La passione d'amore - Versione latino Lucrezio

Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem,
nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem,
sed potius quae sunt sine poena commoda sumit;


nam certe purast sanis magis inde voluptas
quam miseris; etenim potiundi tempore in ipso
fluctuat incertis erroribus ardor amantum
nec constat quid primum oculis manibusque fruantur.
quod petiere, premunt arte faciuntque dolorem
corporis et dentes inlidunt saepe labellis
osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas
et stimuli subsunt, qui instigant laedere id ipsum,
quod cumque est, rabies unde illaec germina surgunt.
sed leviter poenas frangit Venus inter amorem
blandaque refrenat morsus admixta voluptas.
namque in eo spes est, unde est ardoris origo,
restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
quod fieri contra totum natura repugnat;
unaque res haec est, cuius quam plurima habemus,
tam magis ardescit dira cuppedine pectus.
nam cibus atque umor membris adsumitur intus;
quae quoniam certas possunt obsidere partis,
hoc facile expletur laticum frugumque cupido.
ex hominis vero facie pulchroque colore
nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
ut bibere in somnis sitiens quom quaerit et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
denique cum membris conlatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere inter dum velle et certare videntur.
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.


tandem ubi se erupit nervis coniecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat.
usque adeo incerti tabescunt volnere caeco.


Non si priva delle gioie del sesso chi evita di innamorarsi,
ne coglie anzi i piaceri senza averne a soffrire.
Chi é indenne dall'amore ne trae un piacere più puro
di chi ne è afflitto. Perché anche nel momento del possesso
si dibatte con smaniosa frenesia l'ardore degli amanti,
che non sanno cosa soddisfare per primi: se gli occhi o le mani.
Ciò che desiderano, lo tengono stretto procurando dolore
al corpo, conficcando spesso i denti nelle tenere labbra
e imprimendovi baci violenti. Segno che il loro piacere non è puro,
che uno spasimo segreto li porta a far male a quello stesso corpo,
qualunque esso sia, da cui nascono i germi della passione.
Ma per un attimo durante l'amore spezza Venere i suoi tormenti
e un piacere dolce si mescola ai morsi frenandone l'impeto.
La speranza è che il corpo stesso, da cui ha origine l'amore,
possa estinguerne la fiamma.
Ma la natura ci mostra che avviene tutto il contrario,
perché l'amore è l'unica cosa, che quanto più si possiede,
tanto più brucia il cuore di un desiderio irresistibile.
Il cibo e i liquidi si ingeriscono nell'organismo
e poiché occupano zone precise del corpo,
si soddisfa facilmente il desiderio di liquidi e cibi.
Viceversa dal volto, dal bel colorito di un essere umano
nessun appagamento viene al nostro corpo se non tenui
immagini: speranza misera che si dilegua spesso al vento.
Come nel sonno l'assetato prova a bere e non ha l'acqua
con cui estinguere l'arsura del corpo,
ma cerca parvenze di liquidi e inutilmente si dibatte
e in mezzo a un fiume in piena pur bevendo continua ad aver sete,
cosi in amore con vane parvenze Venere si fa gioco degli amanti,
che non riescono a saziarsi pur guardando da vicino il corpo amato
né possono con le mani strappare a quelle tenere carni
alcunché dibattendosi freneticamente per ogni parte del corpo.
E quando, infine, congiunti i loro corpi colgono il fiore
della vita, quando già il corpo pregusta il piacere
e Venere è sul punto di seminare i campi femminili,
stringono vogliosamente il corpo mischiando le salive
della loro bocca e ansimano premendo coi denti le labbra.
Ma tutto è inutile, perché nulla di lì possono strappare
né possono dissolversi nel corpo dell'amata con tutto il corpo.
Questo a volte sembra vogliano fare a ogni costo.
A tal punto stanno avvinti negli amplessi d'amore,
finché le membra si afflosciano spossate dalla forza del piacere.
E finalmente quando dalle viscere erompe il desiderio accumulato,
una breve tregua subentra per un pò alla furia della passione.
Ma subito la rabbia di prima ritorna e la foia li riprende
e allora si domandano cosa sia mai ciò che desiderano
né sanno trovare un rimedio che possa vincere il loro male.
Così sgomenti sono consunti da un'oscura ferita.

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