. Vale.
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1 Non voglio che tu sia sempre in movimento e salti da un posto all'altro, innanzi tutto perché gli spostamenti frequenti sono indizio di un animo instabile: l'animo non può fortificarsi nel ritiro, se non smette di guardarsi intorno e di andare errando. Ferma per prima cosa la fuga del corpo per tenere a freno lo spirito. 2 E poi, i rimedi giovano veramente se sono continui: non bisogna interrompere la tranquillità e l'oblio della vita condotta in precedenza; lascia che i tuoi occhi dimentichino, che le tue orecchie si abituino a parole più sane. Tutte le volte che uscirai in pubblico, perfino di passaggio, ti si presenterà qualcosa che riacutizzerà i tuoi desideri. 3 Se uno tenta di liberarsi di un amore, deve evitare ogni ricordo del corpo amato (l'amore è la passione che riarde con più facilità); allo stesso modo chi vuole eliminare il rimpianto di tutto quello per cui bruciava di desiderio, deve distogliere occhi e orecchie da ciò che ha abbandonato. 4 Le passioni ritornano prontamente all'attacco. Dovunque si volgano, scorgeranno una ricompensa immediata al loro affaccendarsi. Non c'è male che non prometta un compenso. L'avidità promette denaro, la lussuria numerosi e svariati piaceri, l'ambizione cariche e favore e, quindi, potenza e quanto essa implica. 5 I vizi ti allettano con una ricompensa: al servizio della virtù devi vivere gratuitamente. Non basta la vita intera a domare e a soggiogare i vizi imbaldanziti da una sfrenatezza durata così a lungo, tanto più se un tempo così breve lo frantumiamo con continui intervalli; una qualsiasi impresa può a stento essere portata a termine con una cura e un'applicazione continue. 6 Dammi ascolto, medita e preparati sia ad accogliere la morte, sia a cercarla, se sarà necessario: non fa differenza se è lei a venire da noi o noi da lei. Convincitene: è falsa quella frase che dicono tutti gli uomini più ignoranti: "È bello morire di morte naturale". Tutti muoiono di morte naturale. Medita poi su questo: tutti muoiono nel giorno stabilito dal destino. Non perdi nulla del tempo che ti è stato assegnato; quello che lasci non ti appartiene. Stammi bene.

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