La violenza della peste - Tucidide versione greco
La violenza della peste versione greco Tucidide
ἡ ἀπορία τοῦ μὴ ἡσυχάζειν καὶ ἡ ἀγρυπνία ἐπέκειτο διὰ παντός. καὶ τὸ σῶμα, ὅσονπερ χρόνον καὶ ἡ νόσος ἀκμάζοι, οὐκ ἐμαραίνετο, ἀλλ' ἀντεῖχε...
Senza pause li tormentava l'insonnia e l'impossibilità assoluta di riposare. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, nel periodo in cui la virulenza del male toccava l'acme, ma rivelavano di poter resistere in modo inaspettato e incredibile ai patimenti: sicché in molti casi la morte sopraggiungeva al nono e al settimo giorno, per effetto dell'interna arsura, mentre il malato era ancora discretamente in forze.
Ne rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani: molti, sopravvivendo al male, perdevano la facoltà di usare questi organi alcuni restavano privi anche degli occhi. Vi fu anche chi riacquistata appena la salute, fu colto da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stesso e da ignorare i suoi cari. Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità descrittiva: non solo i suoi attacchi si rivelavano sempre più maligni di quanto le difese a disposizione della natura umana potessero tollerare, ma anche nel particolare seguente risultò che si trattava di un fenomeno morboso profondamente diverso dagli altri consueti: tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri umani (molti giacevano allo scoperto) questa volta non si accostavano, ovvero morivano, dopo averne mangiato.