La disfatta di Varo (VERSIONE Velleio Patercolo)

L’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza di guerra, si trovò intrappolato, vittima dell'indolenza del suo generale, della perfidia del nemico, dell'iniquità della sorte e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di combattere liberamente, com'essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi ed al coraggio, da veri Romani, chiuso da un'imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà.

Il generale mostrò nella morte maggiore coraggio di quanto ne avesse mostrato nel combattere: erede, infatti, dell'esempio del padre e del nonno si trafisse con la sua stessa spada. Ma dei due prefetti del campo, Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di Ceionio il quale, quando la battaglia aveva già distrutto la maggior parte dei suoi, propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in battaglia. Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo ed onesto, fu autore di uno scellerato esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno. La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto.

Non sopravvisse, infatti, a quelli che aveva tradito, e morì da traditore. La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi. La sua testa tagliata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia.

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